Luca Zaia gode di tassi di consenso stratosferici: di approvazione trasversale, di immarcescibile e persino crescente popolarità, in fasce assai diverse di popolazione, per età, livello di istruzione, genere, professione.
Non ne diamo un giudizio politico. Non è quello che ci interessa, in questa sede. Lo constatiamo, e basta. È un animale politico di rara abilità e longevità. E vorrà dire qualcosa se il suo consenso personale trascende la sua parte politica, e pesca abbondantemente anche in quella avversaria.
Ma è sufficiente, questo, a giustificare un altro mandato come governatore, e un altro ancora? Vale per lui, come per gli altri governatori, per i sindaci, per gli assessori, e per le altre cariche apicali della politica che prevedono il limite dei due mandati (che poi, nel caso specifico, si tratterebbe del quarto mandato, e non del terzo, visto che governa da prima che entrasse in vigore la norma sui due mandati: è presidente della regione ininterrottamente dal 2010, ed è stato suo vice-presidente dal 2005, se escludiamo una breve parentesi come ministro).
Chi sostiene l’abolizione del limite dei mandati ha un argomento forte: il consenso, la volontà popolare (se pure espressa da un numero sempre minore di elettori: oggi basta la metà più uno dei consensi di meno della metà degli elettori a vincere – e il trend di partecipazione continua a calare, cambiando di molto il significato dell’espressione “volontà popolare”, riducendola di fatto a un suo simulacro). E un altro ancora: perché solo loro? Perché non anche i parlamentari, o i consiglieri comunali, provinciali e regionali? L’obiezione ha senso: seppure chi governa ha un potere molto maggiore di chi si limita a rappresentare. E comunque varrebbe la pena ragionare sul fatto di introdurre il limite anche per gli altri, come alcuni partiti hanno fatto volontariamente. Si dice che così non si formano professionalità politiche adeguate: ma non abbiamo alcuna controprova che, se ci fosse stato maggiore ricambio, le cose sarebbero andate peggio. Mentre abbiamo molti indizi che, con i professionisti della politica, i signori delle tessere, le consorterie permanenti, le rendite di posizione, le ‘ditte’ di vario tipo, le cose siano comunque andate molto male.
Il fatto è che sapere di avere una scadenza, per quanto lontana, obbliga i partiti, e gli stessi leader, a far crescere un ceto politico di ricambio, fresco e innovatore, capace e professionale. Mentre in assenza di limiti le elite tendono ad autoperpetuarsi, e hanno tutto l’interesse non solo a non favorire, ma a ostacolare e impedire attivamente l’emergere di figure politiche concorrenti. Creando un danno enorme: almeno se crediamo che la concorrenza abbia un valore e la meritocrazia un senso, anche al di fuori del mercato e dell’economia.
Piaccia o non piaccia, un monarca, per quanto costituzionale, porta con sé i soliti noti, gli amici e i consiglieri fidati, le cordate e le clientele abituali, i garanti dell’ordine costituito: le proprie corti e i propri cortigiani. Mai figure, come si dice oggi, disruptive, innovative; quasi mai un cambiamento di visione; e mai processi che possano mettere in questioni gli obiettivi raggiunti, o esprimere un giudizio critico sul passato. E questo molto al di là della volontà dei singoli. Del resto, è quello che si è visto in regione anche dopo le ultime elezioni: le continuità, le inerzie (la forza più grande della storia, diceva Tolstoj) hanno prevalso nettamente sulle discontinuità – basta guardare alle nomine e agli assessori. Squadra che vince non si cambia, si dice: il problema è intendersi sul concetto di vittoria – alle elezioni o nella competizione globale? È un aspetto, non secondario, della legge ferrea delle oligarchie di cui parlava uno studioso italiano, Roberto Michels, già all’inizio del secolo scorso. Un leader, inoltre, può pure sembrare eterno e immortale (il potere dà questa illusione), ma invecchia anche lui. E come tutte le persone che invecchiano finisce per vivere più di abitudini che di cambiamenti, per essere più legato al passato, alla nostalgia del buon tempo andato (che peraltro non tornerà mai più: il Nordest è cambiato completamente, dai fasti del suo modello alle difficoltà attuali) che al futuro con i suoi rischi e le sue opportunità, su cui bisogna saper scommettere.
Tra chi punta sulla continuità – che forse è mero continuismo – c’è chi teme il vuoto di potere. Ma il vuoto di potere non esiste. Semmai esiste il potere del vuoto. Che è quello che la politica mostra aspirando a perpetuare sé stessa, anziché aprirsi a un nuovo modo di pensarsi e di pensare la società.
Il potere che cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2023, editoriale, p.1
Chi è contro l’integrazione? Moschee e politica: il caso Monfalcone
/in Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles /da AugustaLa chiusura delle moschee di Monfalcone mostra quante contraddizioni e strumentalizzazioni circondino l’integrazione degli immigrati, e quanto spesso l’ostacolo ad essa siano gli autoctoni, e non i diretti interessati.
Il fatto. La sindaca Cisint, pochi giorni prima di Natale, ha chiuso due centri culturali islamici e interdetto il parcheggio a un terzo. Ottomila musulmani hanno civilmente manifestato contro la chiusura, dietro lo striscione “Siamo tutti monfalconesi. No alle divisioni”, sventolando bandiere italiane e europee; e lei ha indetto uno scambio di auguri in un’altra piazza (con presenze comparativamente modeste: ma bastano i media a fare da eco), accusandoli di provocazione e di guerra di religione, evocando un inesistente attacco al Natale, sostenuta dal ministro Salvini e dal presidente della regione Fedriga.
Qual è il problema vero? Che a Monfalcone, 28mila abitanti, vivono 8mila stranieri, quasi il 30%, la metà dei quali provenienti dal Bangladesh, musulmani. E perché ci sono così tanti musulmani a Monfalcone? Perché lì vivono e lavorano, in buona parte a Fincantieri e nell’indotto della cantieristica. Non dovrebbe stupire che abbiano desiderio – e diritto – a un luogo di culto: anche gli italiani emigrati la prima cosa che costruivano, dopo la propria casa, era la chiesa. Ma invece di aiutarli a costruirsi una moschea dignitosa, si dichiara guerra ai loro luoghi di culto.
Certo, capiamo che è difficile governare questa complessità: peraltro, con un numero di immigrati aumentato fortemente proprio durante il primo mandato della sindaca, a testimonianza del fatto che non basta dire di non volere gli immigrati per vederli sparire. E allora perché chiudere le moschee? Con un argomento usato spesso: cambio di destinazione d’uso, sovraffollamento e sicurezza, e quindi inagibilità. Immaginiamo si usi la stessa solerzia per tutti gli altri cambi di destinazione d’uso, si siano chiuse per eccessivo affollamento le chiese durante le messe di Natale, e si controlli capillarmente sicurezza e norme antincendio di tutte le imprese (a cominciare da Fincantieri), i negozi, le scuole, le polisportive, i circoli culturali e gli oratori della città, per evitare sospetti di attenzione selettiva. Ma anche fosse: come potrebbero le moschee essere costruite alla luce del sole, visto che mai otterrebbero i permessi relativi? Altre regioni, come Veneto e Lombardia, hanno addirittura approvato leggi per impedirle…
Ecco, il problema è qui, ed è culturale, e di scontro tra l’ideologia e il principio di realtà. L’ideologia vorrebbe una Monfalcone ‘pura’ etnicamente (ma che vuol dire in una città in cui i meridionali son venuti a lavorare nei cantieri fin dalla loro apertura, cent’anni fa?). La realtà si scontra con un fabbisogno di manodopera che certo andrebbe gestito meglio, vincolando Fincantieri e le altre imprese a regole e contratti più cogenti (e questo si dovrebbe fare, infatti, non prendersela con l’ultimo anello della catena, il più debole), ma senza la quale la città sarebbe assai più povera, e in drammatico calo demografico: mentre così rischia di trovarsi in vantaggio competitivo rispetto ad altre realtà della regione. E invece no: si tolgono le panchine dalla piazza perché le usano gli immigrati, si pratica un tetto massimo di stranieri nelle scuole, e financo si toglie il cricket dalla festa dello sport monfalconese solo perché praticato dai bengalesi – mettendo i residenti gli uni contro gli altri. Sarà vantaggioso elettoralmente (la sindaca ha ottenuto il secondo mandato con una maggioranza del 72%, anche se i suoi voti sono stati 7500, meno dei manifestanti dell’altro giorno), ma è miope, perché si produce il contrario di quello che si dice di volere, senza metterne le basi: maggiore integrazione, che poi vuol dire maggiore sicurezza e benessere per tutti.
Cosa succederà, andando avanti così? Inevitabilmente, che una parte della città governerà contro l’altra, anziché con. Facile, anche perché l’altra parte, per ora, non ha per lo più la cittadinanza, e non vota. Ma tale scelta rischia di configurarsi come un blando e non dichiarato apartheid, in cui persone diverse per etnia e religione hanno diritti diversi, le cui conseguenze si pagheranno in futuro.
Ricordiamo, en passant, il precedente di Verona. Il sindaco allora leghista Tosi, al primo mandato, aveva un programma fortemente anti-islamico. Ha chiuso la moschea, come promesso: i musulmani hanno fatto ricorso al TAR e l’hanno vinto. L’ha richiusa, hanno rifatto ricorso, e l’hanno rivinto. È finita che nel secondo mandato sindaco e imam si facevano i selfie insieme, e oggi nessuno sano di mente, a Verona, rimetterebbe in questione il diritto costituzionale dei musulmani a riunirsi nel proprio luogo di culto. Magari pensarci prima?
Cantieri e moschee chiuse, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 dicembre 2023, editoriale, p. 1-2
Niente Natale dove è nato il Natale: Palestina senza pace
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaSe c’è un posto nel mondo dove sicuramente non sarà Natale, questo è dove è nato il suo protagonista: Betlemme, la Cisgiordania, la parte di Israele che noi chiamiamo Terra Santa, e la Palestina tutta (qualunque territorio questa espressione racchiuda), a cominciare da Gaza. Un fazzoletto di terra, insanguinato da decenni, che oggi conosce uno dei suoi momenti più alti di violenza e disumanizzazione. Tuttavia, se vogliamo evitare di indulgere in una facile retorica, affettatamente nobile ma di fatto vacua e non veramente partecipe, l’unica cosa decente e intelligente che possiamo fare noi, che il Natale lo passeremo al caldo, tra affetti e regali, è trarne qualche lezione.
La prima è che nessuno è al sicuro: nemmeno noi. La guerra è tornata vicino e dentro i confini dell’Europa, e con essa tornerà (è già tornata) la percezione di insicurezza, le proteste e i conflitti tra fazioni contrapposte, l’ossessione del terrorismo, tra ragionevoli timori e paranoie attentamente costruite.
È l’occasione, per noi, per fare pulizia: a cominciare dalla pulizia del linguaggio, sulla padronanza del quale, e sul modo di usarlo, abbiamo tutta la responsabilità del mondo. Possiamo legittimamente provare una sensazione di impotenza rispetto a scenari geopolitici tanto più grandi di noi. Ma non abbiamo il diritto di provarne quando ne parliamo, e ci ragioniamo sopra – che, già, sono due cose qualitativamente diverse.
Il primo invito allora è a ragionare prima di parlare. Che è un’attività che si fa da soli. Cercandosi fonti di informazione attendibili, e non avendo paura di esprimere opinioni dissonanti da quelle del mainstream mediatico e politico. Cercando di capire che possiamo e dobbiamo distinguere tra le responsabilità dei rispettivi carnefici, ma dobbiamo pure esprimere eguale solidarietà alle vittime innocenti, tutte. La logica da tifo calcistico con la quale spesso affrontiamo il conflitto israelo-palestinese, abbracciando superficialmente le ragioni dell’uno o dell’altro, schierandoci (“senza se e senza ma”, come spesso si chiosa: come se vivessimo e ragionassimo in questo modo in altri ambiti della vita individuale e sociale…), ma senza troppo pensare, è profondamente dissonante rispetto all’approfondimento critico cui siamo chiamati. Fare pulizia, togliere lo sporco da dentro di noi, dai nostri ragionamenti e dalle nostre parole, vuol dire innanzitutto questo: capire, ragionare, e solo poi prendere parte, che non è la stessa cosa che prendere partito – vuol dire innanzitutto entrare in empatia, cioè sentire il dolore (pàthos) altrui, non importa di chi si tratti. Così come sapere da che parte stare non vuol dire stare sempre e necessariamente dalla stessa parte: perché la ricerca della pace, di una soluzione al conflitto, che cerchi diminuire il costo che pagano gli innocenti, vuol dire saper leggere la realtà con gli occhi dell’altro, e cercare un compromesso accettabile, costruirlo pazientemente – con i se e con i ma. Sporcandosi le mani con la fatica delle scelte e delle inevitabili incomprensioni, non tenendole pulite in un’illusione di purezza identitaria, tipica di chi si sente dalla parte giusta. Denunciando quindi, in primo luogo, gli errori e le nefandezze di quelli che sosteniamo, invece di minimizzarle e nasconderle: che è quello che fa la propaganda (bellica per definizione) – che è l’inizio della fine della ricerca della verità, anzi è il suo opposto, il vero sporco che dovremmo ostinatamente cercare di togliere dagli interstizi del nostro ragionare e del nostro agire.
Il passo successivo è naturalmente quello della solidarietà: tanto più vera se la sentiamo, prima ancora di praticarla. Se piangiamo il dolore altrui, anziché usare selettivamente le vittime (rigorosamente solo quelle della parte che sosteniamo) per colpire e accusare la parte avversa. Le vittime meritano di essere aiutate, non strumentalizzate. E quindi è giusto anche valutarne il numero (contano, per noi, anche nella misura in cui le contiamo), e con esso misurare l’immensità della tragedia che si sta consumando, capire chi la subisce in maniera maggiore, chi sta pagando il prezzo più alto.
Gandhi diceva che “il fine sta nei mezzi come l’albero nel seme”. Che non ci sono cause giuste da sostenere se il modo con cui le sosteniamo è quello sbagliato, o è viziato all’origine da una lettura parziale della situazione. Anche perché, temo, le letture acritiche, partigiane, de-umanizzanti, di sostegno a sola una delle parti in causa, ci rimbalzeranno addosso in futuro. Anche in chiave geopolitica. E non potremo dire allora di non avere responsabilità in proposito. La responsabilità delle parole e delle azioni di oggi.
Lettere dalla guerra: Betlemme senza Natale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, p. 1
Perché è ragionevole il limite ai mandati
/in Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles /da AugustaLuca Zaia gode di tassi di consenso stratosferici: di approvazione trasversale, di immarcescibile e persino crescente popolarità, in fasce assai diverse di popolazione, per età, livello di istruzione, genere, professione.
Non ne diamo un giudizio politico. Non è quello che ci interessa, in questa sede. Lo constatiamo, e basta. È un animale politico di rara abilità e longevità. E vorrà dire qualcosa se il suo consenso personale trascende la sua parte politica, e pesca abbondantemente anche in quella avversaria.
Ma è sufficiente, questo, a giustificare un altro mandato come governatore, e un altro ancora? Vale per lui, come per gli altri governatori, per i sindaci, per gli assessori, e per le altre cariche apicali della politica che prevedono il limite dei due mandati (che poi, nel caso specifico, si tratterebbe del quarto mandato, e non del terzo, visto che governa da prima che entrasse in vigore la norma sui due mandati: è presidente della regione ininterrottamente dal 2010, ed è stato suo vice-presidente dal 2005, se escludiamo una breve parentesi come ministro).
Chi sostiene l’abolizione del limite dei mandati ha un argomento forte: il consenso, la volontà popolare (se pure espressa da un numero sempre minore di elettori: oggi basta la metà più uno dei consensi di meno della metà degli elettori a vincere – e il trend di partecipazione continua a calare, cambiando di molto il significato dell’espressione “volontà popolare”, riducendola di fatto a un suo simulacro). E un altro ancora: perché solo loro? Perché non anche i parlamentari, o i consiglieri comunali, provinciali e regionali? L’obiezione ha senso: seppure chi governa ha un potere molto maggiore di chi si limita a rappresentare. E comunque varrebbe la pena ragionare sul fatto di introdurre il limite anche per gli altri, come alcuni partiti hanno fatto volontariamente. Si dice che così non si formano professionalità politiche adeguate: ma non abbiamo alcuna controprova che, se ci fosse stato maggiore ricambio, le cose sarebbero andate peggio. Mentre abbiamo molti indizi che, con i professionisti della politica, i signori delle tessere, le consorterie permanenti, le rendite di posizione, le ‘ditte’ di vario tipo, le cose siano comunque andate molto male.
Il fatto è che sapere di avere una scadenza, per quanto lontana, obbliga i partiti, e gli stessi leader, a far crescere un ceto politico di ricambio, fresco e innovatore, capace e professionale. Mentre in assenza di limiti le elite tendono ad autoperpetuarsi, e hanno tutto l’interesse non solo a non favorire, ma a ostacolare e impedire attivamente l’emergere di figure politiche concorrenti. Creando un danno enorme: almeno se crediamo che la concorrenza abbia un valore e la meritocrazia un senso, anche al di fuori del mercato e dell’economia.
Piaccia o non piaccia, un monarca, per quanto costituzionale, porta con sé i soliti noti, gli amici e i consiglieri fidati, le cordate e le clientele abituali, i garanti dell’ordine costituito: le proprie corti e i propri cortigiani. Mai figure, come si dice oggi, disruptive, innovative; quasi mai un cambiamento di visione; e mai processi che possano mettere in questioni gli obiettivi raggiunti, o esprimere un giudizio critico sul passato. E questo molto al di là della volontà dei singoli. Del resto, è quello che si è visto in regione anche dopo le ultime elezioni: le continuità, le inerzie (la forza più grande della storia, diceva Tolstoj) hanno prevalso nettamente sulle discontinuità – basta guardare alle nomine e agli assessori. Squadra che vince non si cambia, si dice: il problema è intendersi sul concetto di vittoria – alle elezioni o nella competizione globale? È un aspetto, non secondario, della legge ferrea delle oligarchie di cui parlava uno studioso italiano, Roberto Michels, già all’inizio del secolo scorso. Un leader, inoltre, può pure sembrare eterno e immortale (il potere dà questa illusione), ma invecchia anche lui. E come tutte le persone che invecchiano finisce per vivere più di abitudini che di cambiamenti, per essere più legato al passato, alla nostalgia del buon tempo andato (che peraltro non tornerà mai più: il Nordest è cambiato completamente, dai fasti del suo modello alle difficoltà attuali) che al futuro con i suoi rischi e le sue opportunità, su cui bisogna saper scommettere.
Tra chi punta sulla continuità – che forse è mero continuismo – c’è chi teme il vuoto di potere. Ma il vuoto di potere non esiste. Semmai esiste il potere del vuoto. Che è quello che la politica mostra aspirando a perpetuare sé stessa, anziché aprirsi a un nuovo modo di pensarsi e di pensare la società.
Il potere che cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2023, editoriale, p.1
Il dolore e la presa di coscienza. Di fronte alla morte di Giulia Cecchettin.
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaSe la misura di un evento è la sua capacità di farci riflettere, l’assassinio di Giulia Cecchettin, la commozione, la riflessione e la mobilitazione che ne sono seguite, e infine la partecipazione corale e sentita ai funerali, hanno indubbiamente avuto un effetto trasformativo.
Certo, la violenza contro le donne e i femminicidi – nonché le culture su cui si fondano e gli squilibri di potere da cui originano – hanno una lunga storia, che purtroppo non finirà ora: ce ne saranno ancora. Ma nella storia sociale e civile, e qualche volta politica, di popoli e nazioni, ogni tanto capitano eventi spartiacque, che costringono tutti a una riflessione e a un esame di coscienza: la morte di Giulia, possiamo dirlo fin da adesso, è stato uno di questi eventi. E nel fatto che lo sia stato ha avuto un ruolo la consapevolezza forte della famiglia, del padre Gino e della sorella Elena, la loro capacità di farla diventare storia pubblica, interrogazione collettiva: grazie a loro questa morte non è stata e non sarà stata invano.
A fronte della grandezza di tutto questo, molte critiche e banalità sentite in questi giorni – su un presunto pensiero unico, sulla (ovvia) inaccettabilità delle generalizzazioni, sul fatto che la violenza in fondo c’è dappertutto e anche da parte delle donne, sulla derubricazione di quanto avvenuto a mero fatto individuale, a peculiarità solo psicologica (che ovviamente c’è) e individuale, sull’inesistenza di quello che si può chiamare patriarcato o in altro modo ma certamente è ben presente nelle nostre società, ecc. – sono totalmente irricevibili, e spesso dettate da semplice desiderio di visibilità, se non da puro gusto polemico, condito da infantilismo del pensiero.
Invece di ragionare in astratto, provo a raccontare quello che ho visto in università: l’università che Giulia (e anche il suo assassino, colui che ha così terribilmente tradito la sua fiducia) aveva frequentato e in cui avrebbe dovuto laurearsi pochi giorni dopo. Il lunedì dopo il fatto molti di noi docenti – maschi e femmine indifferentemente – avevano la voce spezzata, e facevano fatica a fare lezione: e, senza mettersi d’accordo, moltissimi l’hanno fatta su questo, parlandone con ragazze e ragazzi che non aspettavano altro, e avevano voglia e bisogno di dire la loro. La reazione, la partecipazione e la mobilitazione attiva di studentesse e anche studenti è stata spontanea, immediata, corale, sentita, emozionale, spesso legittimamente arrabbiata, per niente ideologica, tutt’altro che moralistica e politicamente schierata. Profonda, seria, autentica e matura, mi viene da dire, nonostante il forte coinvolgimento emotivo, e forse grazie ad esso. E il giorno dei funerali mi ha colpito non tanto la presenza delle ragazze (più scontata, da un certo punto di vista, anche se qualitativamente diversa da quella vista in altre situazioni, più rivendicative e di lotta, come le manifestazioni – più alta, direi), o quella di gruppi misti di ragazze e ragazzi, ma quella di giovani coppie abbracciate che credo non dimenticheranno di esserci state (anche e soprattutto quando litigheranno per questioni legate alle inerzie culturali implicite nei ruoli di genere), e ancora di più i gruppi di ragazzi arrivati insieme, e i tanti studenti, giovani adulti, uomini soli, venuti a testimoniare silenziosamente di fronte a se stessi una presenza sentita come dovuta: di fatto, a fare esame di coscienza, come individui e come collettività maschile, che deve prendersi carico del proprio ruolo e della propria responsabilità, piangendo il dolore, la sofferenza, la violenza subita ordinariamente dall’altra metà del mondo, le loro sorelle, amiche, madri, figlie, compagne, colleghe, partner.
Chi sottovaluta quanto avvenuto, o chi lo svaluta, derubricandolo a reazione di pochi, irridendola come emotiva, una cosa che passa e non lascerà tracce e conseguenze significative, dimentica che le emozioni sono ciò che ci fa letteralmente – come da etimologia – e-movere, cioè agire. E la com-mozione, il piangere insieme il dolore altrui, ne è una delle forme più eminenti ed efficaci.
Il nostro pianto collettivo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 dicembre 2023, editoriale, p. 1
Diritti civili: il divorzio tra politica e società
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaIl 74% degli italiani è favorevole all’eutanasia. Il 72,5% è favorevole alla concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati. Il 70,3% è favorevole all’adozione per i single, e il 54,3% anche per le coppie omosessuali. A proposito di mondo LGTBQ+, il 65,6% è a favore anche del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso. Solo la gestazione per altri è respinta dalla maggioranza degli italiani, essendo sostenuta dal 34,4% della popolazione. Lo attesta il Censis, nell’annuale fotografia scattata con il suo rapporto: uno specchio del paese, non della sua classe dirigente.
In queste cifre c’è infatti tutto lo scollamento (potremmo dire il divorzio, richiamando un altro tema di diritti civili in cui la società aveva mostrato di essere più avanti dei suoi leader) tra la popolazione italiana, e la politica che dovrebbe rappresentarla – ma non lo fa. Una politica che guarda all’indietro, che ha paura di prendere qualsiasi decisione, che rinvia e procrastina, mentre la società guarda più lontano (e altrove) e va avanti, pensa, riflette, evolve, cambia idea, e deciderebbe, se lo potesse.
Tutto questo non è estraneo alle difficoltà civili, sociali, e anche economiche del nostro paese, e al suo persino sorprendente basso livello di soddisfazione (siamo ai livelli più bassi, tra i paesi europei, negli indici di felicità percepita, nonostante i patrimoni Unesco e la dieta mediterranea, e la retorica sparsa a piene meni dalla politica sul paese più bello del mondo: altro elemento di scollamento – forse è bello per i politici, molto meno per gli altri).
Sono i giovani a tirare la volata su tutti questi temi. Ma sono la popolazione meno ascoltata. Perché sono pochi. Perché, precocemente delusi, votano in percentuali inferiori. E perché, quindi, ascoltare le paure degli anziani è più facile e redditizio per la politica (non deve fare nulla: solo dar loro ragione) che non agire, fare, cambiare qualcosa. Ma anche la popolazione più matura dei rappresentati la pensa diversamente dai suoi (molto presunti, sul piano valoriale) rappresentanti.
Incidentalmente, questo scollamento produce sfiducia ulteriore, lo sfilacciarsi del patto sociale, e anche la ragionevole esterofilia che spinge molti, giovani soprattutto, non solo a guardare con invidia ai modelli sociali di altri paesi, ma proprio ad andarsene, come mostra plasticamente la crescente emigrazione, che è ancora più alta tra le categorie più istruite e più aperte al cambiamento, producendo un impoverimento ulteriore, che paghiamo a caro prezzo.
Ecco, sarebbe bello, e soprattutto utile, se la politica – anche regionale, anche locale – (e la politica tutta: anche quando era al governo il centro-sinistra, non si sono prodotti passi avanti significativi, o non abbastanza, rispetto, che so, alla cittadinanza per le seconde generazioni nate in Italia o sul matrimonio egualitario) facesse un esame di coscienza sul proprio ruolo, sui danni che su questi temi fa al paese. E si desse una mossa. Magari, chiedendo scusa per il troppo tempo perso fino ad ora.
Se politica e società divorziano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 dicembre 2023, editoriale, p.1
Ironie della storia: gli albanesi e noi
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaVe li ricordate, gli albanesi? Quelli arrivati con la nave Vlora, ad esempio? Ventimila persone (ventimila!) arrivate con una nave sola, l’8 agosto 1991: il più grande sbarco di immigrati della storia italiana. In gran parte furono rimpatriati con una menzogna, dicendo che li si sarebbe portati altrove, ma sempre in Italia: compensati con un paio di jeans e poco più. Ma negli anni successivi sono continuati ad arrivare.
Oggi sono quasi mezzo milione, quasi un decimo degli immigrati in Italia, e non spaventano più nessuno. Al punto che gli stessi (e gli stessi partiti) che allora e negli anni successivi non li volevano proprio, organizzavano manifestazioni contro di loro e contro gli altri immigrati, raccoglievano voti utilizzandoli come capro espiatorio di mali sociali che stavano altrove, oggi firmano accordi con il loro paese d’origine per aiutarci a gestire proprio l’immigrazione irregolare che loro rappresentavano, appena trent’anni fa. E non è solo la politica ad aver cambiato idea: il che è segno di saggezza, anche se è sospetto che sia accaduto solo quando si è visto che poteva fare comodo. È anche la gente, quella stessa che all’inizio li rifiutava, che li ha poi accolti senza problemi: lavorano e hanno creato moltissime imprese (oltre 50mila, in cui sono assunti pure molti italiani), i matrimoni misti sono tantissimi, qualcuno è stato addirittura eletto dagli italiani per rappresentare i loro interessi e governarli: come la giovane avvocatessa Sindi Manushi, oggi sindaca di Pieve di Cadore (che peraltro è riuscita anche a diventare italiana, seppur mettendoci quasi quindici anni).
Ecco, dovrebbe dirci qualcosa, questa ironia della storia, questa solo apparentemente sorprendente nemesi storica, questa rivincita silenziosa. Perché la loro storia è la storia di tutte le migrazioni: solo che non si ama ricordarla. Né si fa tesoro dell’esperienza. E nemmeno si vuole accettare che accada così anche per gli altri immigrati.
Ma torniamo agli accordi siglati con l’Albania: di fatto uno specchietto per le allodole. Non che non si debbano fare accordi con altri paesi, per governare l’immigrazione: al contrario. Ma con i paesi di provenienza e di transito: e aprendo canali regolari di ingresso, cosa che ancora non si fa, non solo demandando ad essi politiche di contenimento. La ratio di questo accordo invece è la pura esternalizzazione di una funzione: fare là quello che normalmente si fa qua. Ufficialmente con la scusa che sia funzionale. Il problema è che non lo è. Oltre a essere enormemente costoso. È un po’ come se, per risolvere il problema delle liste d’attesa in sanità, aprissimo un ospedale a Tirana, e ci portassimo medici e pazienti italiani. Qui si fa lo stesso. Si prendono degli immigrati da Lampedusa o intercettati in mare, li si portano in Albania, in una base ristrutturata a spese nostre, con un fondo di garanzia per gli acquisti e le spese correnti, si porta personale amministrativo e di polizia dall’Italia (con le indennità e i sovracosti relativi), si esaminano le pratiche – si dice – di tremila persone al mese (ma se è davvero possibile farlo in Albania, perché qua ci mettiamo anche un anno e più?): poi, i richiedenti asilo riconosciuti, li si dovranno riportare in Italia. E quelli non riconosciuti, con tutta probabilità, ce li ritroveremo comunque da noi, perché riproveranno a entrare irregolarmente via mare dall’Albania o via terra lungo la rotta balcanica. Con il risultato di aver speso una cifra assurda per gestire delle pratiche che avremmo potuto gestire con molto meno in Italia. Un risultato, tuttavia, lo si sarà ottenuto, ed è la vera ragione dell’accordo: si potrà dire al proprio elettorato che si è fatto qualcosa per liberarsi di un po’ di immigrati giudicati inutili. E questo proprio mentre le nostre imprese, il nostro turismo, la nostra agricoltura e i nostri servizi, inclusi quelli alla persona, continueranno a lamentare la carenza di immigrati utili.
Se poi l’obiettivo, come si dichiara, è dissuasivo (spaventare gli immigrati, facendo loro balenare il rischio di essere portati altrove, anziché in Italia), è pura illusione che questo possa far diminuire le partenze. Non ci riescono i muri, che producono il solo risultato di aumentare la lunghezza, la durata e la sofferenza del viaggio. Figuriamoci se ci può riuscire una deviazione in più, per persone che hanno alle spalle migliaia di chilometri di viaggio, e di deviazioni ne hanno dovute già fare molte.
Infine, se la logica è esternalizzare, cioè usare i servizi di altri paesi, facendo fare ad altri quello che noi facciamo peggio, avrei una proposta: allarghiamola. Perché non far gestire il welfare alla Svezia, la burocrazia alla Germania, la giustizia alla Francia, la scuola alla Danimarca, le tasse all’Olanda?
Ironie della storia: noi e l’Albania, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 novembre 2023, editoriale, p.1
Bilancio di un ventennio: in sintesi…
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaÈ una tentazione a cui è difficile sottrarsi quella di fare bilanci a cifra tonda. Lo facciamo nel privato, festeggiando i compleanni con lo zero con enfasi particolare. E lo facciamo nel guardare retrospettivamente al nostro passato. A quasi ogni decennio, non a caso, tentiamo di dare un significato preciso, più di quanto sia lecito fare. Per questo ricordiamo i ’60 come gli anni del boom, i ’70 come quelli della protesta, gli ’80 come il decennio del riflusso, i ’90, forse, come gli anni delle speranze deluse (nasceva la seconda repubblica, ma dagli scandali di Tangentopoli, non dalla speranza di un mondo migliore).
Gli ultimi due decenni, più che dalla politica e dai movimenti sociali, sono caratterizzati dal ruolo dirompente assunto dalle tecnologie nelle nostre vite (quasi tutti gli strumenti, le app e i social che si mangiano gran parte del nostro tempo sono progettati o introdotti nel primo decennio di questo nuovo millennio), ma anche, soprattutto nell’ultimo decennio, dalle grandi crisi: economiche prima (si comincia con quella finanziaria del 2008), poi la presa di coscienza di quella climatica e ambientale, poi quella pandemica che fermerà il mondo temporaneamente e metterà in crisi la nostra idea di sviluppo globale forse definitivamente, infine quelle geopolitiche (che del resto avevano aperto il millennio, con l’abbattimento delle torri gemelle e la scoperta del terrorismo globale), fino all’Ucraina, e al riaprirsi del conflitto israelo-palestinese, e tutte le altre che ci siamo nel frattempo rapidamente scordati. Crisi, che diventano anche di senso, di prospettiva (non abbiamo più risposte alla domanda: dove stiamo andando?): e da cui non ci siamo più ripresi.
È una crisi anche quella demografica, che introduce una variabile ignota in passato, ma che ci cambierà radicalmente: le cui radici risalgono al secolo precedente, ma delle cui conseguenze ci accorgiamo solo adesso. Le nascite sono crollate, e siamo sempre più vecchi, anche se Trento e Bolzano stanno relativamente meglio rispetto alla media nazionale. In più abbiamo ripreso a emigrare, mentre l’immigrazione si è ormai consolidata nel passaggio generazionale, grazie ai nuovi italiani nati qui. Ma di queste immigrazioni abbiamo sempre più paura. Da un lato ci tocca ammetterne l’indispensabilità nel mondo del lavoro, dall’altro non ne vogliamo accettare le implicazioni, anche solo nella loro visibilità, ed erigiamo nuovi muri, mentali prima che fisici (e anche burocratici e legislativi).
Ed è una crisi anche quella della politica, dell’investimento nella casa comune, dei soggetti che pretendevano di guidare la società, dai partiti politici (oggi sempre più simili a consorterie dedite essenzialmente alla propria autoperpetuazione) alla chiesa, che resta una riserva etica importante, ma ha perso anch’essa incisività. Nella società è emerso un individualismo diffuso, che ha portato all’enfasi sui diritti soggettivi anziché su quelli da rivendicare collettivamente. Legati all’identità sessuale o alla bioetica, ma in realtà pervasivi, come mostrano gli egoismi anche generazionali (lo si vede quando si tratta di ripartire le risorse e gli investimenti: ognuno porta acqua al proprio mulino, che si tratti di pensioni o di qualche bonus).
Con l’individualismo si è diffuso il rancore di massa, la rabbia sorda e inconcludente, senza obiettivi, pronta a sfogarsi alla prima occasione, nei confronti del nemico politico e del capro espiatorio di turno (i social, ma anche le gazzarre televisive che vengono chiamate talk show, ne sono una riprova quotidiana, insieme a certa violenza banale, da incidente stradale o da rissa in un locale). E con il rancore si è innescato il ritorno delle tribù, l’insularità tra simili con lo stesso obiettivo (contro qualcuno più che per qualcosa). E si è accentuato un gap generazionale che forse non è mai stato così visibile e incisivo: neanche più il nuovo mondo dei giovani, che si ribella al vecchio, ma mondi separati e spesso non comunicanti – non si contesta neanche più, si vive altrimenti.
Di tutto questo, la politica è oggi uno specchio, forse ulteriormente deformante. E così, chiusi ciascuno nel proprio particolare, abbiamo perso la capacità di investimento sul futuro (complice la caduta del potere d’acquisto, la diminuzione dei salari reali, e anche una diffusa e impalpabile paura – raramente giustificata – che domina la vita cittadina di molti), cui è seguito il pessimismo come orizzonte. Come se si fosse persa la bussola, un orientamento, i punti di riferimento, le solide certezze che fanno sì che si sia capaci anche di grandi slanci, di nuove esplorazioni.
Eppure – seppure all’ombra della crisi ambientale e climatica – il futuro è potenzialmente esaltante. Le possibilità saranno enormi: il problema sarà far crescere di pari passo la capacità di immaginarle e di gestirle. Longevità, scoperte scientifiche, intelligenza artificiale e liberazione potenziale dal lavoro più duro e dai suoi ritmi e luoghi, come ci ha insegnato lo smart working. Ma questo ci riporterà ai problemi sociali di sempre: in primis la lotta alle diseguaglianze, per fare in modo che quello che è già a disposizione di pochi possa essere patrimonio di tutti.
pubblicato in “Corriere del Trentino” e “Corriere dell’Alto Adige” il 21 novembre 2023, in occasione dell’edizione del ventennale delle due edizioni locali del “Corriere della sera”
La ratio irrazionale degli accordi con l’Albania
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles /da AugustaImmaginiamo se, per migliorare la sanità in Italia, abbreviando le liste d’attesa e migliorando la qualità del servizio, l’Italia aprisse un ospedale a Tirana e portasse lì medici, infermieri e pazienti. O se, per offrire un servizio migliore nella pubblica istruzione, decidesse di aprire una scuola primaria a Scutari e un liceo a Durazzo, e lì ci trasferisse un po’ di studenti italiani, e i loro docenti. La considereremmo una conquista, un affare, una svolta storica da portare ad esempio, o non piuttosto una sconfitta, una intollerabile ammissione di incapacità e impotenza? Vista da questa angolatura, la scelta di aprire dei centri di gestione delle richieste di asilo degli sbarcati a Lampedusa in Albania, si presta già a qualche prima riflessione. Anche perché, se così stanno le cose, solo un grande risparmio economico potrebbe giustificare tale scelta, che resterebbe comunque sorprendente in termini di principio e problematica sul piano giuridico e del rispetto delle normative internazionali. Mentre appare già oggi chiaro che costerà molto di più che non gestire gli stessi numeri in Italia. E per giunta non sarà risolutivo.
Oltre a ciò, dovremmo considerare umiliante il fatto di dover immaginare che gli albanesi siano più bravi e veloci di noi nel gestire le pratiche: secondo le previsioni, 3000 persone al mese, con un turnover annuale di 36mila. Se è possibile farlo in 30 giorni, perché ci mettiamo fino a un anno e mezzo, e soprattutto perché non lo facciamo noi? Assumendo personale e dando lavoro a casa nostra?
La risposta sta nella logica dell’accordo. Che non è quella di migliorare la gestione del fenomeno, ma di mandare un segnale alla pubblica opinione autoctona, e in particolare all’elettorato della maggioranza, e a quello della premier in particolare. Una mossa astuta, dunque, ispirata non dall’obiettivo dell’efficienza e men che meno della giustizia, ma dall’ossessione ideologica di esternalizzare il problema (e dall’avvicinarsi delle elezioni europee), più che l’indicazione di un nuovo paradigma.
I problemi stanno già nel merito dell’accordo. Davvero si gestiranno le pratiche in un mese? E coloro che saranno riconosciuti come richiedenti asilo verranno a quel punto trasferiti in Italia, come la logica lascia pensare? E quelli che non lo sono, saranno davvero rimpatriati (a spese dell’Italia), o non finiranno per proseguire sulla rotta balcanica e tentare di rientrare comunque via terra (o di nuovo via mare, come gli albanesi di qualche decennio fa), ricominciando tutto da capo? E davvero si crede cha la pubblica opinione albanese lascerà passare l’accordo (che non è transitato dal parlamento, come del resto da quello italiano), che non protesterà perché uno dei luoghi coinvolti ospita il 70% del turismo estivo nel paese (e gli albergatori albanesi non hanno una mentalità diversa dai nostri), che non reagirà a un accordo di cui non sono chiari i vantaggi, e che ha un sapore vagamente neocoloniale?
Il problema vero è che, su una questione come quella della gestione dei flussi migratori, di cui le richieste d’asilo sono una delle forme contemporanee, e per giunta che riguarda il controllo dei confini e in ultima istanza la sovranità dello stato, la decisione può solo restare in capo allo stato medesimo, e ogni tentazione di esternalizzarla, pure tra loro molto diverse (come tentato anche dal Regno Unito con il Ruanda, come praticato dall’Unione Europea con la Turchia, come già fatto dall’Italia con la Libia, e come vagheggiato oggi da diverse cancellerie) solleva sempre i medesimi problemi, senza offrire peraltro soluzioni di lungo periodo, né risparmi. E questo, perché è sbagliata la logica. Perché, banalmente, il problema va affrontato dall’inizio, non dalla fine.
Se abbiamo oggi così tanti richiedenti asilo che arrivano irregolarmente, è perché abbiamo progressivamente chiuso i canali di ingresso regolare per i migranti economici, che sono precisamente quelli di cui abbiamo bisogno (l’Italia, al ritmo di almeno duecentomila l’anno, solo per compensare le uscite dal mercato del lavoro per pensionamento, e i mancati ingressi causa calo demografico: l’Europa per almeno due milioni). Riaprire i secondi è la prima condizione per vedere diminuire i primi. Ma questo presuppone ammettere – dicendolo apertamente, con una onesta operazione verità rispetto alla pubblica opinione – che di questi abbiamo bisogno, invece di continuare a ripetere il ritornello per cui i richiedenti asilo “quelli veri”, sì, dobbiamo farli entrare, e i migranti economici no: che è quanto si va invece ripetendo anche a proposito dell’accordo con l’Albania.
I migranti in Albania, prova di una sconfitta, in “La Stampa”, 10 novembre 2023, pp.1-29
Fine vita: discuterne seriamente, non con slogan
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaÈ triste che le discussioni sul fine vita ricadano nella consueta logica binaria (giusto/ingiusto, buono/cattivo, vero/falso, e nel caso di specie vita/morte) che portano a schierarsi prima ancora di cercare di capire. Perché il problema è innanzitutto quello di definire il problema. Non si tratta di abbreviare la vita o anticipare la morte: ma precisamente di definire che cosa è vita e che cosa è morte. Per questo dovremmo rifiutare con fastidio e persino con indignazione e scandalo chi si autopropone come pro vita, come se altri fossero pro morte. Se siamo adulti ragionevoli, almeno (purtroppo, ascoltando taluni politici e opinionisti, è lecito dubitare che lo siano: probabilmente è anche questo uno dei casi in cui il senso comune è più avanti di chi pretende di rappresentarlo).
Proviamo ad approssimarci alla definizione del problema. L’aspettativa di vita di ciascuno di noi si è allungata enormemente, e in un secolo è praticamente raddoppiata. Il problema è che l’allungamento degli anni in buona salute non è proporzionale all’allungamento della vita, e anzi la sproporzione cresce continuamente. Forme di malattia, di decadimento e di sofferenza una volta rare e inusuali sono oggi esperienza diffusa, quasi di massa. Il che significa che la parte finale della vita (spesso anni, talvolta decenni) diventa per molti sempre più difficile, dolorosa, onerosa, in qualche caso insostenibile: più un’agonia (che in greco significa lotta, faticosa e dall’esito incerto per definizione), che un sereno andarsene. La medicina (più correttamente: la tecnologia e la chimica applicate massicciamente al bios) ormai può tenere in vita indefinitamente un corpo: ma, appunto, è vita?
Come rispondeva il cattolicissimo filosofo Giovanni Reale ai cattolici troppo facilmente e facilonamente schierati imbracciando le loro certezze pro vita come armi, se un corpo è tenuto in vita da una macchina, e in grado di vivere solo grazie ad essa, sostenere questa scelta è una sacralizzazione della tecnica, non della vita. E, aggiungiamo noi, sancisce l’estensione del dominio della malattia, che ha la stessa radice etimologica del male e del maligno, sulla vita. Non a caso le cose sono più complicate di così, e gli schieramenti non sono affatto cattolici (o religiosi) contro laici: già ai tempi del caso Englaro l’opinione pubblica interna ai vari gruppi si suddivideva pressappoco a metà.
C’è in gioco una questione fondamentale di dignità della vita e di libertà di scelta, e dunque di chi ha il diritto di decidere e di disporre del proprio corpo, e di quello di chi non è (più) in grado di decidere per sé stesso. C’è una doverosa questione da porsi sulla naturalità o artificialità (o artificiosità) delle nostre scelte: così come c’è un ritorno al cibo e pure al parto naturale, non si vede perché non dovremmo avanzare una riflessione anche sulla morte naturale; evento escluso ormai dal nostro orizzonte domestico e ancor più medico-ospedaliero (per il quale la morte deve avere per forza una causa, come se non appartenesse alla natura l’idea che la vita ha anche una fine), ma che pure allude a una dimensione profonda, che dovrebbe farci riflettere anche sul riportare la morte a casa, in un orizzonte familiare, anziché ospedalizzarla per forza, anche quando non è né utile né necessario. Ma è giusto pure parlare di costi, economici e morali (e bisogna che qualcuno si assuma il coraggio civile di dirlo): ormai, per ciascuno di noi, il grosso della spesa sanitaria è speso negli ultimi anni, per tirarla in lungo, per così dire, talvolta fino all’estenuazione, non per vivere bene, o per migliorare la vita di chi – bambino, giovane, adulto – avrebbe il diritto di viverla meglio. E forse anche su questo dovremmo aprire una discussione: è davvero etico spendere sempre di più, talvolta indebitando famiglie o costringendole a scegliere tra le spese per i figli e quelle per i genitori, per allungare una vita, o talvolta un suo simulacro, di qualche settimana, mese o anno? Certo, quando non si può più guarire si può ancora curare, prendersi cura. Ma questo non vuol dire allungare indefinitamente agonie spesso protratte per volontà dei parenti di non lasciar andare i propri cari che per desiderio di questi ultimi: semmai accompagnare la vita che è rimasta dandole un senso, più che una durata maggiore – dare vita al tempo (rimasto), non tempo a una vita che forse non è più tale.
Fine vita, il binario sbagliato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 novembre 2023, editoriale, p.1
Il nostro lato oscuro. Piccoli pregiudizi quotidiani
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles /da AugustaNon ci piace ammetterlo. Ne parliamo di rado. Eppure è intorno a noi. È ‘dentro’ di noi. Il nostro lato oscuro. La parte brutta che guida – più spesso di quanto ci piace ammettere – i nostri comportamenti. L’arresto dei ragazzi del rodigino che si cimentavano nel ruolo di bombaroli in saòr, dando la caccia agli immigrati, tanto per passare il tempo, per divertirsi, per avere un topolino con cui giocare, come un gruppo di gatti randagi e nullafacenti, rivela più di quello che racconta.
Se usassimo il criterio che sentiamo usare spesso nelle chiacchiere da bar, ripetute in molti talk show della tv nazionale e locale, e in certa stampa, dovremmo sparare ad alzo zero contro la xenofobia di massa, il razzismo diffuso e quotidiano. A proposito di immigrati lo si fa sistematicamente, con una serie di sillogismi generalizzati che sono diventati un’abitudine del pensiero. Un immigrato che delinque diventa “gli immigrati sono tutti delinquenti”. Un gruppo di teppisti di seconda generazione diventa “le baby gang che controllano il territorio”. Un musulmano che fa un discorso anti-occidentale diventa “i musulmani sono terroristi” perché “l’islam è intrinsecamente violento”. Ecco, se usassimo lo stesso modo di ragionare dovremmo dire che tutti i rodigini odiano i marocchini, i vicentini sono razzisti perché non affittano le case agli stranieri, e in regione c’è l’apartheid perché le leggi “prima i veneti” non consentono ai residenti da un certo numero di anni di partecipare ai bandi. Evitiamo, naturalmente, questo approccio, che non condividiamo per niente. Ma non possiamo non constatare che l’altro, quello opposto, quello in cui gli immigrati sono il target di generalizzazioni indebite, è diffuso, accettato, e spesso verbalmente o silenziosamente condiviso.
È per questo che ci è utile guardarci dentro, lasciarci interrogare dalle nostre stesse pulsioni. Perché, sì, effettivamente un gruppo di ragazzi rodigini si divertiva ad avercela con gli immigrati come categoria generica, non come persone specifiche, e piazzava bombe casalinghe che avrebbero potuto avere effetti assai peggiori. Perché, sì, effettivamente per un immigrato è quasi impossibile trovare una casa in affitto, anche se si tratta di una famiglia con due stipendi in regola e persino la cittadinanza italiana, perché prevale una percezione negativa del cognome e del colore della pella (ed è bello tuttavia raccontarla tutta, la storia – vera – perché è finita benissimo: quando il caso è diventato pubblico, una famiglia, anch’essa veneta, che ha voluto rimanere anonima, ha comprato un appartamento per metterlo a disposizione della famiglia in questione, affittandoglielo – un altro esempio che ci mostra come le generalizzazioni siano tutte indebite). Perché, sì, quando ai mondiali di calcio il Marocco ha fatto la sua travolgente cavalcata sportiva, e il timore era tutto su quanto avrebbero fatto i tifosi marocchini durante i festeggiamenti, le uniche notizie di rilievo, in Veneto, sono arrivate da Verona, dove sono stati organizzati, da un’ultradestra ben conosciuta, assalti contro i tifosi marocchini suddetti. Ma perché, soprattutto, c’è anche una vena di sottile xenofobia istituzionale, che ha fatto sì che le leggi “prima i veneti”, ma anche quelle contro le moschee, o altri piccoli trucchetti amministrativi a livello regionale o comunale per rendere difficile agli immigrati anche solo l’accesso ai buoni libro (presentando documenti che agli autoctoni non sono richiesti), fossero approvate nel consenso generale, e come strumento per acquisire consenso ulteriore – segno che questo tipo di sensibilità, che separa anziché unire, è percepita come condivisa, e funzionale.
Ecco, interrogarci anche su questo, forse non ci fa male. E può aiutarci a comprendere pagliuzze e travi rispettive, pregiudizi reciproci in azione, comportamenti sbagliati che non sono di categorie generalizzate (che siano gli stranieri o i veneti), ma di alcuni solamente, e solo qualche volta. Ciò che ci può permettere di ripensarci, e rimediare ai nostri stessi errori, favorendo una convivenza civile reale e diffusa, basata sul rispetto, capace di distinguere tra i comportamenti di alcuni e le intenzioni di tutti gli altri.
Il nostro lato oscuro, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 ottobre 2023, editoriale, p.1