Perché è ragionevole il limite ai mandati
Luca Zaia gode di tassi di consenso stratosferici: di approvazione trasversale, di immarcescibile e persino crescente popolarità, in fasce assai diverse di popolazione, per età, livello di istruzione, genere, professione.
Non ne diamo un giudizio politico. Non è quello che ci interessa, in questa sede. Lo constatiamo, e basta. È un animale politico di rara abilità e longevità. E vorrà dire qualcosa se il suo consenso personale trascende la sua parte politica, e pesca abbondantemente anche in quella avversaria.
Ma è sufficiente, questo, a giustificare un altro mandato come governatore, e un altro ancora? Vale per lui, come per gli altri governatori, per i sindaci, per gli assessori, e per le altre cariche apicali della politica che prevedono il limite dei due mandati (che poi, nel caso specifico, si tratterebbe del quarto mandato, e non del terzo, visto che governa da prima che entrasse in vigore la norma sui due mandati: è presidente della regione ininterrottamente dal 2010, ed è stato suo vice-presidente dal 2005, se escludiamo una breve parentesi come ministro).
Chi sostiene l’abolizione del limite dei mandati ha un argomento forte: il consenso, la volontà popolare (se pure espressa da un numero sempre minore di elettori: oggi basta la metà più uno dei consensi di meno della metà degli elettori a vincere – e il trend di partecipazione continua a calare, cambiando di molto il significato dell’espressione “volontà popolare”, riducendola di fatto a un suo simulacro). E un altro ancora: perché solo loro? Perché non anche i parlamentari, o i consiglieri comunali, provinciali e regionali? L’obiezione ha senso: seppure chi governa ha un potere molto maggiore di chi si limita a rappresentare. E comunque varrebbe la pena ragionare sul fatto di introdurre il limite anche per gli altri, come alcuni partiti hanno fatto volontariamente. Si dice che così non si formano professionalità politiche adeguate: ma non abbiamo alcuna controprova che, se ci fosse stato maggiore ricambio, le cose sarebbero andate peggio. Mentre abbiamo molti indizi che, con i professionisti della politica, i signori delle tessere, le consorterie permanenti, le rendite di posizione, le ‘ditte’ di vario tipo, le cose siano comunque andate molto male.
Il fatto è che sapere di avere una scadenza, per quanto lontana, obbliga i partiti, e gli stessi leader, a far crescere un ceto politico di ricambio, fresco e innovatore, capace e professionale. Mentre in assenza di limiti le elite tendono ad autoperpetuarsi, e hanno tutto l’interesse non solo a non favorire, ma a ostacolare e impedire attivamente l’emergere di figure politiche concorrenti. Creando un danno enorme: almeno se crediamo che la concorrenza abbia un valore e la meritocrazia un senso, anche al di fuori del mercato e dell’economia.
Piaccia o non piaccia, un monarca, per quanto costituzionale, porta con sé i soliti noti, gli amici e i consiglieri fidati, le cordate e le clientele abituali, i garanti dell’ordine costituito: le proprie corti e i propri cortigiani. Mai figure, come si dice oggi, disruptive, innovative; quasi mai un cambiamento di visione; e mai processi che possano mettere in questioni gli obiettivi raggiunti, o esprimere un giudizio critico sul passato. E questo molto al di là della volontà dei singoli. Del resto, è quello che si è visto in regione anche dopo le ultime elezioni: le continuità, le inerzie (la forza più grande della storia, diceva Tolstoj) hanno prevalso nettamente sulle discontinuità – basta guardare alle nomine e agli assessori. Squadra che vince non si cambia, si dice: il problema è intendersi sul concetto di vittoria – alle elezioni o nella competizione globale? È un aspetto, non secondario, della legge ferrea delle oligarchie di cui parlava uno studioso italiano, Roberto Michels, già all’inizio del secolo scorso. Un leader, inoltre, può pure sembrare eterno e immortale (il potere dà questa illusione), ma invecchia anche lui. E come tutte le persone che invecchiano finisce per vivere più di abitudini che di cambiamenti, per essere più legato al passato, alla nostalgia del buon tempo andato (che peraltro non tornerà mai più: il Nordest è cambiato completamente, dai fasti del suo modello alle difficoltà attuali) che al futuro con i suoi rischi e le sue opportunità, su cui bisogna saper scommettere.
Tra chi punta sulla continuità – che forse è mero continuismo – c’è chi teme il vuoto di potere. Ma il vuoto di potere non esiste. Semmai esiste il potere del vuoto. Che è quello che la politica mostra aspirando a perpetuare sé stessa, anziché aprirsi a un nuovo modo di pensarsi e di pensare la società.
Il potere che cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2023, editoriale, p.1