Jacinda Ardern, la politica come professione e la religione del lavoro

Jacinda Ardern, la politica come professione e la religione del lavoro. Una questione di genere. Una riflessione per tutti.

Le dimissioni anticipate, per sua volontà e scelta, della premier neozelandese Jacinda Ardern, sono un potente messaggio anche per noi, che viviamo dall’altra parte dell’emisfero. Ci dicono due cose importanti, e (ri-)aprono una questione che ci accompagnerà a lungo.

La prima considerazione, il primo messaggio, riguarda naturalmente la politica: le condizioni in cui si svolge, il coinvolgimento che richiede. Fare il politico (non c’è bisogno di essere primo ministro, lo sa anche un sindaco) è un mestiere totalizzante. Non è il solo, certo: dall’imprenditore al parroco, dall’operatore umanitario allo sportivo, lo possono essere molti altri, che tendono a mangiare tutto il tempo disponibile, se non si è capaci di porre loro dei limiti. A differenza di altri, tuttavia, un politico, specie di altissimo livello, non può scegliere: deve farsi coinvolgere, perché sono le urgenze, più che l’ordinaria amministrazione, a travolgere. In questi casi il limite è difficile da porre, nel corso dell’espletamento dell’incarico. Da qui il grande insegnamento delle cariche a termine, la saggezza del limite nel numero di mandati. E, anche, la diffidenza che dovremmo avere – e che invece ci manca totalmente – nei confronti di chi questi mestieri li pratica troppo a lungo, o peggio non sa farne a meno. Eppure il fatto che gesti come quelli di chi lascia in anticipo perché sente di non farcela più (da Jacinda Ardern a Benedetto XVI) ci facciano simpatia, dovrebbe farci capire la stortura e anche l’innaturalità diremmo patologica del comportamento opposto.

La seconda considerazione riguarda tutti noi: specialmente le culture e i luoghi in cui il lavoro è considerato alla stregua di una religione (come da noi). Noi crediamo di esserci liberati progressivamente dal lavoro, immaginiamo che le nostre società siano più avanzate e progredite perché ci consentono di guadagnare di più, e con questo di concederci lussi impossibili altrimenti. Il problema è che i veri lussi sono altri, e il primo di essi è precisamente quello di non dipendere più dal lavoro, non esserne schiavi. Che è un insegnamento che ci accompagna dall’inizio del mondo. Noi abbiamo un’idea distorta delle popolazioni dette primitive, quelle che vivevano di caccia e raccolta. Le compiangiamo, perché costrette a procurarsi il cibo tutti i giorni, altrimenti non avevano, letteralmente, di che vivere. Il problema, come ci insegnano da un lato le testimonianze di archeologi e paleontologi, dall’altro gli studi antropologici su popolazioni ancora esistenti in qualche landa del nostro mondo, e su culture diverse dalla nostra (come ‘L’economia dell’età della pietra’ dello studioso americano Marshall Sahlins), è che la nostra interpretazione della loro vita si fonda su un grande equivoco: è vero che la durata della loro vita era ed è minore, ma la qualità della medesima prevedeva di dedicare solo alcune ore alla ricerca di cibo, e il resto della giornata spenderlo, letteralmente, in chiacchiere, rituali, decorazioni, creazione di gioielli e ornamenti, feste, danze, giochi, riposo, stati alterati e ubriacature di qualche tipo, attività effimere come acconciarsi i capelli, truccarsi e tatuarsi, grattarsi e godere un qualche tipo di vita sessuale, di solito precoce e spesso promiscua. Non è un caso che il pensiero utopistico degli ultimi due secoli, accompagnato da molti tentativi di metterlo in pratica, dai primi anarchici alle comuni hippy, fino ai pragmatici cohousing urbani e alla progettazione di smart cities odierni, abbia dedicato molta attenzione (dal modo di lavorare ai trasporti, dalle concezioni del lavoro di cura alla vivibilità degli spazi collettivi e alla salubrità dell’ambiente) a lavorare meno e meglio (Keynes un secolo fa suggeriva che sarebbero potute bastare tre ore al giorno per soddisfare i bisogni dell’Adamo che è in noi…), e a dedicare più tempo a coltivare e favorire le relazioni, intese come piacere condiviso, con tempi e luoghi dedicati.

La questione che si (ri-)apre e che ci accompagnerà a lungo è invece, naturalmente, quella di genere. Sono più spesso le donne che si pongono (anche perché costrette a farlo dai ruoli così come concepiti nella nostra cultura attuale) il problema della conciliazione tra famiglia e professione, tra soddisfazione lavorativa e coltivazione di relazioni significative, tra ben-essere e guadagnare. Il problema è che non faremo sufficienti passi avanti se non diventerà una condizione comune, una aspettativa condivisa, trasversale ai generi.