Il dolore e la presa di coscienza. Di fronte alla morte di Giulia Cecchettin.

Se la misura di un evento è la sua capacità di farci riflettere, l’assassinio di Giulia Cecchettin, la commozione, la riflessione e la mobilitazione che ne sono seguite, e infine la partecipazione corale e sentita ai funerali, hanno indubbiamente avuto un effetto trasformativo.

Certo, la violenza contro le donne e i femminicidi – nonché le culture su cui si fondano e gli squilibri di potere da cui originano – hanno una lunga storia, che purtroppo non finirà ora: ce ne saranno ancora. Ma nella storia sociale e civile, e qualche volta politica, di popoli e nazioni, ogni tanto capitano eventi spartiacque, che costringono tutti a una riflessione e a un esame di coscienza: la morte di Giulia, possiamo dirlo fin da adesso, è stato uno di questi eventi. E nel fatto che lo sia stato ha avuto un ruolo la consapevolezza forte della famiglia, del padre Gino e della sorella Elena, la loro capacità di farla diventare storia pubblica, interrogazione collettiva: grazie a loro questa morte non è stata e non sarà stata invano.

A fronte della grandezza di tutto questo, molte critiche e banalità sentite in questi giorni – su un presunto pensiero unico, sulla (ovvia) inaccettabilità delle generalizzazioni, sul fatto che la violenza in fondo c’è dappertutto e anche da parte delle donne, sulla derubricazione di quanto avvenuto a mero fatto individuale, a peculiarità solo psicologica (che ovviamente c’è) e individuale, sull’inesistenza di quello che si può chiamare patriarcato o in altro modo ma certamente è ben presente nelle nostre società, ecc. – sono totalmente irricevibili, e spesso dettate da semplice desiderio di visibilità, se non da puro gusto polemico, condito da infantilismo del pensiero.

Invece di ragionare in astratto, provo a raccontare quello che ho visto in università: l’università che Giulia (e anche il suo assassino, colui che ha così terribilmente tradito la sua fiducia) aveva frequentato e in cui avrebbe dovuto laurearsi pochi giorni dopo. Il lunedì dopo il fatto molti di noi docenti – maschi e femmine indifferentemente – avevano la voce spezzata, e facevano fatica a fare lezione: e, senza mettersi d’accordo, moltissimi l’hanno fatta su questo, parlandone con ragazze e ragazzi che non aspettavano altro, e avevano voglia e bisogno di dire la loro. La reazione, la partecipazione e la mobilitazione attiva di studentesse e anche studenti è stata spontanea, immediata, corale, sentita, emozionale, spesso legittimamente arrabbiata, per niente ideologica, tutt’altro che moralistica e politicamente schierata. Profonda, seria, autentica e matura, mi viene da dire, nonostante il forte coinvolgimento emotivo, e forse grazie ad esso. E il giorno dei funerali mi ha colpito non tanto la presenza delle ragazze (più scontata, da un certo punto di vista, anche se qualitativamente diversa da quella vista in altre situazioni, più rivendicative e di lotta, come le manifestazioni – più alta, direi), o quella di gruppi misti di ragazze e ragazzi, ma quella di giovani coppie abbracciate che credo non dimenticheranno di esserci state (anche e soprattutto quando litigheranno per questioni legate alle inerzie culturali implicite nei ruoli di genere), e ancora di più i gruppi di ragazzi arrivati insieme, e i tanti studenti, giovani adulti, uomini soli, venuti a testimoniare silenziosamente di fronte a se stessi una presenza sentita come dovuta: di fatto, a fare esame di coscienza, come individui e come collettività maschile, che deve prendersi carico del proprio ruolo e della propria responsabilità, piangendo il dolore, la sofferenza, la violenza subita ordinariamente dall’altra metà del mondo, le loro sorelle, amiche, madri, figlie, compagne, colleghe, partner.

Chi sottovaluta quanto avvenuto, o chi lo svaluta, derubricandolo a reazione di pochi, irridendola come emotiva, una cosa che passa e non lascerà tracce e conseguenze significative, dimentica che le emozioni sono ciò che ci fa letteralmente – come da etimologia – e-movere, cioè agire. E la com-mozione, il piangere insieme il dolore altrui, ne è una delle forme più eminenti ed efficaci.

 

Il nostro pianto collettivo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 dicembre 2023, editoriale, p. 1