Niente Natale dove è nato il Natale: Palestina senza pace

Se c’è un posto nel mondo dove sicuramente non sarà Natale, questo è dove è nato il suo protagonista: Betlemme, la Cisgiordania, la parte di Israele che noi chiamiamo Terra Santa, e la Palestina tutta (qualunque territorio questa espressione racchiuda), a cominciare da Gaza. Un fazzoletto di terra, insanguinato da decenni, che oggi conosce uno dei suoi momenti più alti di violenza e disumanizzazione. Tuttavia, se vogliamo evitare di indulgere in una facile retorica, affettatamente nobile ma di fatto vacua e non veramente partecipe, l’unica cosa decente e intelligente che possiamo fare noi, che il Natale lo passeremo al caldo, tra affetti e regali, è trarne qualche lezione.

La prima è che nessuno è al sicuro: nemmeno noi. La guerra è tornata vicino e dentro i confini dell’Europa, e con essa tornerà (è già tornata) la percezione di insicurezza, le proteste e i conflitti tra fazioni contrapposte, l’ossessione del terrorismo, tra ragionevoli timori e paranoie attentamente costruite.

È l’occasione, per noi, per fare pulizia: a cominciare dalla pulizia del linguaggio, sulla padronanza del quale, e sul modo di usarlo, abbiamo tutta la responsabilità del mondo. Possiamo legittimamente provare una sensazione di impotenza rispetto a scenari geopolitici tanto più grandi di noi. Ma non abbiamo il diritto di provarne quando ne parliamo, e ci ragioniamo sopra – che, già, sono due cose qualitativamente diverse.

Il primo invito allora è a ragionare prima di parlare. Che è un’attività che si fa da soli. Cercandosi fonti di informazione attendibili, e non avendo paura di esprimere opinioni dissonanti da quelle del mainstream mediatico e politico. Cercando di capire che possiamo e dobbiamo distinguere tra le responsabilità dei rispettivi carnefici, ma dobbiamo pure esprimere eguale solidarietà alle vittime innocenti, tutte. La logica da tifo calcistico con la quale spesso affrontiamo il conflitto israelo-palestinese, abbracciando superficialmente le ragioni dell’uno o dell’altro, schierandoci (“senza se e senza ma”, come spesso si chiosa: come se vivessimo e ragionassimo in questo modo in altri ambiti della vita individuale e sociale…), ma senza troppo pensare, è profondamente dissonante rispetto all’approfondimento critico cui siamo chiamati. Fare pulizia, togliere lo sporco da dentro di noi, dai nostri ragionamenti e dalle nostre parole, vuol dire innanzitutto questo: capire, ragionare, e solo poi prendere parte, che non è la stessa cosa che prendere partito – vuol dire innanzitutto entrare in empatia, cioè sentire il dolore (pàthos) altrui, non importa di chi si tratti. Così come sapere da che parte stare non vuol dire stare sempre e necessariamente dalla stessa parte: perché la ricerca della pace, di una soluzione al conflitto, che cerchi diminuire il costo che pagano gli innocenti, vuol dire saper leggere la realtà con gli occhi dell’altro, e cercare un compromesso accettabile, costruirlo pazientemente – con i se e con i ma. Sporcandosi le mani con la fatica delle scelte e delle inevitabili incomprensioni, non tenendole pulite in un’illusione di purezza identitaria, tipica di chi si sente dalla parte giusta. Denunciando quindi, in primo luogo, gli errori e le nefandezze di quelli che sosteniamo, invece di minimizzarle e nasconderle: che è quello che fa la propaganda (bellica per definizione) – che è l’inizio della fine della ricerca della verità, anzi è il suo opposto, il vero sporco che dovremmo ostinatamente cercare di togliere dagli interstizi del nostro ragionare e del nostro agire.

Il passo successivo è naturalmente quello della solidarietà: tanto più vera se la sentiamo, prima ancora di praticarla. Se piangiamo il dolore altrui, anziché usare selettivamente le vittime (rigorosamente solo quelle della parte che sosteniamo) per colpire e accusare la parte avversa. Le vittime meritano di essere aiutate, non strumentalizzate. E quindi è giusto anche valutarne il numero (contano, per noi, anche nella misura in cui le contiamo), e con esso misurare l’immensità della tragedia che si sta consumando, capire chi la subisce in maniera maggiore, chi sta pagando il prezzo più alto.

Gandhi diceva che “il fine sta nei mezzi come l’albero nel seme”. Che non ci sono cause giuste da sostenere se il modo con cui le sosteniamo è quello sbagliato, o è viziato all’origine da una lettura parziale della situazione. Anche perché, temo, le letture acritiche, partigiane, de-umanizzanti, di sostegno a sola una delle parti in causa, ci rimbalzeranno addosso in futuro. Anche in chiave geopolitica. E non potremo dire allora di non avere responsabilità in proposito. La responsabilità delle parole e delle azioni di oggi.

Lettere dalla guerra: Betlemme senza Natale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, p. 1