PD, tieniti stretto Renzi

Recensione a Matteo Renzi, Fuori!, Milano, Rizzoli, 2011

Alcuni dirigenti del PD lo chiamano maleducato, perché rivendica esplicitamente un radicale ricambio ai vertici e l’applicazione dello statuto (dopo tre mandati, a casa). Per la stampa è quasi sempre il ‘rottamatore’. Ma dietro a Matteo Renzi, giovane sindaco di Firenze, e soprattutto al popolo del PD che si è riunito con lui e con Pippo Civati alla Stazione Leopolda di Firenze nel novembre 2010 – e che altri incontri terrà prossimamente in altre parti d’Italia – c’è molto di più e molto altro: una leadership potenziale giovane e arrabbiata, ma costruttiva e non rancorosa, critica ma non gratuitamente polemica, e soprattutto dinamica, innovativa, pragmatica, forse un po’ spontaneistica, ma certo ricca di idee e di energie. Tutte cose di cui il PD ha bisogno come il pane, e senza le quali è destinato a un già delineato e prevedibile declino, di appeal prima di tutto, testimoniato eloquentemente dalle tendenze dei risultati elettorali e del tesseramento, ma più ancora dal morale rasoterra di simpatizzanti, iscritti e dirigenti.

Consapevole di questo, Renzi punta a sparigliare, “controcorrente e contro tutte le correnti” del PD, sapendo che “il tema della casta (anche) a sinistra è forte, fortissimo”. E insofferenza e indignazione contro la casta interna sono una marea montante. Renzi, di questa battaglia, che non è antipolitica ma al contrario fortemente politica, vuole farsi interprete. Non stupisce quindi che non sia amato da una nomenklatura che, nella sua terminologia, ha cambiato svariate volte nome ma si presenta sempre con le stesse facce, e che lui del resto non nasconde di voler attaccare frontalmente.

Tra gli aspiranti riformatori interni al PD Renzi è certamente l’ultimo arrivato, ma ciò che lo caratterizza è forse una certa peculiarità di stile personale e di capacità comunicativa, che rende il suo messaggio più accattivante di altri per una certa fascia di militanti e – ciò che è ancora più interessante – di simpatizzanti e addirittura di non elettori del PD.

Il tema del linguaggio è fondamentale. Saper comunicare. Assumere consapevolmente uno stile diverso. Cambiare linguaggio, appunto. Elementi che sono parte importante del ‘renzismo’. Ma tutt’altro che una tentazione superficiale, o cosmetica. Lo si vede da alcuni slogan: “Metà parlamento a metà prezzo” (o il “Facce nuove a Palazzo Vecchio” con cui ha vinto, contro la nomenklatura del PD, le primarie a Firenze e poi le elezioni). Ma anche “una nuova generazione contro le degenerazioni che ci hanno preceduto”; “potremo fallire per incapacità, ma non per consunzione”; fino al “E’ demagogico dire tutti a casa? Sì, parzialmente sì. Ma ci sono dei momenti in cui occorre rischiare di vincere cavalcando la demagogia piuttosto che essere sicuri di perdere adagiati sull’apatia”; per concludere con un “meglio essere accusati di arroganza oggi che processati per diserzione domani”, che sono anche le parole conclusive del libro.

Dietro questi slogan, che qualcuno legge semplicemente – aspetto generazionale a parte – come berlusconismo in salsa democratica, ci sono tuttavia contenuti non banali: su un liberalismo non di facciata, sulla capacità e il dovere di decidere anche contro le lobby (incluse quelle corporative e sindacali di sinistra), sulla strategia riformatrice (esemplificatrici le parole sull’università, e sul fatto che la riforma Gelmini la si sarebbe dovuta attaccare non perché riforma, ma perché non riforma abbastanza, invece di adagiarsi su un no senza capacità propositiva), sul bisogno di cultura, su quello di identità (da intendere come grande questione politica, di cui non bisogna avere paura, e di cui non bisogna lasciare il monopolio alla Lega), sul bisogno tutto politico di produrre comunità, tessuto connettivo all’interno delle città, senso di appartenenza. Se non è qualcosa di sinistra, è almeno qualcosa di liberale e comunque di civile, in ogni caso un progresso rispetto all’afasia dominante ai vertici del PD: e il sindaco di Firenze ha il merito di proporre questi temi con prese di posizione nette, con sintesi talvolta forti ma raramente spericolate. E, anche, con un po’ di supplemento d’anima, di gioia di vivere e persino di divertirsi facendo politica (per “combattere il tristismo” anche con un po’ di verve polemica e di spirito futurista), che di fronte a tanto contorto politichese brillano per schiettezza e novità.

Anche quando parla di valori, a cominciare dai suoi: quando parla di fede, di laicità, di valori scout, della sua storia personale di cattolico impegnato in politica, con una fede radicata ma capace di laicità praticata e convinta (“ho vinto le primarie per fare il sindaco, non per fare il vescovo”), capace di affrontare senza elusioni temi etici delicati, dal fine vita all’omosessualità, all’interno di una autentica e diremmo obamiana ricerca di senso religioso in politica (ma capace di ricordare, tra le altre cose, anche alla stessa Chiesa, che il credente “non va in politica per testimoniare dei valori, ma per cambiare concretamente le cose”).

Naturalmente non può mancare la parte più legata alla polemica interna al PD, che ha fatto di Renzi una figura di rilievo nazionale. A cominciare dalla rivendicazione delle primarie non solo come metodo, ma come ragione d’essere del PD (e non potrebbe essere altrimenti per qualcuno che le ha vinte contro l’establishment del partito, in una lotta senza esclusione di colpi, inclusi quelli bassi). La critica interna è netta, e ha il merito della chiarezza. “Le pagelle si danno a scuola, non in politica. Ma non c’è chi non veda che questa generazione ha sprecato il proprio colpo in canna. E non è che cambieranno le cose se la lasceremo lì a vivacchiare”. E ancora: “i nostri padri politici vanno mandati a casa per quello che non hanno fatto più che per quello che hanno fatto. Per la speranza che non hanno saputo suscitare”. Folgorante, anche se discutibile, la sintesi dell’evoluzione del PD da Veltroni a Bersani. Il discorso del Lingotto era “un film inedito, che puntava a sparigliare ma che aveva il solito cast di sempre. Una bella storia, raccontata però dalle stesse facce di sempre”. Oggi Bersani “ha colto la contraddizione tra la storia e i narratori. Ma anziché cambiare le facce, sta cambiando la storia”. Potrà essere ingeneroso nei confronti dell’attuale segretario, che sta cercando di tenere insieme i cocci di un partito in discesa, in tutti i sensi. Ma coglie bene una parte di verità. E non si può dare troppo facilmente torto a Renzi, accusandolo di essere liquidatorio, se si pensa che il culmine dell’elaborazione politica di Bersani è stato rilanciare, in un’intervista quasi incomprensibile al lettore comune, il ‘Nuovo Ulivo’, oggi peraltro già rapidamente archiviato.

Anche se il libro non ne parla, l’attivismo di Renzi, e di molti altri quadri del PD con lui, ci ricorda una cosa fondamentale: che il PD non ha due gambe (come continuamente ripetono i leader protagonisti della sua unificazione), ma tre: la prima è rappresentata dalla tradizione eurocomunista e socialista; la seconda da quella cattolica popolare; ma la terza è fatta da quei militanti, iscritti e personale politico che, senza essere mai stati iscritti a quei partiti, che magari pure votavano senza troppa convinzione, hanno creduto nel PD come a un soggetto nuovo, diverso, davvero riformatore, e in esso si sono impegnati. Spesso sono proprio i rappresentanti di questa terza gamba a costituire la parte più innovativa del PD; ed è la loro diaspora, la loro emorragia, che si sta rapidamente consumando in questi anni, a costituire per esso la perdita maggiore, non solo di voti, ma di energia, di motivazione e di capacità propositiva e riformatrice. Renzi e gli altri che stanno provando a riformare il PD dall’interno ne sono un esempio. Vale la pena di non perderli per strada. Senza di loro, la scommessa del PD è già persa.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), PD, tieniti stretto Renzi, in “Reset”, n. 124, marzo-aprile 2011, pp. 102-103

Festeggiamo il tricolore troppo irriso

E’ sconcertante che in questo Paese le cose ovvie debbano sembrare rivoluzionarie. Come, che so, festeggiare il 150° dell’Unità d’Italia ed esporre il tricolore… E ancora più triste che i compiti istituzionali relativi, alla fine, se li assumano in pochi, mentre ai livelli più alti le istituzioni danno l’esempio, negativo, di disinteressarsene, anzi, di fregarsene, anzi peggio, di fottersene e di sfotterle. E poi ci si stupisce che il senso civico, in Italia, sia scadente e forse scaduto. Anche in quel Nord che di solito accusa il Sud di esserne privo.

Fa benissimo il Comune di Padova a lanciare una serie di iniziative per festeggiare quella che per l’appunto è una festa, anche istituzionalmente riconosciuta. Quello che sconcerta è che la cosa faccia notizia. Ma così è, se vi pare. Già arrivarci, alla festa, è stata una ridicola sceneggiata: anche questo un genere letterario meridionale infelicemente trapiantato al Nord. Non è che non si sapesse che la ricorrenza era in arrivo. Dopo tutto c’era un apposito comitato nazionale a lavorarci (con due lire e in mezzo a un ostacolo dopo l’altro, al punto che un galantuomo come l’ex presidente Ciampi, che lo presiedeva, se ne è dimesso). Ma tant’è. Tra le irrisioni della Lega e le improvvide uscite di Confindustria, ci si è arrivati solo all’ultimo, a decidere che, come ovvio, la ricorrenza fosse anche festa nazionale e quindi vacanza. Ma subito dopo, tutti lì a sfilarsi: vergognosamente, per persone che coprono cariche pubbliche e dall’Italia sono lautamente retribuite per rappresentarla e farle onore.

Si comincia con un ministro – e non un ministro qualsiasi, ma quello degli Interni, che l’Italia la governa nei suoi gangli più delicati e simbolicamente significativi – che dichiara in tv, con un mezzo sorriso che vorrebbe essere furbetto, che lui lavorerà. E si finisce con governatori regionali e giù fino ai sindaci che, con l’aria finto tonta del Bertoldo che crede di essere l’unico con il cervello fino, dicono ridendo che loro alle celebrazioni non parteciperanno e, anzi, lavoreranno sodo per il bene dei cittadini.

Passi per tanti sindaci di realtà minori, per i quali sparare qualche fregola sul tema è un modo per guadagnare un po’ di facile visibilità sui giornali e di consenso tra sodali. Ma dal principale rappresentante nel governo della Lega, persona seria, avremmo preferito non aspettarcelo. E nemmeno dal presidente della provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnwalder (giusto per far vedere che non solo di leghisti si tratta), che governa un territorio letteralmente sepolto dai soldi dell’Italia. Coerenza vorrebbe che se l’Italia non la si riconosce, non se ne riconoscano nemmeno i benefici, i vantaggi e le prebende.

Non è un giochino di cui fare strame, il senso di appartenenza. Già la sinistra l’ha scoperto tardivamente, tricolore incluso, e deve su questo fare autocritica: ma meglio tardi che mai. Ma anche i cittadini lo stanno riscoprendo, finalmente, con un po’ di orgoglio, e non solo in occasione dei mondiali. Non a caso il personaggio più rispettato è il Presidente della Repubblica, che l’unità d’Italia la simboleggia e la incarna. Siamo stati costretti ad aspettare che un comico ce lo ricordasse, con grandissimo successo, nel più nazional-popolare degli spettacoli. Non lasciamo che ce ne tolgano il gusto, lasciandoci solo il disgusto di vedere le strumentalizzazioni che ci stanno intorno. E festeggiamo tutti, il 17 marzo. Con il nostro bel tricolore addosso. E un sorriso ben stampato sul viso.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Festeggiamo il tricolore troppo irriso, in “Il Mattino”, 2 marzo 2011, pp.1-9 (anche “La Nuova di Venezia” e “La Tribuna di Treviso”)

Ipocrisie sui musulmani ed elezioni

Sarebbe fin troppo facile giocare sui nomi: il grande torto, o giù di lì. Ma è certo che la vicenda della moschea di Grantorto (o meglio, della non-moschea, l’ennesima che in Veneto non vedrà la luce) mette in evidenza una sequenza di ipocrisie da cui pochi escono bene.

Il principio, innanzitutto. I musulmani, come le persone di tutte le religioni, hanno il diritto, umano prima che garantito dalla costituzione, di vedersi riconosciuta libertà di culto e di preghiera. Il fatto che la Lega di fatto spesso lo contesti (ma ci sono anche sindaci leghisti, in questo stesso Veneto, che hanno preferito, saggiamente, inaugurarle, le moschee) non fa diventare diritto un torto, per così dire. Se non lo si consente, si chiama discriminazione, e si può nel caso ricorrere al giudice, che non può che applicare le leggi (e dare magari ragione ai musulmani, come accaduto a Verona).

La convenienza, in secondo luogo. Ormai tutti, a cominciare dal ministero degli Interni, che sta producendo alcune linee guida sulle moschee, sono convinti che sia meglio che i musulmani stiano in luoghi visibili, aperti, trasparenti, alla luce del sole, in collaborazione con le forze di polizia e le istituzioni locali, anziché in luoghi degradati, nascosti, invisibili, carbonari, mal tollerati e mal visti. Perché proprio questo favorisce integrazione, reciproca conoscenza e controllo sociale: proprio ciò che noi tutti vorremmo e a parole auspichiamo.

Le paure, d’altro canto. Le paure dell’islam sono comprensibili: nulla di strano su questo. E quindi anche i timori, le reazioni di chiusura. Come di fronte a ogni novità spesso accade. Ma su queste si potrebbe riflettere con pacatezza e ragionevolezza, e con i diretti interessati, e confrontandosi, andandosi incontro con reciproche concessioni, nella legalità e senza urlare. Se si sceglie quest’ultima strada vuol dire che l’obiettivo è sollevare un problema – perché porta visibilità, voti, e perché si sceglie un obiettivo facile, e anche un po’ vile, dato che i musulmani sono tra quelli con minor potere contrattuale, e oltre tutto non votano – non perché si vuole risolverlo. Ed è proprio quello che stanno facendo, in tutta Europa, gli imprenditori politici dell’islamofobia: sono i primi a sollevare il problema, ma sono gli ultimi a volerlo risolvere, perché toglierebbe loro una comoda rendita di posizione.

Le ragioni pratiche, infine. Non c’è dubbio che, nel caso specifico, ci possano essere serissime ragioni per considerare il luogo, eventualmente, inadatto. Le prendiamo per buone: sulla fiducia. Ma di fronte a queste un sindaco serio, in silenzio, avrebbe incontrato i protagonisti della vicenda, consigliandoli, spiegando loro che ci sarebbero potuti essere dei problemi, e indirizzandoli altrove, magari collaborando nella ricerca di un posto più adatto, nel reciproco interesse. Non è quindi per la posizione che ha preso che critichiamo il sindaco di Grantorto, e quelli che con lui soffiano sul fuoco, alimentando logiche di sospetto quando non carezzando il pelo al timore per il diverso che si cela in tutti noi, e che andrebbe invece educato. Un sindaco è sindaco di tutti i cittadini e i residenti.

Ormai di sale di preghiera musulmane, in Veneto, ce ne sono ben 110, e 764 in Italia, in proporzione al numero di musulmani. Vogliamo cominciare ad affrontare il problema per quello che è, pensando alle prossime generazioni anziché sempre e solo alle prossime elezioni?

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Ipocrisie sui musulmani ed elezioni, in “Il Mattino”, 28 febbraio 2011, pp.1-14

Le incaute dichiarazioni di Frattini e l’amicizia con i leader destituiti

Se compito del ministro degli Esteri è tutelare l’immagine e promuovere l’interesse dell’Italia, le dichiarazioni degli ultimi giorni del ministro Frattini sono quanto di più improvvido, e nel lungo periodo dannoso per l’Italia, possiamo immaginare.

Nei giorni in cui il popolo tunisino cacciava l’odiato e corrotto presidente Ben Ali e cercava di instaurare una vera democrazia, Frattini rivendicava l’amicizia dell’Italia e il “pieno sostegno ai governi tunisino e algerino” contro le sommosse popolari: suo bersaglio – quasi un riflesso condizionato che caratterizza la sua politica – il “pericolo di strumentalizzazione da parte di terroristi islamici”, dei quali nell’occasione non si è vista nemmeno l’ombra.

Mentre altri paesi arabi sono in subbuglio per una corale richiesta di maggiore democrazia nell’area, in un’intervista di assoluto candore propone per essi il modello Gheddafi, il peggior dittatore dell’area (al potere dal 1969, oltre quarant’anni!), vantando che i rapporti che ha l’Italia con Gheddafi non li ha nessun paese, e che ci aprirebbe le porte dell’Africa (lo vedremo quando Gheddafi finalmente cadrà, quanta riconoscenza ci manifesteranno il popolo libico e gli altri paesi africani…).

Oggi che il popolo egiziano vuole cacciare il suo, di dittatore, definisce Mubarak uomo saggio e lungimirante: e di fronte a chi, americani inclusi, gli chiede di lasciare immediatamente il potere, il nostro gli chiede di rimanere fino alle prossime elezioni.

Se ci aggiungiamo il costante e quasi disarmante, tanto è totale e acritico, sostegno ad Israele, possiamo dire addio alla nostra influenza nell’area. A contorno ricordiamo la soave delicatezza, mentre era in corso a Gaza un bagno di sangue, dell’intervista al TG1 in tuta da sci nel dicembre 2008, all’epoca dell’operazione ‘piombo fuso’. Va detto che il ministro, con le coincidenze, è sfortunato. All’epoca dell’invasione della Georgia da parte della Russia era in vacanza alle Maldive, e da lì seguiva distrattamente le sorti, più che dei georgiani, dell’amico Putin. E ancora nei giorni scorsi, nel pieno della crisi egiziana, era di nuovo sui campi di sci, per la fondamentale iniziativa “Parlamentari sulla neve”.

A parte l’ossessione del terrorismo e della sicurezza, che l’ha portato a proporre misure internazionali di monitoraggio di internet, fino a definire con roboanti quanto insensate parole le rivelazioni di wikileaks come “l’11 settembre della diplomazia internazionale”, facendo di Assange un nuovo temibile Obama, non ci ricordiamo altro di rilevante.

Ma oggi, finalmente, ha preso una decisiva iniziativa. Su Mubarak? Non proprio: su sua nipote. E prepara un ricorso alla UE per violazione della privacy sul caso Ruby. Meno male che abbiamo un ministro degli Esteri che si dà da fare…

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Le incaute dichiarazioni di Frattini e l’amicizia con i leader destituiti, in “Il Mattino”, 13 febbraio 2011, p.17

Sociologia della lettura

Si può ancora leggere nel mondo moderno? La domanda si coniuga direttamente con un’altra e più intrigante questione: si può ancora leggere il mondo moderno? Ed è la lettura il modo più appropriato di farlo? Il più efficace?

Il primo dato che possiamo produrre è esperienziale. Per la mia generazione, quelli di mezzo secolo o più, la lettura è stata un dato di scoperta del mondo, e di apertura al mondo, sostanzialmente indispensabile. Certo, siamo stati anche la generazione che ha scoperto altre dimensioni e stati d’animo: il viaggio; la fuga dai ruoli dati; la scoperta di altre realtà attraverso l’uso di droghe di cui allora si conoscevano più le potenzialità dei pericoli, l’effetto di apertura a nuovi mondi potenziali che non quello di distruzione di quello reale; la creazione di nuovi mondi – o il tentativo o l’illusione di farlo – attraverso le relazioni costruite nell’impegno politico e sociale. Ma poi, alla fine, era la lettura che sostanziava anche queste esperienze, che ne costituiva, in tutti i casi, il riferimento alto, la giustificazione, la possibilità di scambiarle con altri, il tramite simbolico stesso, in molti casi.

Per spiegare l’intreccio complesso che costituisce il rapporto tra esperienza e lettura, tra realtà reale e realtà presente nelle pagine di un libro, prendo a presto un’immagine di Alessandro Baricco. Che in un suo splendido programma televisivo divulgativo sulla lettura (già questo un intreccio complesso) di qualche anno fa, che si chiamava Pickwick, iniziava le trasmissioni descrivendo l’immagine di un uomo: che, salito sul treno, guarda dal finestrino, contempla il panorama che si svolge sotto i propri occhi; poi, apre un libro, si immerge nella sua lettura, in un altro panorama, aprendo una diversa finestra sul mondo.

Il libro, la lettura, sono stati spesso questo, per me e per molti, e lo sono ancora. Me è ancora necessariamente così? E’ ancora questa la forma di lettura del mondo, di suo approfondimento, di sua contemplazione, privilegiata o da privilegiare? Osservando laicamente le modificazioni del conoscere oggi c’è da porsi più di un dubbio.

Proviamo a farlo a partire da un secondo dato esperienziale. Quello di chi oggi ha meno di vent’anni (o, ancora più giovani: i miei due figli, per esempio, di 15 e 12 anni): quelli che chiamano i nativi digitali; mentre noi, immigrati digitali, dell’immigrato in questo mondo manterremo sempre il senso di spaesamento e di incertezza. Per loro la lettura è competenza accessoria, ma non nella sua essenza, solo nella sua modalità tradizionale. La modalità standard per accedere ad altri mondi non è aprire un libro, è accendere il computer, e collegarsi ai social network. Ma da qui si è poi costretti a leggere (le riflessioni altrui, i loro messaggini, i link a cui ci rimandano), ma anche vedere e sentire (magari via you tube), attraverso un’esperienza sensorialmente più avvincente, coinvolgente e convincente. Ma, da lì, volendo – e qualche volta capita – il rinvio è a un libro, o a un suo pezzo, o a una sua citazione. Spesso, sempre più spesso, per frammenti, per letture trasversali, attraverso i meccanismi dell’ipertesto e quelli dei link, che ne sono una diversa modalità attuativa, più personalizzata – e, certo, più problematica, persino più dubbia non solo, come ovvio, nella sua coerenza, ma anche nella sua correttezza. Il frammento è infatti molto più facilmente manipolabile e falsificabile di un testo lungo e complesso. Detto questo, leggono anche libri, anche se meno di quelli che leggevo io alla loro età, in cui non avevo tutti questi altri media a disposizione, altrettanti accessi al mondo, finestre su di esso.

Questo meccanismo ha a che fare con un altro problema: la presentificazione degli orizzonti, lo schiacciamento sul presente. Che sappiamo essere una tendenza forte da vari indicatori (che citiamo in maniera random, senza tentativi di classificarne l’importanza e il peso): la sempre più scarsa capacità di contestualizzare i fenomeni e di coglierne le radici, e quindi la difficoltà dello stesso pensare storicamente (anche quando ci si interroga sul futuro); le modalità affettive e relazionali, che sempre più difficilmente si inscrivono all’interno di una storia coerente (non a caso le relazioni durano meno); un’accresciuta mobilità spaziale e non, che rende più problematico lo stesso collocarsi all’interno di una storia (quale? di chi? di dove?); la diminuita propensione al risparmio, che è un indicatore certo di minor investimento sul futuro; e molti altri. Come conseguenza di tutto ciò nella mia professione di docente universitario sono giunto, dagli esiti delle discussioni d’esame, alla conclusione che, grosso modo, per una parte significativa dei miei studenti (e di tutti i giovani) la storia sempre più si divide in due: la preistoria, che è, in maniera indifferenziata e quindi difficilmente collocabile – come una fotografia scattata con lo zoom, in cui tutto è schiacciato alla stessa altezza, e si perde in profondità e differenziazione – tutto quanto accaduto prima della propria nascita; e la storia, o meglio la mia storia, la storia personale di ciascuno, che è ciò di cui posso grosso modo dare contezza e avere verifica perché basato sull’esperienza personale. Il passato è ininteressante e poco esplicativo delle ragioni del mio essere (e spesso è proprio così: la sensazione che tutto sia cambiato molto e molto in fretta, e quindi non c’è più trasmissione – nemmeno dell’esperienza e del sapere – ma solo innovazione, è figlia di questa precomprensione, che ha molte ragioni di capirsi in questo modo). Il presente è l’elemento di maggiore coinvolgimento per ovvi e ottimi motivi, ma anche perché ci si immagina solo in esso di poter conquistare gratificazione personale. Il futuro, sempre più spesso, è qualcosa di lontano, precario, inesorabile ma poco comprensibile e prevedibile, e vagamente minaccioso. Non certo qualcosa su cui una persona sana di mente investirebbe davvero volentieri qualcosa: lo si fa perché si deve, nel caso, non perché davvero lo si vuole.

In tutto questo, le forme digitali di accesso al mondo della conoscenza hanno questo in comune almeno con una forma di lettura, quella letteraria: il recupero della dimensione narrativa della vita , la scoperta del bisogno di raccontare e raccontarsi e il tentativo di farlo – più o meno riuscito, ma questo importa meno. E la dimensione frammentaria di questa conoscenza ha molto in comune con le nostre vite: all’interno delle quali cerchiamo il filo rosso della coerenza, ma sempre ex-post, e a dispetto delle piroette più sconcertanti: ci raccontiamo una continuità e un senso che spesso non c’è, ma perché, come diceva Flaiano, “facciamo finta di tutto”, non perché ci sia davvero, o necessariamente. Ancora: questa dimensione ha moltissimo a che fare con una forma di comprensione del mondo molto moderna, quella degli aforismi. Che, come diceva Karl Kraus con un altro brillante aforisma, “non è mai la verità: o è mezza verità, o è una verità e mezza”. Così è la vita, così è il racconto.

La lettura, nella forma saggistica del discorso scientifico e della speculazione filosofica, ci ha portati mostruosamente avanti in un percorso di progressivo disincarnamento, di astrazione pura. E di innaturale e inumano primato del pensare sull’essere. Quello che Cartesio riassumeva nel “Cogito, ergo sum”. Una balla che ci siamo ripetuti per secoli, che l’occidente ha portato alle estreme conseguenze e all’estrema spersonalizzazione, ma che oggi scopriamo con orrore essere sempre più un’oscena finzione dalle conseguenze devastanti. Semmai, come ha corretto chi è portatore di maggiori competenze psicologiche e sociologiche, “sumus ergo sum”. Siamo innanzitutto e soprattutto perché siamo il prodotto di relazioni, e di relazioni che si narrano, e narrandosi si lasciano incontrare. Se è ancora vero che “il medium è il messaggio”, è indubbio che nonostante la dimensione di menzogna che incorporano, e a cui lasciano spazio (a cominciare dalla menzogna dell’identità, attraverso il nickname e le false generalità), i media digitali incorporano un messaggio relazionale e narrativo. E questo non è male. Del resto, quanto a menzogna, anche il libro non ne è meno portatore. Certo, nei media digitali e nei social networks si impoverirà il linguaggio, ma ci si apre maggiormente all’esperienza e all’interazione. Che diventa, per l’appunto, un diverso modo di leggere il mondo.

Ci si può lavorare sopra, oltre tutto, sull’interazione tra la lettura e l’esperienza. In un corso di ‘Globalizzazione e pluralismo culturale’ che tengo da qualche anno all’interno di una laurea specialistica, a miei studenti faccio leggere dei libri, che discutiamo in aula. Ma loro non li devono riassumere: li devono incarnare, rappresentandoli, rappresentandone in prima persona gli autori, e intervenendo nel dibattito in quanto incarnazione delle tesi contenute nei libri, non in quanto portatori del loro contenuto. Non sarà una rivoluzione: ma alla fine del corso ciascuno ha letto solo due libri (uno che incarna, l’altro di cui incarna un potenziale discussant), ma tutti hanno non solo sentito ma ‘visto’ dibattere tra loro una trentina di libri importanti che rappresentano alcune delle punte più avanzate di riflessione sul tema. Se li avessero letti tutti, probabilmente ne saprebbero di meno.

Così è per i media, in ogni caso. Come noto, l’invenzione di ogni nuovo medium e di ogni nuova tecnica conoscitiva, che per gli apocalittici è sempre stato il preludio alla scomparsa delle precedenti, nella maggior parte dei casi ha portato alla loro somma e quindi a un pluralismo sempre maggiore dei media, non alla loro sostituzione per ondate successive. Il giornale non ha ucciso il libro, la radio non ha ucciso il giornale, la televisione non ha ucciso la radio, il computer non ha sostituito nessuno dei precedenti, cominciando semmai progressivamente a incorporarli, mantenendone tuttavia e in un certo senso rendendone visibile ed esperibile la pluralità e la diversità. Sì, certo, il long playing non esiste quasi più, sostituito dal compact disc. E questo a sua volta sta per essere del tutto sostituito dall’mp3. E poi altro arriverà. Ma questi sono meri cambiamenti tecnici, come l’aver trovato il modo di attaccare un motore a un carro e trasformarlo in automobile (car come char, eredità di cui ci resta il carro attrezzi, il paracarro, ecc.): mentre la pluralità di esperienze è salvaguardata. Inclusa quella, volendo, di guidare un carro trainato da cavalli e di ascoltare un lp.

L’ultima invenzione è quella che ci consente di leggere i libri in formato elettronico, ma in maniera portatile, proprio come un libro: Kindle, collegata ad Amazon, e l’Ipad. Ci sono arrivato da poco. E certo è esperienza diversa, non tattile, con l’oggetto libro. Ma se rinuncio a qualche romanticismo, comunque con un Kindle del costo di 100 euro, che oggi con un ingombro minimo è in grado di stoccare 2500 libri, scopro che con 4-500 euro sarei in grado di contenere in pochi decimetri quadri la mia intera biblioteca, risparmiando un locale delle dimensioni di un fienile e i costi di librerie e rafforzamento dei tramezzi. E comunque non ne butterò via uno, dei miei vecchi libri, e continuo a comprare anche cartaceo. Ma oltre tutto so che ogni mia sottolineatura elettronica, a differenza della amata e indispensabile matita, è in grado di registrare e mantenere in memoria tutte le mie sottolineature e i miei commenti. Questo non fa di me un sapiente, se questo sapere non è memorizzato e introiettato, e per così dire ruminato a lungo dentro di me. Ma un utilizzatore più leggero e felice, e sicuramente più comodo, forse sì. Non è farsi prendere da entusiasmo ingenuo per la tecnologia, e nemmeno fare pubblicità subliminale, volerlo sottolineare: sottolineando anche gli elementi di diffusione e di democraticizzazione del sapere che queste tecnologie incorporano. Oltre tutto, sostituendo con status symbol da poco prezzo quello status symbol da ricchi che sono spesso le grandi biblioteche private, che l’invitato vedendole fa “oh” per lo stupore. E oltre tutto non sempre letti: ricordo ancora con umorismo la visita alla casa di un arricchito amico di famiglia, appena sistemata dall’architetto, con intere collane Einaudi ancora incellophanate nelle librerie intonse…

Il discorso sulle librerie mi richiama a un gusto tipico del lettore colto di libri: quello della citazione. Che oggi con i nuovi media si rinnova con un quid di snobismo in meno. La citazione che mi sovviene è la seguente, di Marguerite Yourcenar: “Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri”. Oggi contano ancora, ma ci sono anche altri luoghi natii fuori da sé, dati da altri media. Che possono aiutarci, anch’essi, a uscire fuori dai particolarismi, dai nazionalismi chiusi, dai localismi claustrofobici. Perché questo dovrebbe fare la conoscenza. E così dovrebbe essere per le persone, con esse, attraverso di esse. E questo probabilmente dovrebbe essere l’università. Un luogo dove si fanno esperienze e si costruiscono relazioni tra persone, tra pensieri, tra cose, e tra le une e le altre e le altre ancora: non solo, in maniera disincarnata, tra concetti. Perché questo significa sentire le cose intensamente, profondamente. Conoscere vuol dire avere un contatto immediato, diretto. L’università, il luogo dove si formano i processi di conoscenza più ancora che dove si trasmettono le conoscenze (che spesso nascono al di fuori di esse) dovrebbe essere un luogo così: un universo di contatti, stimoli, di relazioni im-mediate, cioè non mediate. Che aiuti a farsi le giuste domande. Perché, come ricordava Canetti, “l’ignoranza non deve impoverirsi con il sapere”, e quindi bisognerebbe essere capaci, per ogni risposta, di farsi almeno due nuove domande. Come in una nota storiella ebraica: un gentile domanda a un ebreo perché gli ebrei hanno l’abitudine di rispondere a una domanda sempre con un’altra domanda; e l’ebreo risponde: “e perché no?”. La conoscenza è il luogo delle domande e delle risposte che aprono a nuove domande. E questo nei rapporti tra i compagni così come con i libri o con i docenti e con chiunque ci sia o ci possa essere di riferimento, magari anche di guida.

Bisogna assaggiare il mondo, non solo leggerlo. Sapere deriva da sàpere: che ha sapore. Il sapere vero dunque non si legge e non si studia: lo si incontra, lo si tocca con mano, ci si discute insieme, ci si nutre di esso, ce ne si innamora, magari. Si provano, con esso, e-mozioni: che fanno muovere, appunto – uscire da sé e dal proprio mondo per entrare in un mondo più grande e più intenso.

Non vogliamo, con queste note sparse – frammenti, ancora una volta – convincere nessuno. “Accontentiamoci di far riflettere, senza tentare di convincere” (Georges Braque). Invitiamo semplicemente a non compiangere precocemente la scomparsa del leggere come noi l’abbiamo conosciuto. Ci sono altri modi di leggere il libro del mondo. Che possono aiutarci, oltre tutto, a leggere meglio i libri sul mondo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Sociologia della lettura, in “Servitium”, n. 193, gennaio-febbraio 2011, pp.47-53

Post scriptum. Per scrivere questo articolo non ho consultato, letto o riletto alcun libro. Ho ragionato, mi sono basato sulla mia memoria e le mie considerazioni. Ma ho consultato internet, via Google. Non per bisogno, ma per curiosità, per vedere se trovavo stimoli interessanti. Non ne ho trovati. Ma ho letto qualcosa in rete: poco, e in maniera frammentaria, trasversale, veloce. In ogni caso, adesso ne so di più.

Errore storico sulla polveriera del mondo arabo

Il paradosso delle democrazie

Quello che sta succedendo nel mondo arabo – ieri in Tunisia, oggi in Egitto, domani forse in Algeria, Marocco e altrove in Medio Oriente – è una lezione e un monito per tutto il mondo democratico, Europa in testa. Dei popoli interi si sono svegliati e reclamano a gran voce libertà e democrazia: quello che da sempre l’Occidente dice che dovrebbero desiderare, ma che non ha fatto nulla per fargli ottenere. Al contrario: l’Occidente ha sempre sostenuto questi regimi, fino all’ultimo, in nome della propria stabilità e del proprio interesse. Cieco di fronte alla violazione dei più elementari diritti e sordo al richiamo ai principi su cui esso stesso dice di fondarsi. Europa e Stati Uniti hanno infatti sempre difeso l’indifendibile rappresentato da dittatori e regimi arabi, contro i loro stessi popoli.

In sintesi: il mondo arabo sta dicendo a noi democratici che anche loro vogliono la democrazia, che sono pronti a sacrificarsi per ottenerla. E noi stiamo loro mostrando che non ci crediamo, che per noi la democrazia è buona solo per noi, o al massimo, per gli altri, quando la esportiamo noi direttamente, insieme ai nostri eserciti, con quali disastrose conseguenze si è visto in Iraq e in Afghanistan. Un esempio – un altro, dopo il sostegno pronto e assoluto a Israele, a dispetto di tutto – del nostro predicare bene e razzolare malissimo, e del sostenere politiche di ‘due pesi due misure’ che inevitabilmente, e molto presto, ci verranno giustamente rinfacciate e ci si ritorceranno contro.

Solo oggi – ed è incredibile per chiunque abbia un minimo di conoscenza di queste situazioni – la stampa occidentale (e, molto meno, i suoi leader politici) comincia a chiamare dittatori quelli che fino a ieri ha chiamato presidenti, e regimi quelle che finora ha chiamato democrazie, denunciandone le nefandezze. Ma la cecità storica di cui dovremo rispondere è precisamente questa: di aver fatto finta di non sapere che questi regimi si fondavano solo sulle impresentabili basi della repressione, dell’appropriazione indebita delle risorse da parte delle leadership, della corruzione, della falsificazione sistematica dei risultati elettorali, delle leggi speciali e della tortura, del bavaglio alla stampa e alle opposizioni – con credenziali democratiche, quindi, nulle.

C’è da sperare che l’Occidente si risvegli dal suo torpore, riconosca di fronte all’opinione pubblica araba i suoi errori e le sue inerzie anche di pensiero, e sostenga le nuove future leadership di questi paesi nella loro difficile transizione, acquisendole come preziosi alleati e compagni di strada. E non ripeta l’errore storico, che si è trasformato in una storica tragedia, già compiuto in Algeria, quando interruppe un processo democratico in atto, tra un turno e l’altro delle elezioni, solo perché stavano andando al potere persone e partiti che conosceva poco, e che temeva forse al di là del giusto, assumendosi la responsabilità di essere concausa delle violenze che sono seguite.

Stefano Allievi

llievi S. (2011), Errore storico sulla polveriera del mondo arabo, in “Il Mattino”, 9 febbraio 2011, pp. 1-6 (anche “Tribuna di Treviso”)

Italia inadatta a maneggiare il caso Tunisia

Il satrapo è scappato. Il dittatore che le cancellerie occidentali per troppo tempo hanno fatto finta fosse un presidente democraticamente eletto, è fuggito via, senza vergogna, ma ben munito di risorse, come usa in questi casi.

La Tunisia si libera da una cappa di repressione e corruzione familiare che durava da quasi un quarto di secolo, più di quanto sia durato il fascismo. La fine del regime di Ben ali è una buona notizia per tutta l’area, ma i contorni di questa che è più un’implosione e un’autodissoluzione che una rivoluzione o un golpe di palazzo, ancora vaghi, lasciano adito a molte incertezze. La prima delle quali riguarda le modalità della transizione. Questo crollo di regime avviene in maniera più rapida e per questo inaspettata del previsto. La rabbia delle piazze non ha ancora raggiunto il suo culmine, ed esploderà con maggior forza – in quali forme è troppo presto per sapere – quando finalmente i tunisini potranno sapere la verità sull’entità delle spoliazioni sistematiche cui sono stati sottoposti, e una libera stampa e una vita politica vera, finora inesistenti, potranno denunciare, oltre agli scandali, la gravità e la durezza della repressione, che aveva le sue antenne anche nei paesi dell’emigrazione tunisina, Italia inclusa. Un governo di unità nazionale può essere intanto una soluzione tampone, in attesa dell’avvio di un processo democratico dalle molte incognite, e in presenza di una crisi economica profonda, senza nemmeno le risorse naturali di cui godono paesi vicini, come l’Algeria: la ricchezza tunisina, il turismo, ha ricevuto infatti un colpo molto duro dalla crisi economica europea.

Su questo scenario spicca la cecità e l’inconsistenza politica dell’occidente, e dell’Italia in maniera particolare. I paesi europei portano tutta intera la responsabilità di avere sostenuto fino all’estremo, per timore del fondamentalismo islamico, regimi indifendibili, rendendo quasi inesorabile la polarizzazione tra dittature cosmeticamente travestite da democrazie, nascoste dal belletto di elezioni che tutti sapevano truccate, e islamismo radicale: questo in Tunisia, come in Egitto, dove un regime sull’orlo della fossa prepara la transizione nelle mani del figlio del presidente, come altrove. Proprio perché queste stesse dittature hanno fatto piazza pulita di ogni opposizione, islamista o liberale, borghese o popolare, e della società civile, un’alternativa democratica e moderata non è a disposizione, né l’Europa ha fatto nulla per costruirla e sostenerla. C’è da sperare che impari la lezione e lo faccia ora. Il rischio altrimenti è che gli islamisti, in Tunisia come altrove costretti all’esilio o al carcere, si dimostrino la sola alternativa ai regimi che li hanno perseguitati. L’Italia, in questo panorama, spicca per un livello di insipienza politico-strategica ai limiti del suicidio diplomatico. Mentre la Gran Bretagna ospita come esule politico il leader islamista tunisino, peraltro moderato, Rachid Ghannouchi, il governo Berlusconi gli ha invece negato in passato persino il visto di ingresso. E mentre la Francia blocca i beni tunisini sul suo territorio, l’Italia tace e non fa nulla. Il ministro Frattini, ancora oggi, continua ad agitare lo spauracchio islamista, dimenticando di aver fatto molto perché ne crescesse la forza, e arriva a proporre, a una parte del mondo tutt’altro che primitiva, il modello Gheddafi, di cui gli stessi libici si sbarazzerebbero volentieri se solo lo potessero, e che nessuno nel mondo arabo prende seriamente a modello. Con questo, invece di prepararci a lavorare con le élite che governeranno domani questi paesi, ce le alieniamo ulteriormente. E rimpiangendo l’amico Ben Ali, che ha ospitato Craxi e fraternizzato con Berlusconi, che l’ha più volte incontrato anche privatamente nelle proprie vacanze, non facciamo che sottoscrivere una atto di abdicazione dalla nostra presenza nell’area.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Italia inadatta a maneggiare il caso Tunisia, in “Il Mattino”, 18 gennaio 2011, p. 7 (anche “Il Piccolo” p. 1-2 “Quel satrapo troppo amico”)

Le primarie sono fedeltà ai princìpi

In difesa delle primarie

In un editoriale pubblicato ieri l’amico Gilberto Muraro definisce le primarie uno “strumento per scegliere il perdente”. E si domanda se “vale la pena di farsi del male per fedeltà ai princìpi”. Ora, una delle cose di cui hanno sofferto i partiti italiani è proprio quella di essere stati così poco fedeli ai loro princìpi, cambiando continuamente idee e linea politica (molto meno le leadership), da produrre un crollo della fiducia e un forte aumento dell’astensionismo. Le primarie sono un principio costitutivo del Pd, che ha molto contribuito a caratterizzarne l’originalità, e uno strumento fondamentale per il suo rinnovamento: due buone ragioni per tenersele strette.

Esse servono per selezionare i vincenti, o almeno i migliori, non i perdenti. Matteo Renzi è diventato sindaco di Firenze grazie alle primarie del Pd. E oggi è uno dei suoi uomini nuovi più promettenti nonché, dicono i sondaggi, il sindaco più popolare d’Italia. Senza le primarie, semplicemente non sarebbe esistito. Nichi Vendola ha già vinto due volte le primarie di coalizione e il governo della sua regione, la Puglia. Se il Pd ha perso con i suoi candidati ufficiali forse deve fare una riflessione sulla bontà delle sue scelte e sulla sua distanza dall’elettorato: e magari sugli eterni sponsor dei perdenti (nel caso pugliese Massimo D’Alema), che collezionano sconfitte ma restano sempre a galla.

Piacciano o meno i personaggi citati, sono esempi di rapporto vero con il proprio elettorato e con la società che li esprime. Se altrove (come a Milano) i candidati ufficiali del Pd perdono, forse è perché sono quelli sbagliati, o forse è perché è sbagliato che il partito ne sponsorizzi uno solo, invece di lasciare la scelta alla base, accettando il suo responso e sostenendo il vincitore, chiunque sia. L’errore dunque non è fare le primarie, ma crederci solo a metà, e quindi farle male.

Le primarie sono state momenti di grande partecipazione, anche di non iscritti: merito del Pd è stato quello di attivarla, e suo demerito è stato semmai di non valorizzarla. La prima vittima della cancellazione delle primarie sarebbero proprio questi elettori: simpatizzanti del Pd, non dei vecchi partiti che gli hanno dato origine (a cui le primarie non sono mai andate giù, perché preferiscono la cooptazione, assai più controllabile). Inoltre non dividono il partito, ma ne consentono la partecipazione, rispecchiando gli umori della base. La prova è che come segretario del Pd ha vinto Bersani perché aveva più consenso, ma i perdenti collaborano fedelmente con il vincitore. L’errore è semmai che a livello locale si sono votate liste legate ai segretari nazionali, anziché persone davvero in competizione con le loro rispettive qualità, privilegiando l’obbedienza di corrente rispetto alla capacità di creazione di consenso.

Inoltre solo le primarie consentono di svecchiare un ceto dirigente arroccato sulla propria difesa, evitando di ripresentare alle elezioni i soliti noti, in calo di consensi, e favorendo la partecipazione di forze che fanno altrimenti fatica ad emergere. E’ per questo che, lungi dal cancellarle, vanno generalizzate: per scegliere i candidati al Parlamento come i sindaci e i segretari.

Quale è l’alternativa? Che, come avvenuto troppo spesso, i capicorrente si riuniscano in sedi non formali per decidere in una logica di spartizione: io mando il tuo a fare il segretario, se tu dai ai nostri un posto in parlamento, e a quegli altri il sindaco – e poi si fa un bel congresso per ratificare l’accordo. Le primarie sono il solo modo di spazzare via questo modo di fare politica: che riproduce le leadership senza produrre consenso (e anzi facendone perdere). Per questo dire addio alle primarie sarebbe dire addio al Pd.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Le primarie sono fedeltà ai princìpi, in “Il Mattino”, 11 gennaio 2011, pp. 1-4

Essere cristiani, un mestiere pericoloso

La strage di Natale in Nigeria è solo un fatto tra tanti. Più simbolico di altri, certo: morire perché cristiani nel giorno in cui si ricorda la nascita di Cristo. Ma un episodio insieme a molti altri: che dal Pakistan alla Somalia, dall’Iraq alla Cina, dalla Colombia alle Filippine, dalla Corea al Sudan, dall’Arabia Saudita all’Honduras, dal Congo alla Turchia, dal Brasile alla Palestina, dove Cristo è vissuto e si è annunciato al mondo, testimoniano di come essere cristiano oggi possa ancora essere un segno di contraddizione e, incidentalmente, un mestiere pericoloso.

Ce ne accorgiamo poco, e prestiamo a questi episodi una attenzione distratta. Dopotutto non ci riguardano: qui da noi essere cristiano, per molti, è troppo spesso una comoda identità, qualche volta persino un business o una rendita politico-culturale. E per quelli per cui è un costo, una scelta scomoda, c’e più spesso il silenzio. O le luci del martirio quando ormai è troppo tardi. Del resto da noi la Chiesa, nella sua parte più visibile, è istituzione, potere, denaro persino; è in quella invisibile, quella che non fa notizia, che bisogna cercare più spesso il lievito del pane, il sale della terra: chi si occupa degli ultimi, chi è vicino a chi soffre, o a chi ha fame e sete di giustizia.

Ecco, i massacri di cristiani qualunque in paesi qualunque ci ricordano che essere cristiani è, dovrebbe essere, potrebbe essere, una scelta radicale, una testimonianza esplicita, un richiamo forte. Non un dichiararsi tiepido, un ricordarsi appena appena, nei giorni comandati. O, come in certa politica nostrana, che in questo è specchio fedele della nostra società, baciare un anello cardinalizio, ossequiare una porpora, mendicare la stretta di mano di una qualche autorità ecclesiastica. Non per caso nel nostro Parlamento e nel nostro Governo il tasso di clericalismo è spesso inversamente proporzionale alla fede, e quelli che più ci tengono a dichiararsi cristiani sono quelli che meno bazzicano le opere pie, del resto assai scomode: non solo c’è da dare da mangiare all’affamato e da bere all’assetato (che si può risolvere in maniera moderna e pulita con un obolo a un qualche ente assistenziale), ma anche da visitare l’ammalato e il carcerato e peggio ancora ospitare il forestiero, come meno volentieri si ricorda.

Altrove è diverso. Altrove, per il semplice fatto di essere cristiani, si può morire. Come vittime innocenti, o come testimoni attivi di fronte all’ingiustizia: vittime di poteri economici, di potentati politici, di squadroni della morte, ma anche solo di invidie di vicinato, di gelosie strumentalizzate e sobillate ad arte. Con targa religiosa, islamica spesso (anche se quelle che scambiamo per guerre di religione sono più spesso guerre tra poveri), o semplicemente al soldo del potere. Gli episodi di persecuzione che ricordavamo non sono solo testimonianze che la Chiesa perseguitata esiste, che il martirio è d’attualità oggi come duemila anni fa. Ci ricordano anche che essere cristiani, se lo si vuole, significa davvero qualcosa. E qualcosa di importante, se il suo valore – non il suo prezzo – è ancora quello della vita.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Il coraggio dei cristiani, in “Il Piccolo”, 29 dicembre 2010, pp. 1-2 E ANCHE

Allievi S. (2011), Essere cristiani, un mestiere pericoloso, in “Il Mattino”, 4 gennaio 2011, p. 39 (anche “La Nuova di Venezia” p. 34 e “La Tribuna di Treviso” p. 39)

1 Allievi S. (2010), Il coraggio dei cristiani, in “Il Piccolo”, 29 dicembre 2010, pp. 1-2 E ANCHE

Allievi S. (2011), Essere cristiani, un mestiere pericoloso, in “Il Mattino”, 4 gennaio 2011, p. 39 (anche “La Nuova di Venezia” p. 34 e “La Tribuna di Treviso” p. 39) A R

Essere cristiani, un mestiere pericoloso,

La strage di Natale in Nigeria è solo un fatto tra tanti. Più simbolico di altri, certo: morire perché cristiani nel giorno in cui si ricorda la nascita di Cristo. Ma un episodio insieme a molti altri: che dal Pakistan alla Somalia, dall’Iraq alla Cina, dalla Colombia alle Filippine, dalla Corea al Sudan, dall’Arabia Saudita all’Honduras, dal Congo alla Turchia, dal Brasile alla Palestina, dove Cristo è vissuto e si è annunciato al mondo, testimoniano di come essere cristiano oggi possa ancora essere un segno di contraddizione e, incidentalmente, un mestiere pericoloso.

Ce ne accorgiamo poco, e prestiamo a questi episodi una attenzione distratta. Dopotutto non ci riguardano: qui da noi essere cristiano, per molti, è troppo spesso una comoda identità, qualche volta persino un business o una rendita politico-culturale. E per quelli per cui è un costo, una scelta scomoda, c’e più spesso il silenzio. O le luci del martirio quando ormai è troppo tardi. Del resto da noi la Chiesa, nella sua parte più visibile, è istituzione, potere, denaro persino; è in quella invisibile, quella che non fa notizia, che bisogna cercare più spesso il lievito del pane, il sale della terra: chi si occupa degli ultimi, chi è vicino a chi soffre, o a chi ha fame e sete di giustizia.

Ecco, i massacri di cristiani qualunque in paesi qualunque ci ricordano che essere cristiani è, dovrebbe essere, potrebbe essere, una scelta radicale, una testimonianza esplicita, un richiamo forte. Non un dichiararsi tiepido, un ricordarsi appena appena, nei giorni comandati. O, come in certa politica nostrana, che in questo è specchio fedele della nostra società, baciare un anello cardinalizio, ossequiare una porpora, mendicare la stretta di mano di una qualche autorità ecclesiastica. Non per caso nel nostro Parlamento e nel nostro Governo il tasso di clericalismo è spesso inversamente proporzionale alla fede, e quelli che più ci tengono a dichiararsi cristiani sono quelli che meno bazzicano le opere pie, del resto assai scomode: non solo c’è da dare da mangiare all’affamato e da bere all’assetato (che si può risolvere in maniera moderna e pulita con un obolo a un qualche ente assistenziale), ma anche da visitare l’ammalato e il carcerato e peggio ancora ospitare il forestiero, come meno volentieri si ricorda.

Altrove è diverso. Altrove, per il semplice fatto di essere cristiani, si può morire. Come vittime innocenti, o come testimoni attivi di fronte all’ingiustizia: vittime di poteri economici, di potentati politici, di squadroni della morte, ma anche solo di invidie di vicinato, di gelosie strumentalizzate e sobillate ad arte. Con targa religiosa, islamica spesso (anche se quelle che scambiamo per guerre di religione sono più spesso guerre tra poveri), o semplicemente al soldo del potere. Gli episodi di persecuzione che ricordavamo non sono solo testimonianze che la Chiesa perseguitata esiste, che il martirio è d’attualità oggi come duemila anni fa. Ci ricordano anche che essere cristiani, se lo si vuole, significa davvero qualcosa. E qualcosa di importante, se il suo valore – non il suo prezzo – è ancora quello della vita.

Stefano Allievi

Il coraggio dei cristiani

La strage di Natale in Nigeria è solo un fatto tra tanti. Più simbolico di altri, certo: morire perché cristiani nel giorno in cui si ricorda la nascita di Cristo. Ma un episodio insieme a molti altri: che dal Pakistan alla Somalia, dall’Iraq alla Cina, dalla Colombia alle Filippine, dalla Corea al Sudan, dall’Arabia Saudita all’Honduras, dal Congo alla Turchia, dal Brasile alla Palestina, dove Cristo è vissuto e si è annunciato al mondo, testimoniano di come essere cristiano oggi possa ancora essere un segno di contraddizione e, incidentalmente, un mestiere pericoloso.

Ce ne accorgiamo poco, e prestiamo a questi episodi una attenzione distratta. Dopotutto non ci riguardano: qui da noi essere cristiano, per molti, è troppo spesso una comoda identità, qualche volta persino un business o una rendita politico-culturale. E per quelli per cui è un costo, una scelta scomoda, c’e più spesso il silenzio. O le luci del martirio quando ormai è troppo tardi. Del resto da noi la Chiesa, nella sua parte più visibile, è istituzione, potere, denaro persino; è in quella invisibile, quella che non fa notizia, che bisogna cercare più spesso il lievito del pane, il sale della terra: chi si occupa degli ultimi, chi è vicino a chi soffre, o a chi ha fame e sete di giustizia.

Ecco, i massacri di cristiani qualunque in paesi qualunque ci ricordano che essere cristiani è, dovrebbe essere, potrebbe essere, una scelta radicale, una testimonianza esplicita, un richiamo forte. Non un dichiararsi tiepido, un ricordarsi appena appena, nei giorni comandati. O, come in certa politica nostrana, che in questo è specchio fedele della nostra società, baciare un anello cardinalizio, ossequiare una porpora, mendicare la stretta di mano di una qualche autorità ecclesiastica. Non per caso nel nostro Parlamento e nel nostro Governo il tasso di clericalismo è spesso inversamente proporzionale alla fede, e quelli che più ci tengono a dichiararsi cristiani sono quelli che meno bazzicano le opere pie, del resto assai scomode: non solo c’è da dare da mangiare all’affamato e da bere all’assetato (che si può risolvere in maniera moderna e pulita con un obolo a un qualche ente assistenziale), ma anche da visitare l’ammalato e il carcerato e peggio ancora ospitare il forestiero, come meno volentieri si ricorda.

Altrove è diverso. Altrove, per il semplice fatto di essere cristiani, si può morire. Come vittime innocenti, o come testimoni attivi di fronte all’ingiustizia: vittime di poteri economici, di potentati politici, di squadroni della morte, ma anche solo di invidie di vicinato, di gelosie strumentalizzate e sobillate ad arte. Con targa religiosa, islamica spesso (anche se quelle che scambiamo per guerre di religione sono più spesso guerre tra poveri), o semplicemente al soldo del potere. Gli episodi di persecuzione che ricordavamo non sono solo testimonianze che la Chiesa perseguitata esiste, che il martirio è d’attualità oggi come duemila anni fa. Ci ricordano anche che essere cristiani, se lo si vuole, significa davvero qualcosa. E qualcosa di importante, se il suo valore – non il suo prezzo – è ancora quello della vita.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Il coraggio dei cristiani, in “Il Piccolo”, 29 dicembre 2010, pp. 1-2

anche come Allievi S. (2011), Essere cristiani, un mestiere pericoloso, in “Il Mattino”, 4 gennaio 2011, p. 39 (anche “La Nuova di Venezia” p. 34 e “La Tribuna di Treviso” p. 39)