"Immigrazione. Cambiare tutto". Un'intervista per letture.org
https://www.letture.org/immigrazione-cambiare-tutto-stefano-allievi/ Continua a leggere
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Riccardo Liberatore – 20/01/201921:26Aggiornato 21/01/2019 15:09
Secondo i dati del «Forum economico mondiale» in Italia la percezione degli immigrati è molto più negativa della media europea. L’intervista di Open al Professor Stefano Allievi Continua a leggere
Qui il link alla puntata di sabato 15 settembre 2018 della trasmissione “Segni dei tempi”, andata in onda sulla tv Svizzera RSI La1
Intervista a cura di Paolo Tognina
Immigrazione: bisogna cambiare tutto
https://www.rsi.ch/la1/programmi/cultura/segni-dei-tempi/Immigrazione-bisogna-cambiare-tutto-10825346.html
una lunga videointervista che spiega ed elabora i contenuti del libro “Immigrazione. Cambiare tutto”
grazie a Marzia Tomasin per la pazienza…
Intervista su “Voce evangelica”, con link a intervista radio RSI
http://www.voceevangelica.ch/voceevangelica/home/2018/08/stefano-allievi.html
https://www.rsi.ch/rete-uno/programmi/cultura/chiese-in-diretta/Immigrazione-cambiare-tutto-10669383.html
Mezz’ora di intevista per la Radio Svizzera RSI
A cura di Italo Molinaro e Paolo Tognina
5 agosto 2018, ore 8,30
Il sociologo interviene oggi nel primo giorno del festival di Gorizia con una conferenza-spettacolodi ALEX PESSOTTO
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Di fronte ai tanti interrogativi che si avvertono al solo sentir parlare di richiedenti asilo, rifugiati, profughi e di tante altre categorie che definiscono chi percorre le strade della mobilità, l’ultimo libro di Stefano Allievi sembra avere più di una certezza: “Immigrazione: cambiare tutto” (Laterza, pagg. 145, euro 14) è il suo titolo. èStoria 2018 non poteva trascurarlo: “Migrazioni”, infatti, è il tema dell’edizione quattordici della kermesse goriziana di cui il sociologo, docente all’università di Padova, sarà ospite oggi, alle 16.30, alla Fondazione Carigo, per presentare (in collaborazione con vicino/lontano-Premio Terzani) la sua ultima fatica in una lezione-spettacolo, e alle 19, alla tenda Erodoto dei Giardini pubblici per dialogare con il candidato al Nobel per la letteratura Boualem Sansal in un incontro dal titolo “Totalitarismo islamista e migrazioni”, coordinato da Andrea Bellavite.
Cos’è, prima di tutto, che va cambiato?
«Due fattori – risponde Allievi -: lo sguardo che poniamo sulle migrazioni e le soluzioni che adottiamo, o che non adottiamo, per i problemi ai fenomeni migratori legati».
Cominciamo dal primo: lo sguardo.
«In molti non sanno né le cause né le conseguenze delle migrazioni, ad esempio a livello demografico: l’Europa si sta svuotando. Il nostro Paese, dati Istat recenti, perde popolazione italiana e straniera. E la nostra unica preoccupazione è data solo dai fenomeni migratori».
È una preoccupazione infondata?
«Certo che no: gli arrivi non dovrebbero avvenire così come avvengono, ma noi siamo preoccupati del fenomeno in sé e ciò è riduttivo. Da noi, come in Francia e, ancora di più, come in Spagna, ci sono più emigranti che immigrati. Se non arrivasse nemmeno un immigrato, non cambierebbe il nostro numero di emigranti. Il massimo della disoccupazione in Italia è al Sud, ma il massimo numero di immigrati è al Nord. In Friuli Venezia Giulia, dal 2015, per ogni cittadino sotto i 15 anni ce ne sono due sopra i 65. Quindi, gli anziani sono in numero superiore ai cittadini produttivi. E noi diamo la colpa alle migrazioni. Non cambiando sguardo continueremo a non capire».
Occorre allora adottare soluzioni diverse…
«Cambiando politica. Le immigrazioni sono irregolari perché noi, come gli altri Paesi europei, abbiamo chiuso i canali di ingresso regolari. Trent’anni fa non c’era il numero di richiedenti asilo di oggi perché in un Paese si entrava regolarmente».
Quali possibili strategie attuare?
«Aprire i canali regolari. E superare la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici. I migranti, infatti, sono essenzialmente economici, come i nostri che, l’anno scorso, in quasi 200mila sono andati via dall’Italia. Poi, occorre cominciare a fare non accoglienza ma integrazione».
Perché finora non si sono presi provvedimenti in questo senso?
«Perché non si è capito quello che sta succedendo. Non è stato capito dai politici, che guadagnano consenso non risolvendo il problema ma evocandolo: a risolverlo non hanno interesse, perché perderebbero il consenso. Inoltre, una gran parte dei politici non sa costruire un ragionamento sulla questione: sta cominciando ora a proporlo a livello europeo, ma non è ancora sufficiente. Inoltre, i fenomeni migratori non sono stati compresi dal giornalismo che troppo spesso è un megafono della politica. Molte volte, la presenza dei migranti è solo un modo per rendere evidente che il Paese non funziona. La verità è che non funzionerebbe comunque ma è sempre meglio scaricare le colpe su altri piuttosto che riconoscere i propri errori».
A non comprendere il problema, a non voler cambiare cosa si rischia?
«Un default traumatico, rapido. Come si può pensare di mantenere in piedi questo sistema pensionistico? E come possiamo pensare di mantenere la nostra civiltà senza un cambiamento di rotta? Non sono gli anziani a produrre innovazione. Non è un caso, allora, che i fenomeni migratori sono stati compresi meglio dall’Inps e dalle altre realtà che si occupano del sistema pensionistico. Come si può pensare che un calo demografico non porti alla chiusura delle scuole e alla recessione? Nel mondo, le aree con il più alto sviluppo economico coincidono con quelle dove l’immigrazione è più alta e con quelle in cui la presenza di giovani è maggiore. Allo stesso modo, più bassa è l’immigrazione, più bassa è la presenza di giovani, minore è lo sviluppo economico».
Le politiche dell’Italia sull’immigrazione sono in linea con quelle degli altri Paesi europei?
«Le logiche sono simili. Il problema è che l’Italia sta peggio di altri Paesi dell’Ue, ma non per le politiche migratorie: ha meno soldi della Germania, meno innovazione della Scandinavia, meno investimenti nell’istruzione della Francia. Ed è messa meno bene di altri Stati anche per quanto riguarda la sua struttura demografica. Relativamente a quest’ultima, i due Paesi messi peggio eravamo noi e la Germania la quale, tuttavia, nel 2015, ha assorbito più di un milione di richiedenti asilo che stavano nei Balcani e ora ha una struttura demografica più equilibrata dell’Italia. Poi, certo, l’integrazione è una spesa ma, come la scuola, è produttiva».
Un investimento?
«Certo. Se oltre a fornire gli alimenti compio un lavoro di formazione lavorativa, di conoscenza della lingua e della cultura del Paese ospitante, creo cittadini nuovi con una spesa che, alla lunga, sarà inferiore. Considerando lo straniero come colui che ci porta via il lavoro, se non come il delinquente, pagheremo un prezzo immenso».
Ma per più di qualcuno integrare significa costringere i giovani ad andare all’estero…
«Io all’estero ho cinque nipoti su undici, due figli su tre: anche se non ci fossero gli immigrati non sarebbero rimasti in Italia. Metà delle province del Veneto ha un tasso di disoccupazione più basso di quello della Baviera. Non diciamo che è sempre colpa degli immigrati: non è vero. I fenomeni migratori vanno prima di tutto compresi. Non ne faccio un discorso politico».
A èStoria parlerà anche di totalitarismo islamista e migrazioni. Esiste un legame tra i due fenomeni?
«Direi di no. Il totalitarismo islamista c’è ma è legato a una frangia di popolazione contestata, ripudiata dalla maggior parte dei musulmani nel metodo e anche nel merito. I musulmani arrivano in Italia soprattutto per avere una vita migliore, non per diffondere l’Islam. In un certo senso, che vengano da noi è la prova che da noi si sta meglio. E non è vero che l’Islam non è compatibile con la democrazia: nei Paesi musulmani ci sono Stati democratici e non democratici un po’ come nei Paesi non musulmani».
Le religioni hanno inasprito i fenomeni migratori?
«Non molto: non si emigra per motivi religiosi. Semmai, le religioni hanno aiutato a comprendere i fenomeni migratori: quindi, hanno fornito un contributo positivo. Penso in particolare al mondo cattolico che cerca di risolvere i problemi anche di popoli di religioni diverse».
Non
c’è però solo il mondo cattolico…
«Per quel che riguarda le identità religiose degli immigrati, vanno comprese, applicando le leggi dei Paesi ospitanti senza distinzioni ma anche senza aprire guerre di religione preventive».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
TEMPI PRESENTI. Un’intervista con Stefano Allievi, professore associato di Sociologia all’Università degli Studi di Padova. Dirige il master sull’Islam in Europa, ha scritto libri sul tema. In uscita per Laterza «Immigrazione. Cambiare tutto»
«I circa 250 mila migranti arrivati in Italia, tecnicamente sbarcano nell’Europa dei 28 che ormai conta 512 milioni di abitanti. Dal punto di vista economico o demografico non c’è davvero problema. Se mai, occorre sapersi misurare con la valenza culturale, più ancora che religiosa, dei flussi. C’è da governare e gestire una realtà plurale in cui non funzionano più i modelli precedenti come l’assimilazione francese o il multiculturalismo inglese. Le statistiche ci restituiscono Londra come sesta o settima città italiana per numero di abitanti e Francoforte come terza città della Turchia».
LO EVIDENZIA convinto Stefano Allievi, 59 anni, professore associato di Sociologia nel corso di laurea di Scienze della comunicazione dell’Università di Padova. Dirige il Master sull’Islam in Europa ed è membro del Consiglio per le relazioni con l’islam italiano del Ministero dell’Interno. Ha pubblicato recentemente Conversioni: verso un nuovo modo di credere? Europa, pluralismo, Islam (Guida, pp. 192, euro 15) e insieme a Giampiero Della Zuanna Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (Laterza, pp. 160, euro 12). Sempre per Laterza, imminente l’uscita del suo Immigrazione. Cambiare tutto, che preannuncia di voler smontare uno a uno i quadri interpretativi consolidati del fenomeno.
Allievi anticipa l’ironica curiosità del suo nuovo saggio: «In visita a Ellis Island, nel museo dedicato a chi emigrava a New York con i bastimenti in viaggio per mesi (e all’epoca c’erano 700 italiani al giorno che partivano), ho digitato al computer alcuni cognomi. E ho scoperto come nei registri degli sbarchi risultano 228 Salvini, 735 Bossi, 108 Zaia, 4 Berlusconi, 1.020 Renzi, 367 Bersani e 3.652 Grillo».
Ma di fronte al «caso Cona» con la marcia dei rifugiati nel cuore del Veneto, Allievi alza lo sguardo ben oltre l’orizzonte della cronaca. «Molto banalmente, ci possiamo permettere la supposta invasione. Nell’arco del periodo 2015-2050 l’Italia perderà 300 mila persone all’anno in età lavorativa e l’Europa tre milioni. Del resto, in Veneto i migranti residenti nel 2016 sono diminuiti di 12.444 unità rispetto all’anno prima: chi ha cittadinanza se ne va, come fanno anche i ragazzi veneti. E in Italia non sono un problema economico: versano 7 miliardi di Irpef e 11 di contributi previdenziali. Con i contributi versati dagli immigrati l’Inps paga oltre 600 mila pensioni di italiani. Infine, il Pil prodotto dai migranti supera l’8% con punte del 19% nel settore alberghiero e della ristorazione, 17% nell’edilizia e comunque 10% nel manifatturiero».
Una «percezione» sfasata della realtà?
Forse, non c’è abbastanza contezza. Certo nel nostro mondo si muovono anche le persone – e molto più di prima – insieme a merci, informazioni, denaro. Ma paradossalmente oggi in Europa è molto più difficile girare rispetto agli anni ’60. Ci sono leggi che hanno chiuso drasticamente gli accessi, tant’è che appena un po’ con i ricongiungimenti familiari è possibile l’ingresso regolare. Invece Phileas Fogg, il protagonista del Giro del mondo in 80 giorni, non aveva bisogno di documenti. Oggi c’è una circolarità delle migrazioni che viene sottovalutata. In Africa alcuni paesi hanno dai 500 ai 700mila emigrati, ma poi 400mila immigrati; anche in diversi paesi europei è così. E l’urbanizzazione planetaria fa sì che chi lascia il villaggio rurale poi non tornerà più indietro. Vale anche per i nostri figli, no?
A Nord Est, invece, si alterna l’accoglienza della mano d’opera a basso costo con l’ideologia della piccola patria. Giusto?
La provincia di Verona ha un tasso di disoccupazione più basso della Baviera. E la ricchezza privata fra Padova, Vicenza e Verona è più alta della media europea. E perfino il più squadrato xenofobo ormai sabato sera mangia sushi, etnico o una pizza infornata da un magrebino. Poi c’è un dato che non fa notizia: il 15-20% di matrimoni misti nelle città, che supera il 30% fra gli universitari Erasmus. Significa già che si sposa la diversità. Anche se ci si ostina a valorizzare la patologia, perché alcuni partiti o giornali e pezzi di opinione pubblica lucrano sulla polemica con i migranti. Eppure se prendiamo una cartina geografica e sovrapponiamo le aree di crescita disegnando quelle multiculturali, ebbene nel lucido coincidono. Il futuro è proprio questo, volendolo amministrare anche se produce conflitti. Con 485.477 immigrati censiti il Veneto è la quarta regione dopo Lombardia, Lazio e Emilia. Ma è in coda nei numeri sui richiedenti asilo e addirittura all’undicesimo posto per i progetti Sprar sui minori non accompagnati, finanziati dallo stato e gestiti volontariamente dai Comuni. Insomma, la Regione di Zaia ha scelto di non occuparsi o preoccuparsi dell’immigrazione: così esplodono situazioni clamorose, rimosse, disumane.
C’è in gioco anche l’eredità della «Vandea veneta»? O tutto ruota intorno all’identità nel rapporto con i migranti?
Il vangelo ricorda che saremo giudicati non dalle nostre radici, ma dai frutti che sapranno generare. Ecco, siamo già dentro il caleidoscopio sociale con colori uguali nella persistenza delle culture più la mixité cromatica quando si soprappongono fra loro. Fuor di metafora, nell’immaginario passa soltanto l’identità reattiva, tipica di chi si rinchiude nel proprio piccolo mondo. Magari usa il crocefisso come un’arma o nel caso di alcuni immigrati obbliga la famiglia dentro il recinto della comunità. È la rappresentazione alimentata da alcuni media, funzionale alla propaganda. Ma non è certo l’unica. C’è anche un’identità aperta, accogliente e non pregiudiziale. E si sta facendo strada l’identità proattiva che scorge nella mobilità una risorsa da non disperdere e nella diversità culturale un accrescimento per tutti.
Islam tradotto perfino in guerra di religione. Davvero la fede fa la differenza nel rapporto con gli immigrati?
Complica la questione. Tuttavia la pluralità religiosa non è certo figlia dell’immigrazione: in Italia ci sono 350mila testimoni di Geova, 400mila pentecostali e 100mila buddhisti. Un paesaggio religioso che si secolarizza, privatizza e mostra fedi concorrenti. Lo stesso modo di credere spazia dai convertiti al fai-da-te, che contempla la devozione ai santi cattolici insieme alla meditazione yoga, al guaritore o alla cartomante. Nelle grandi città cosmopolite, non a caso la mèta di tanti tipi di migrazione, si fa tesoro della diversità, compresa quella religiosa. Al contrario, la distanza porta al rifiuto, come nella Polonia ferocemente antisemita pur senza ebrei. Emblematico il referendum della Svizzera sui minareti: Berna, Ginevra e Zurigo che già avevano moschee hanno votato a favore, mentre nel cantone di Appenzello si è registrata la più alta percentuale di contrari. Anche se in quelle montagne non c’è nemmeno un immigrato. Ma è stato l’ultimo cantone svizzero a introdurre il diritto di voto alle donne: nel 1990, solo perché costretto dalla Confederazione.
https://ilmanifesto.it/quel-flusso-che-e-la-praticabilita-del-mondo/
Fahrenheit, RAI, Radio 3
Puntata del 9 agosto 2017
E’ autore di oltre un centinaio di pubblicazioni in vari paesi e di numerosi articoli e interviste su dibattiti di attualità. Suoi testi sono stati tradotti in varie lingue europee, in arabo e in turco.