Afghanistan: quel che possiamo fare

L’avventura afghana è finita male, malissimo. Per l’Afghanistan, in primo luogo. E per l’Occidente, che nonostante il tempo impiegato, il cospicuo investimento economico e militare, e nel nostro caso il dignitoso comportamento del contingente italiano, che ha contato i suoi eroi e le sue vittime, vedrà purtroppo crollare la sua credibilità sul piano geopolitico e su quello morale.

È una sconfitta, inutile girarci intorno. C’è un solo modo per salvare il salvabile della nostra dignità, della nostra coscienza, delle ragioni dichiarate della nostra presenza lì: aiutare gli afghani. Per l’Afghanistan come stato non possiamo fare più nulla, almeno nell’immediato. Ma per i singoli cittadini di quel martoriato paese possiamo fare ancora molto.

La prima cosa è far entrare in Italia tutti quelli che hanno collaborato a vario titolo con il contingente italiano, hanno fatto da interpreti ai nostri giornalisti, hanno lavorato con le nostre ONG, e i parenti a rischio di chi è già qui, integrato da noi (come avvenuto nel caso di Zahra Ahmedi, che ha raggiunto il fratello ristoratore a Venezia – e, non ne dubitiamo, si integrerà benissimo – grazie a una mobilitazione e a una solidarietà corale, dal presidente della regione Zaia in giù). Lo abbiamo promesso, e dobbiamo agire di conseguenza, e in fretta: come già si è cominciato encomiabilmente a fare. Di conseguenza occorre sospendere la richiesta dei visti d’ingresso, e implementare il ponte aereo già attivato.

Più in generale, occorre aprire corridoi umanitari mirati, in particolare per le categorie più a rischio: giovani donne, minoranze etniche, attivisti e attiviste. Chi ne ha già esperienza (Sant’Egidio, la chiesa cattolica e quella valdese) si è detto pronto ad agire: dietro di loro c’è un tessuto di volontariato e società civile attivo ed efficiente, che ha già dato ottima prova di sé per le altre persone arrivate in questo modo, meglio e più velocemente integrate di coloro che passano per gli ex-Sprar, e a costo zero per lo stato. Le organizzazioni islamiche in Italia sono pronte a collaborare aggiungendo la loro rete di solidarietà. Si tratta di riprendere idealmente quanto fatto in passato per i boat people vietnamiti, con numeri più ampi (allora, poco più di quarantadue anni fa, furono 907 i profughi salvati dalla Marina Militare, mandata appositamente nelle acque del golfo del Siam), ma comunque sostenibili. L’ANCI (l’associazione dei comuni), e molti sindaci di diverso colore politico, si sono già detti disponibili ad attivarsi, ed è un segnale che va colto: le regioni potrebbero e dovrebbero agire per semplificare loro la vita, aggiungendo risorse proprie. Reti di famiglie, associazioni e ONG sono pronte a mettersi a disposizione per collaborare, con ospitalità, raccolte fondi, corsi di lingua, inclusione in attività associative, ecc. Si tratta di agevolare la gestione di queste iniziative, più che di attivarle.

Per quelli che sono già qui, ci sono poche precise cose da fare: sospendere l’esame delle richieste di asilo pendenti nelle commissioni, approvandole in blocco. E sospendere le espulsioni dei richiedenti asilo afghani non riconosciuti come tali. Anche per loro, famiglie e associazionismo, organizzati, potrebbe dare una grossa mano. Ma c’è spazio anche per altri attori sociali. Le università, che già attivano progetti di accoglienza di studenti rifugiati, possono lanciare un piano straordinario di ospitalità di studenti e studentesse, e anche di docenti, provenienti dall’Afghanistan: il modo migliore per combattere la guerra nel solo modo efficace – con l’istruzione, per ragazzi e ragazze, invece che con le armi. Fondazioni bancarie e mondo delle imprese potrebbero fare la loro parte, in maniera mirata, nel sostenere tali iniziative.

Infine, occorrerà continuare a sostenere i cooperanti e le associazioni italiane presenti nel paese, tra cui gli ospedali di Emergency, e chi lavora nel campo dell’istruzione e dell’empowerment femminile, almeno finché potranno svolgere il proprio ruolo, che oltre a essere prezioso in sé, se non altro riverbera un’immagine positiva dell’Occidente: la migliore diplomazia.

Non spenderemo più soldi in una opinabile missione di pace (solo la parola, peace enforcing, contiene una contraddizione patente). Sarebbe un segnale di maturità dirottarli per attività, come quelle descritte, che la pace aiutano davvero a costruirla.

 

Che cosa possiamo fare noi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 agosto 2021, editoriale, p. 1

Il ruolo educativo di Gino Strada e di Emergency

Catania, incontro nazionale di EMERGENCY, 2019: decine di eventi, centinaia di volontari, migliaia di giovani. L’organizzazione compiva allora 25 anni, ed era al suo 18° incontro nazionale. Poco più che maggiorenne, insomma.
C’è anche questo nella storia di Gino Strada e di Emergency: l’elemento educativo. Non era e non è ‘solo’ (solo?) questione di aiutare chi ha avuto meno privilegi non giustificati da nulla, di salvare – molto concretamente e materialmente – vite umane ferite, non solo nel corpo. È stato ed è anche questione di coinvolgere persone e personaggi, di creare consapevolezza, di motivare azioni e collaborazioni, di far maturare solidarietà collettive.
In questo il carisma di Gino Strada, il suo ‘estremismo’ costruttivo, il suo essere forse suo malgrado personaggio ‘pop’, anche se preferiva di gran lunga tornare in sala operatoria, hanno aiutato molti, proprio sul piano educativo, della maturazione, del convincimento, del cambiamento anche interiore.
In un mondo che ha un disperato bisogno di simboli positivi, di esempi, di eroi anche, Gino Strada ha giocato questo ruolo: soprattutto in ambienti dove forse era meno usuale – dove c’era magari tanta disponibilità umana ma poche occasioni per esercitarla concretamente. E lo ha giocato perché non è stato solo un individuo più in gamba di altri, ma ha fatto nascere un’organizzazione, un marchio del bene se si vuole, un brand positivo, che ha consentito a tanti di sentirsi coinvolti e di coinvolgersi. Che è uno dei ruoli fondamentali dell’educazione propriamente intesa.

Torneremo a percorrere le strade del mondo – Recensione Marino Niola

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Robinson – supplemento Repubblica, 19 giugno 2021, pp.14-15

 

https://www.utetlibri.it/libri/torneremo-a-percorrere-le-strade-del-mondo/

Dopo il Covid. Appunti per una teoria della mobilità

Corriere Fiorentino___17-06-2021

 

I fermi obbligatori, i lockdown prolungati, le chiusure delle frontiere, ci hanno costretto a una situazione di immobilità involontaria. Ci siamo accorti che molte delle mobilità cui eravamo abituati, e che consideravamo necessarie, si sono rivelate superflue. Ma anche quanto la mobilità ci sia in sé necessaria. È il paradosso del Covid: il virus si è messo a viaggiare al nostro posto, costringendoci all’immobilità – condizione ideale per riflettere sulle ragioni della mobilità.

Siamo nati nomadi, e lo siamo stati per gran parte della nostra storia. Quando i nostri antenati Sapiens hanno lasciato l’Africa, da cui tutti proveniamo, e una migrazione dopo l’altra hanno abitato il pianeta, eravamo ancora cacciatori e raccoglitori che si procuravano il cibo spostandosi, poi pastori, e solo molto lentamente (e molto recentemente) siamo diventati stanziali, con l’invenzione dell’agricoltura, poi con l’urbanizzazione, che oggi coinvolge oltre la metà della popolazione mondiale. Siamo pronipoti di raccoglitori e cacciatori, e poi di pastori, prima che di contadini e poi di cittadini. Per questo, come diceva Bruce Chatwin, il nomadismo è nel nostro DNA, o almeno nella nostra memoria storica, nel nostro inconscio individuale e collettivo, e nella nostra esperienza passata, presente e futura, se è vero che oggi abbiamo ricominciato ad essere mobili, e lo siamo in misura maggiore rispetto ai nostri genitori e ai nostri nonni.

Partire da questa constatazione può aiutarci a mettere le basi di una teoria della mobilità: che includa il nomadismo, il desiderio di viaggiare, la brama di conoscere, i tanti complessi motivi che ci spingono ad andare altrove (magari solo per un poco, come nel turismo, o nelle serate fuori porta), ma anche le migrazioni, in entrata e uscita, e le loro nuove forme. C’è un filo che lega il ruolo del viaggio nelle mitologie e nelle religioni (pensiamo, nella Bibbia, ad Adamo ed Eva cacciati dall’Eden – il primo push factor – passando per Mosè e l’Esodo, fino all’incessante attività missionaria di Paolo), per arrivare, dopo l’età delle scoperte geografiche e delle colonizzazioni, alle migrazioni moderne, fino agli scambi Erasmus e ai giovani expat che lasciano l’Italia, oggi in numero superiore agli immigrati (non c’è alcuna invasione in corso: semmai un’evasione…): a testimoniare una circolarità globale che riguarda tutti i paesi (la Germania, per dire, primo paese europeo per arrivi di immigrati, è anche il primo per partenze).

Ma non si capisce la spinta all’erranza se non si affronta il suo contrario, il radicamento, la stanzialità: i due poli tra cui continuamente oscilliamo, talvolta scegliendo con decisione uno dei due, più spesso vivendoli entrambi, in momenti diversi della nostra vita, e persino contemporaneamente, vagheggiando l’uno mentre sperimentiamo l’altro. Anche le migrazioni vanno contestualizzate all’interno di questo quadro più ampio, ma comprese nella loro specificità, e quindi gestite – cosa che abbiamo smesso di fare quando abbiamo chiuso le frontiere all’immigrazione regolare, gettando le basi per l’esplodere di quella irregolare. Le frontiere non sono muri, sono modi per controllare i passaggi. Per questo governare le migrazioni si può: dunque si deve, nell’interesse nostro e dei migranti (quelli che vengono, e dovrebbero venire in altro modo, e quelli che vanno). Le analisi e le ricette ci sono. Quella che manca è la lucidità politica di volerlo fare: perché è più facile agitare il problema per acquisire consenso, o non affrontarlo per paura di perderne, senza analizzare vantaggi e svantaggi, costi e benefici, individuali e di sistema. È più semplice immaginare per gli altri respingimenti universali, muri e isolazionismi (per i quali pagheremmo un prezzo enorme), pretendendo al contempo per noi il diritto ad andare liberamente ovunque, senza accorgerci della contraddizione – senza nemmeno percepire quanto, quella relativa al diritto alla mobilità, sia una delle nuove forme della diseguaglianza.

Il Covid ci ha illuminati anche su altro: il nostro stesso rapporto con l’alterità. Il virus è stato anche questo: il nemico che veniva da lontano, l’immigrato indesiderato, l’irregolare da cui proteggersi, il clandestino che mette a repentaglio le nostre sicurezze, l’invasore che devasta a caso. E quindi capace di rinviare alle nostre pulsioni più profonde – e irrisolte – proprio intorno al tema cruciale della diversità, dell’estraneità, dell’alterità. Di cui ci ha aiutato a vedere le contraddizioni. E i modi per scioglierle. Perché, banalmente, se davvero vogliamo garantire la nostra possibilità e libertà di muoverci, di tornare a percorrere le strade del mondo, e incontrare altre persone, dovremo in qualche modo gestire e garantire anche quella altrui: con le regole e le cautele necessarie, come in ogni viaggio, e in ogni incontro con l’altro che esso implica. Peraltro, questo riguarda sia chi viaggia, sia chi incontra i viaggiatori: ormai l’altro si ha sempre più occasione di incontrarlo anche restando fermi. Per questo è indispensabile rifletterci sopra.

 

Dopo il Covid, una nuova Teoria della mobilità, “Corriere della sera – Corriere Fiorentino”, 17 giugno 2021, p. 1-14

Testo di presentazione di “Torneremo a percorrere le strade del mondo”, UTET, 2021  https://www.utetlibri.it/libri/torneremo-a-percorrere-le-strade-del-mondo/

Torneremo a percorrere le strade del mondo

Indice

 

Introduzione: Neanche il virus prossimo venturo ci fermerà

 

            Il Covid e noi

            Shut-in economy?

            Rivoluzione mobiletica e nuove diseguaglianze

 

Una storia che viene da lontano. Le ragioni della mobilità umana

 

            Piedi e radici

            Mitologia e religione

            Il caso europeo

           Le ragioni della mobilità…

           …e quelle delle migrazioni

 

Circolarità globale. Al di là di emigrazione e immigrazione

 

            Non aut aut: et et

            Nuove emigrazioni

            Tecnologie e mobilità

            Una fisiologica complessità

            Uno sguardo dall’alto

 

Tra erranza e radicamento. Appunti per una possibile teoria della mobilità

 

            Una premessa biografica

            Metafore della contemporaneità

           Ridiventare nomadi?

          La viandanza e la restanza

          Nel segno di Hermes 

 

Per una politica della mobilità e delle migrazioni. Proposte

 

            Governarle si può. Dunque, si deve.

            Se fossi ministro… Il coraggio della complessità

            Demografia, immigrazione, emigrazione

            Quali politiche sull’immigrazione: linee guida

            Le cose da fare, in dettaglio

 

Conclusione: Il virus, l’altro, l’altrove. Approssimazioni

 

Nota. La sociologia come genere letterario

Ringraziamenti

Bibliografia raccontata

 

Senza radici

Siamo come zattere nella corrente. È la condizione umana d’oggi. Il mondo cambia a una velocità sempre maggiore, e noi non riusciamo a stargli dietro. Anche quando stiamo fermi, ci muoviamo: inconsapevolmente, ineluttabilmente. Solo, ci muoviamo più lenti del nostro tempo. E non potrebbe essere altrimenti. La corrente profonda è più veloce: noi, in superficie, veniamo trascinati piano, ma ci muoviamo lo stesso, volenti o nolenti. Ogni tanto, trasportati dalla corrente, ci tocca un breve tratto in una rapida, talvolta ci fermiamo in un’ansa quieta o in qualche gora, ma poi la corrente ci riprende, e ci trascina. E così vediamo il paesaggio, lentamente o a tratti anche in fretta, cambiare intorno a noi: perdiamo punti di riferimento familiari, ne guadagniamo altri, talvolta ci perdiamo.

Il paesaggio cambia perché cambia il mondo intorno a noi, in tutti sensi: cambiano le mode, soggette alla tirannia della novità a tutti i costi, del nuovismo, cambia la tecnologia – e ci cambia – obbligandoci a un suo utilizzo sempre diverso, cambiano i valori di riferimento delle persone, cambia la loro situazione personale e familiare, cambiano i partiti e la politica, cambiano gli abitanti del quartiere, e alcuni nuovi vicini parlano vestono e pregano diversamente da noi, cambia la proprietà del negozio all’angolo, la panetteria lascia il posto a un negozio di abbigliamento…

Il paesaggio che noi immaginiamo fisso, in realtà muta. Qual è il problema? In un paesaggio fisso mi familiarizzo e ho molte certezze: le case intorno, il giardino, la chiesa, il negozio trasmesso di padre in figlio – e le persone che incontro, più o meno sono quelle, capita spesso di ritrovare volti familiari. Nella vita di prima, era tutto abbastanza prevedibile e certo. Oggi non è più così: non riusciamo più a familiarizzarci a lungo – e se ci riusciamo, o lo vorremmo, ci pensa la realtà, con i suoi cambiamenti, a de-familiarizzarci.

Difficile mettere radici, in una società riflessiva, come la chiama Giddens: che potenzialmente ha mille risposte ad ogni domanda, e proprio per questo ci costringe a farci molte più domande, a restringere l’orizzonte del mondo che possiamo dare per scontato.

In una società ipoteticamente immobile (che non esiste: oggi è persino un’impossibilità tecnica), non hai bisogno di farti molte domande perché hai quasi solo certezze. Non devi cercare delle risposte, perché le hai già: il mondo è quello che è, o almeno quello che sembra. Oggi non è più così.

Vale per tutto: per i processi educativi, per le trasformazioni economiche, per l’innovazione tecnologica, per le cure, pensate oggi ai vaccini… Come si fa a vivere in una società così? Forse solo in un modo: se il paesaggio cambia, e non ho più punti di riferimento terrestri a disposizione, devo imparare a collocarmi, come facevano già dall’antichità i marinai o i nomadi del deserto, cercando punti di riferimento altrove, in alto, tra le stelle. Ancorandosi lì anziché sulla terra. Utilizzando, per farlo, strumenti inventati allo scopo: la bussola, il sestante, le mappe astronomiche.

È curioso e significativo che un’epoca che parla continuamente di radici (le radici etniche di un popolo, le radici cristiane dell’Europa…) – e di identità, facendo finta che siano immutabili, musealizzandole, creandoci intorno degli assessorati ad hoc – sia poi costretta a cercarsele in alto, nel mondo dei valori, a riprova di quanto diceva Paul Claudel: che sono due le cose che sorreggono un albero, le radici in terra, e la vastità del cielo che lo circonda. Per certi versi più la seconda che le prime: o almeno l’una dà un senso all’altra, la proiezione alla stabilità. E forse anche questo spiega la relativa sottovalutazione delle radici da parte dei Vangeli, che dopo tutto ci ammoniscono: “dai loro frutti li riconoscerete…”. Da quello che viene, non da dove si viene.

Radici significa anche memoria, e dunque conoscenza, è vero. Ma che le radici si limitino a scavare nella terra, facendo vivere l’albero nel proprio solipsismo, è un mito, una nostra distorsione percettiva dovuta a un immaginario individualista che potremmo qualificare di ideologico. Là sotto c’è un’intensa attività di scambio, di incontro, di arricchimento reciproco, di mutuo sostegno, con altre radici e altre forme di vita: proprio come là sopra. È una forma di vita simbiotica, quella degli alberi: come tutto, in natura. E con tutto si intreccia, si trasforma, cambia. Per noi, che nasciamo bipedi, il territorio di riferimento (e non solo in senso fisico, geografico) non è più necessariamente quello in cui nasciamo: è dove decidiamo di mettere radici. Salvo la possibilità di toglierle da lì, se lo vogliamo.

 

Senza radici, in “Confronti”, rubrica ‘Il mondo se…’, aprile 2021, p. 38

Rischio, sicurezza, garanzie: che idea ne abbiamo, come ci comportiamo

Di fronte ai rischi, assumiamo un atteggiamento ambivalente. Da un lato ci piace correrli, e ci piacciono gli eroi (anche negativi: banditi, criminali, terroristi, oltre che poliziotti e soldati) che li affrontano, delle cui avventure ci nutriamo nella letteratura, nel cinema, nel binge watching bulimico delle serie televisive. E dalla fiction passiamo volentieri a seguire le gesta ben sponsorizzate dei protagonisti di sport estremi, lasciandoci ammaliare dalla retorica del no limits, con i suoi martiri occasionali. Fino a che non la viviamo personalmente, questa voglia di toccare il pericolo, di andare oltre l’ordinario – occasionalmente, e specificamente in alcune età della vita: nell’azzardo di un sorpasso, nell’esaltazione dell’alcol o di una sostanza psicotropa che altera il nostro stato psichico, illusoriamente facendoci diventare altro dai più prudenti noi stessi dei giorni e dei mondi feriali, o infine nel rischio mal calcolato del gioco d’azzardo, che forse spiega la diffusione delle ludopatie di massa, dalle forme apparentemente innocue e casalinghe del lotto e delle lotterie fino all’atmosfera più glamour dei casinò.

D’altro canto, passiamo la vita – per obbligo o personale cautela – ad assicurarci su tutto: non solo l’automobile, ma la casa, gli infortuni, i rischi professionali (dai medici ai legali a molti altri non possono semplicemente più prescinderne), la vita stessa, nostra e dei nostri cari. E a proteggerci in tutti i modi: dalle ginocchiere e gomitiere dei giochi dei bambini e di sempre più numerosi sport, al casco diventato oggetto onnipresente per proteggere sé stessi e soprattutto i propri rari e perciò preziosissimi ragazzi (prima solo in motorino, poi, retrocedendo, in bici, sugli sci, in triciclo, e persino a casa, non sia mai dovessero incocciare in uno spigolo, peraltro ammorbidito da specifiche arrotondate protezioni), dalle cinture di sicurezza di seggiolini e seggioloni agli airbag moltiplicatisi sulle nostre auto e che oggi ci accompagnano anche sulle giacche sportive.

È lo stesso atteggiamento ambivalente che ci ha accompagnato durante la pandemia. Da un lato ci mettiamo mascherine e ci copriamo di gel antisettico, ma soggettivamente sfidiamo (alcuni di noi, o forse tutti, un momento o l’altro) la sorte, incontrando qualcuno senza precauzioni, sperando in bene. E dallo stato vorremmo che ci tutelasse, proteggesse e curasse nel momento del bisogno, nonché vaccinasse in via preventiva, salvo ribellarci ai vincoli – precauzionali o appunto vaccinali – che ci impone: e nel mentre ci sfoghiamo con un “dalli all’untore” di fronte al primo solitario sportivo, salvo assumerne il ruolo se e quando si manifesta l’occasione.

Ma si tratta di un processo lungo della storia nel quale siamo immersi. L’uscita dall’incertezza, dall’imprevedibilità, dai capricci della natura e della disponibilità delle sue risorse, è una parte fondamentale dell’impresa umana: disporre di cibo anche per il domani e non solo per l’oggi è ciò che ci ha spinto dalla originaria vita in tribù di cacciatori e raccoglitori all’allevamento, poi all’agricoltura, quindi alla sedentarizzazione e infine all’urbanizzazione. E nell’ultimo secolo e mezzo è la storia del diffondersi dei diritti (soprattutto, a questo proposito, quelli sociali) e delle garanzie, del welfare state, l’universalizzazione dell’idea di un diritto alla pensione, cioè a un reddito, anche se non si produce e non si lavora più. Una storia recente, peraltro, che non è detto sia irreversibile: anche nelle società sviluppate ci si sta dividendo sempre più tra garantiti e non garantiti, tra chi è dentro e chi è fuori dai sistemi di protezione. Con alcune fasce di popolazione, e anche fasce d’età, meno protette: e con tendenze che lasciano presagire una transitoria inversione di rotta, visto che i meno garantiti, oggi, sono i giovani. Che, rispetto alle generazioni che li hanno preceduti, entrano tardi, a prezzo di lunghe teorie di stage, apprendistati, mansioni sottopagate, o regolarizzate solo in parte, nel mondo del lavoro, e non necessariamente in quello protetto, e quindi con meno garanzie future, anche previdenziali.

Ma la richiesta di protezione continuerà. All’interno delle singole nazioni, e tra nazioni: le migrazioni si spiegano anche con questo motivo. Quello di essere come gli uccelli del cielo e i gigli del campo resterà un richiamo ai veri valori della vita: e solo per alcuni una proposta di come condurla.

 

Senza garanzie, in “Confronti”, marzo 2021, p. 38, rubrica ‘Il mondo se’

Allievi: “I garantiti si sono tenuti stretti i privilegi, gli altri ne hanno pagato il prezzo”

Un’intervista a Venezie Post – 6 marzo 2021

ANALISI & COMMENTI

Allievi: “I garantiti si sono tenuti stretti i privilegi, gli altri ne hanno pagato il prezzo” – VeneziePost

Il suicidio di Omar Rizzato è il disperato grido di una intera categoria di lavoratori dimenticati. Citando Durkheim, anche l’atto individuale per eccellenza ha determinanti sociali: e la totale mancanza di solidarietà e attenzione rispetto al prossimo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi ne è la dimostrazione. Parla Stefano Allievi, professore di sociologia all’Università di Padova e acuto osservatore delle trasformazioni economico, sociali e culturali del Paese

 

Prof. Allievi, martedì scorso è uscito sul Corriere del Veneto un suo articolo su “I dimenticati della cultura”. Da cosa è scaturito il bisogno di scriverne?

“Mi sento molto vicino alle persone che sono state direttamente colpite dalle situazioni di forte ingiustizia causate non tanto dalla pandemia in sé, ma piuttosto dalle misure che sono state messe in atto per contrastarla. Il suicidio di Omar Rizzato, imprenditore dello spettacolo che si è tolto la vita all’interno della sua azienda ferma da un anno, è il disperato grido di una intera categoria di lavoratori, appunto, dimenticati. Citando Durkheim, anche l’atto individuale per eccellenza ha determinanti sociali: e la totale mancanza di solidarietà e attenzione rispetto al prossimo a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi ne è la dimostrazione. Le categorie più garantite si sono tenute strette i propri privilegi, e tutti gli altri ne hanno pagato un caro prezzo. Ad Omar Rizzato, così come a tutti i lavoratori della cultura e dello spettacolo, è stato tolto persino il diritto di affogare i propri dispiaceri nel lavoro. E così, come molti altri prima di lui, non ha avuto alcuna valvola di sfogo per i propri dispiaceri.”

Ritiene che i lavoratori della cultura siano stati abbandonati a sé stessi?

“In questi mesi si è parlato molto di alcune categorie lavorative, come quelle della ristorazione e del turismo, ma quella della cultura sembra non interessare nessuno. Tutto ciò che questa categoria di lavoratori ha ricevuto, in un anno di silenzio, sono stati dei ristori a dir poco ridicoli. Ma si tratta di persone che per anni hanno pagato un prezzo di precariato già molto alto: chi fa questi lavori spesso lo fa per passione e senza alcuna garanzia di successo, ma da un anno a questa parte non è permesso fare nemmeno questo. E le conseguenze di questo disinteressamento si vedono: nella città in cui io lavoro, Padova, c’è un potenziale di creatività straordinario dovuto alla presenza di moltissimi giovani studenti; ma l’apertura è poca e l’immobilità si fa sentire. Questo è uno dei motivi che portano al tanto discusso fenomeno della fuga dei cervelli.”

Crede che il disinteressamento sistematico rispetto alla categoria dei lavoratori dello spettacolo possa essere un sintomo della tendenza, tutta italiana, a sminuire il valore della cultura?

“Non ho dubbi su questo. Il nostro è il Paese con il più alto tasso di patrimonio storico e culturale del mondo, eppure non lo tuteliamo. La cultura è il petrolio della nostra economia, ma non la valorizziamo. Allo stesso modo, invece di dare valore ai nostri giovani laureati, mettiamo loro i bastoni tra le ruote e li costringiamo a prendere la decisione di emigrare all’estero. In testa alle classiche sull’emigrazione non ci sono le regioni del sud, ma quelle del nord produttivo: l’Emilia-Romagna costituisce una felice eccezione, in quanto è riuscita a ridurre la cosiddetta emigrazione intellettuale grazie a degli investimenti ad hoc nei settori produttivi e nei distretti. La Lombardia, pur prima regione come emigrazione, ha comunque un saldo positivo. La situazione del Veneto, invece, è agghiacciante: esportiamo verso l’estero e le regioni connanti più laureati di quanti ne importiamo dall’estero o dal sud, e siamo così l’unica grande regione del nord ad avere un saldo negativo. Nonostante la tragicità di tutto ciò, però, l’unico fenomeno che sembra interessare il dibattito politico è quello dell’immigrazione, che per inciso, se confrontiamo gli sbarchi con gli emigranti, riguarda numeri di circa venti volte più piccoli rispetto a quelli dell’emigrazione. Il nostro è un Paese che disprezza l’istruzione: l’analfabetismo funzionale colpisce quasi un italiano su tre, il doppio della media europea, e abbiamo la metà dei laureati, ma il dibattito pubblico non sembra considerarlo un problema. Da un tessuto sociale di questo tipo, che non comprende l’importanza di un investimento massivo in cultura, istruzione, ricerca, non ci si può aspettare che la politica comprenda i benefici collettivi che questo potrebbe apportare all’intera società.”

La crisi dell’ultimo anno non ha colpito tutte le categorie demografiche allo stesso modo. Ha fatto scalpore il dato Istat di dicembre 2020: 101 mila posti di lavoro persi in un solo mese, 99 mila dei quali occupati da donne. Cosa pensa rispetto al divario di genere e alla sua relazione con quello generazionale?

“Le discriminazioni di quelle che io chiamo le “3 G” si intersecano in continuazione: i divari di genere e generazionali si incrociano con quello tra garantiti e non garantiti. E così il discorso sul divario di genere non può prescindere da quello del conitto generazionale, né tantomeno da quello del lavoro precario o invisibile. Soprattutto in un momento di profonda crisi come quello attuale. La nostra è una società a misura di anziani: i pensionati rappresentano la metà degli iscritti a sindacati e parte preponderante degli iscritti e della constituency dei partiti, per cui non sorprende che si facciano sempre più leggi a favore di categorie che già possiedono molte garanzie. Giovani e donne dovranno anche fare i conti con l’immobilismo e la mancanza di meritocrazia, le piaghe moderne che afiggono la nostra società. La lotta per la meritocrazia da parte di tutte le categorie svantaggiate non può che giovare all’intero sistema Paese, ma credo sarebbe salubre anche una maggiore dose di conitto intergenerazionale e di genere rispetto all’attuale allocazione delle risorse.”

 

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Come ci ha cambiati il 2020

rivista “Il faro”, Treccani.it
3 gennaio 2021

Come ci ha cambiati il 2020

Tentare un bilancio del 2020 fa misurare plasticamente l’inutilità di ogni previsione. Astrologi, scansatevi. Futurologi, nascondetevi. Nessuno, a dicembre 2019, avrebbe potuto anche solo lontanamente immaginare quello che è successo.

E che cosa è successo? O meglio: che cosa è successo veramente? Perché i fatti, sì, più o meno li conosciamo: è arrivato un virus inaspettato e impensabile, la cui conseguenza è stata una pandemia che ha fatto ammalare e poi morire un po’ di gente, producendo degli effetti collaterali sulle relazioni sociali (quello che avremmo imparato a chiamare distanziamento), che a sua volta ha prodotto una crisi economica più seria di altre. Tutto qui, potremmo dire. Niente di tragico, in fondo, o di realmente rovinoso. La storia ci ha abituato spesso a scenari di questo genere, e anche solo nel secolo che ci sta alle spalle ne abbiamo vissuti di ben altrimenti catastrofici: cos’è qualche decina di migliaia di morti, per lo più anziani, e una perdita di ricchezza intorno al 12%, di fronte alle distruzioni di una guerra, al sacrificio di intere giovani generazioni, o agli orrori quotidiani di un totalitarismo, per dire? Ma in realtà c’è stato qualcosa di più e di più profondo: che ha cambiato più che in altri momenti il clima emotivo in cui siamo immersi. Con conseguenze più serie di quelle che ci si sarebbero legittimamente potute aspettare, esercitando l’analisi del presente con un minimo di distacco critico.

In realtà, quello che è avvenuto, è stato uno stop brusco a una corsa forsennata, di cui non avevamo chiarissima la direzione, e le cui premesse erano fondate su basi meno solide di quelle che ci raccontavamo. Che ci ha costretto a una presa di coscienza brutale e improvvisa: che stiamo appena cominciando a metabolizzare e razionalizzare – ma che abbiamo cominciato subito a sentire. Ed è questa la parte più importante. Quella che improvvisamente ha reso di attualità tutte le distopie che consumavamo avidamente nella science fiction dei romanzi e delle serie televisive. Facendoci misurare di nuovo con paure antiche e potenti, precipitandoci in una crisi economica più grave di quanto mostrino i numeri (perché è orribilmente mal distribuita, è una crisi di senso e di fiducia nella bontà del sistema), trasformando radicalmente la nostra gerarchia di aspettative, aprendo a scenari di limitazione – consentita, se non consensuale – delle nostre libertà che avremmo considerato inaccettabili fino al giorno prima. E tutto ciò, prima ancora di capirlo – ancora non lo capiamo veramente – lo percepiamo.

Questo, è successo. Che ci siamo scoperti fragili: come individui, alla mercé di un nemico invisibile (e proprio per questo più terrorizzante, come nei film horror), come collettività e comunità (obbligati a distanziarci per non più esserlo), e come sistema (economico, ma anche decisionale e quindi politico: tuttora impallato in un groviglio di incompetenza, inadeguatezza, pressapochismo, impreparazione, lentezza di reazione e ritardi da cui non sembra saper uscire). Il tutto immerso in una bulimica quotidiana insopportabile ossessione ed esposizione mediatica, che nulla produce sul piano informativo, e moltissimo contribuisce all’isteria collettiva, e ad alimentare in un circolo vizioso di cui assurdamente non ci rendiamo conto proprio i timori che dovrebbe aiutarci a comprendere ed esorcizzare.

Abbiamo riscoperto che la morte esiste ed è persino possibile, cosa che – credendoci amortali – avevamo rimosso (ancora una volta, come individui, come collettività e come sistemi). Lo stesso per la malattia e per il male, che eravamo assurdamente convinti fossero due cose diverse, e invece abbiamo riscoperto uniti non solo nell’origine della parola (mentre ancora non abbiamo riscoperto che pure salute e salvezza originano dalla medesima parola, salus, che infatti in latino traduce entrambe le cose).

Abbiamo dovuto prendere atto che la nostra società è attraversata e inibita da mali pesanti e di lungo periodo, che molto hanno contribuito alla crisi di senso e di fiducia di cui sopra, e che le decisioni prese hanno peraltro aggravato drammaticamente: pensiamo in particolare alle diseguaglianze già evidenti, che ci hanno resi diversi di fronte al destino, che forse di fronte al virus dovremmo ricominciare a chiamare fato. Diseguaglianze di fronte alla morte e dentro la vita, dovute alle “3 G” che sbilanciano le nostre società: tra garantiti e non garantiti, tra generi e tra generazioni[1]. Tra chi ha potuto mantenere un reddito sostanzialmente inalterato (titolari di un reddito fisso – un salario pubblico, pensioni, ma anche rendite – e pezzi significativi di privato che l’hanno visto anche accrescersi) e chi invece l’ha perso in tutto o in parte. Tra maschi e femmine, in un Paese in cui erano già ben visibili, e molto più lente a ridursi rispetto ad altri Paesi sviluppati con cui amiamo compararci: perché il costo vero delle scelte fatte e ancor più non fatte (si pensi al disinteresse per la scuola e i bambini) si è scaricato soprattutto sulle donne, costrette a rinunciare a redditi già prima più bassi per occuparsi della prole, di cui improvvisamente non si è occupato più nessun altro, né istituzioni né servizi. Tra le fasce di popolazione più anziane e quelle più giovani, già gravissime prima, in un Paese con la natalità più bassa d’Europa, il maggior disequilibrio negativo tra nati e morti, l’età media più elevata, le proiezioni più drammatiche nel rapporto tra popolazione attiva e pensionati (che potrebbe diventare di uno a uno tra poco più di vent’anni), la permanenza crescente dei giovani nelle famiglie d’origine (un impressionante due terzi nella fascia 18-34 anni), la più alta disoccupazione giovanile e il più elevato numero di NEET, sulle cui spalle in pochi mesi abbiamo caricato quasi duecento miliardi di ulteriore debito pubblico, in misure non strutturali e quindi spesso di dubbia utilità per loro, e di cui rischiano quindi di beneficiare molto poco, rispetto ad altri. E tutto questo perché le decisioni le hanno prese soprattutto le persone appartenenti al lato già più avvantaggiato delle tre fratture esaminate: garantiti, maschi, anziani.

Questo quello che abbiamo scoperto o riscoperto. Insieme ad altre cose. Relazioni, sì, l’abbiamo capito che servono: e possibilmente recuperando solidarietà ed empatia. Spazio: quando ci hanno rinchiusi, ne abbiamo compreso l’importanza. Aria, possibilmente pulita: quando ce ne hanno lasciata solo un’ora, come i carcerati, abbiamo capito quanto fosse preziosa. Tecnologia: il salto quantico che abbiamo fatto, irreversibile, ci ha cambiati e ha cambiato la società – pensiamo alla scuola e all’istruzione, non solo allo smart working – più di quanto ci siamo accorti (ma rischia anch’esso di aggravare le diseguaglianze tra chi può e sa accedervi e chi no). Ma, sorprendentemente, proprio nei mesi di lockdown in cui non ci siamo nutriti d’altro, e non avremmo saputo come passare le nostre giornate senza (cosa sarebbero state le nostre giornate senza film e serie televisive, senza musica, senza libri, senza tutte le cose lette, scritte e viste on-line?) dichiaravamo nei sondaggi che il settore meno importante della società era la cultura, e l’abbiamo chiuso senza pietà, lasciandolo solo e privo di aiuti.

Quello che invece ci manca ancora da riscoprire (potremo farlo solo quando ci saremo ripresi dalla botta emotiva e, smettendo di leccarci le ferite, ci daremo da fare per riscostruire, aprendoci quindi inevitabilmente alla fiducia e alla speranza che ogni progettualità implica – dunque da qualche parte nel prossimo futuro) è la virtù della resilienza: perché il contrario di fragilità non è forza, come spesso crediamo, ma, appunto, resilienza. Non un vago e vacuo ottimismo, ma la capacità di riconoscere, nel bicchiere mezzo vuoto, il bicchiere mezzo pieno, le opportunità, quindi, e gli strumenti per superare le difficoltà.

 

[1] Ne ho parlato in Tre linee di frattura (in Il mondo dopo la fine del mondo, Laterza, 2020, pp. 3-12), e alcune sono ampiamente delineate in La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ce la può fare, Laterza, 2020, uscito appena dopo il primo lockdown, delle cui conseguenze già teneva conto.

 

Perché la scuola non interessa a nessuno

Perché, a differenza che negli altri paesi europei, in caso di lockdown, la scuola è sempre la prima a chiudere e l’ultima a riaprire? Perché, apparentemente, agli italiani – o, almeno, ai governi di ogni livello territoriale – la cosa sembra non interessare? Le risposte sono molte. E sono istruttive su come funziona, o disfunziona, il paese.

Intanto, chiudere le scuole è la risposta semplice e immediata a un problema più complesso ma non irrisolvibile: la gestione dei trasporti. L’abbiamo già visto: le scuole sono in sé piuttosto sicure (perché hanno lavorato per esserlo), i viaggi da e verso di esse per nulla. Chiudere le scuole ha consentito di continuare a non approntare un piano trasporti che non c’era alla riapertura e continua a non esserci adesso. Perché lavorare, prepararsi, gestire, organizzare? Fatica sprecata: si fa prima a chiudere… Come se fosse una catastrofe naturale, invece che una responsabilità politica che travolge ogni livello di governo: nazionale, regionale, locale.

Dietro questa abdicazione, di cui sorprendentemente nessuno chiede conto, ci sono ragioni profonde, che portano a responsabilità culturali e sociali, non solo politiche, diffuse.

Una società poco meritocratica, e per questo ingiusta, per definizione investe poco sull’istruzione, che è il meccanismo più democratico per aumentare la mobilità sociale: da noi drammaticamente scarsa, in un paese in cui tuttora la metà degli architetti, dei medici, dei notai, e d’altro canto degli operai, è figlia di genitori con lo stesso mestiere. Ma non c’è nemmeno la percezione della sua utilità economica. Non si spiega altrimenti come mai l’istruzione non sia la priorità principale, in un paese che ha la metà dei laureati e il doppio degli analfabeti funzionali (ben il 30%, un cittadino su tre!) della media europea: dove gli investimenti in ricerca e sviluppo sono scarsi, e gli interventi strategici sulla knowledge economy (quella più ricca, che paga salari più alti, con ricadute maggiori sul futuro delle città e della società) lasciati alle imprese anziché accompagnati dalla mano pubblica e da una visione d’insieme.

C’è poi un problema culturale di lungo periodo. Una società paternalista e culturalmente maschilista, in cui i decisori pubblici sono ancora in maggioranza uomini, si pone malvolentieri un problema che li riguarda poco: conciliare i tempi dell’accudimento della prole e quelli del lavoro. Con il risultato che il prezzo maggiore della chiusura delle scuole, in termini di perdita di occupazione, di difficoltà familiari e di aumento del carico lavorativo domestico, lo hanno pagato e continuano a pagarlo le donne: facendo fare passi indietro non solo all’occupazione femminile, ma anche al sistema di diritti conquistato in questi decenni.

Arriviamo così alla fine del ragionamento. Le scuole sono state lasciate sole. Si è investito un po’ di denaro (non abbastanza, in confronto a quello buttato in politiche meramente assistenzialistiche: la sola Alitalia ha ricevuto molto di più di tutta la scuola italiana), qualche cosa gli istituti scolastici sono riusciti a fare in termini di adeguamento delle strutture, molto meno in termini di formazione dei docenti, che hanno fatto in gran parte da soli, e si è fatto zero a valle, a sostegno dei diritti delle famiglie e degli studenti più poveri e fragili, lasciati senza supporti informatici, senza banda gratuita, senza luoghi e momenti di accompagnamento scolastico, senza doposcuola, senza niente di niente (altro settore in cui le responsabilità coinvolgono anche regioni ed enti locali, ciò che spiega il silenzio delle istituzioni: il poco che si è fatto è soprattutto merito del volontariato e del terzo settore). E ancora non c’è traccia di un qualche piano B, almeno per l’immediato futuro: accorciare le vacanze natalizie in arrivo e organizzare corsi di recupero per quelli che hanno potuto seguire la didattica a distanza poco e male, attivare aiuti alle famiglie cospicui (non solo denaro e strumenti, ma formazione), formare vecchi e nuovi docenti alle nuove metodologie d’insegnamento (e non solo alle nuove tecnologie), ecc. E lavorare per organizzare il futuro, non solo tamponare il presente in attesa di un vaccino che, se tutto va bene, arriverà a tutta la popolazione ad anno scolastico terminato, quando il danno alle generazioni più giovani – irreversibile – sarà ormai fatto.

 

 

Scuola, colpevoli impuniti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 novembre 2020, editoriale, p. 1