Chi è contro l’integrazione? Moschee e politica: il caso Monfalcone

La chiusura delle moschee di Monfalcone mostra quante contraddizioni e strumentalizzazioni circondino l’integrazione degli immigrati, e quanto spesso l’ostacolo ad essa siano gli autoctoni, e non i diretti interessati.

Il fatto. La sindaca Cisint, pochi giorni prima di Natale, ha chiuso due centri culturali islamici e interdetto il parcheggio a un terzo. Ottomila musulmani hanno civilmente manifestato contro la chiusura, dietro lo striscione “Siamo tutti monfalconesi. No alle divisioni”, sventolando bandiere italiane e europee; e lei ha indetto uno scambio di auguri in un’altra piazza (con presenze comparativamente modeste: ma bastano i media a fare da eco), accusandoli di provocazione e di guerra di religione, evocando un inesistente attacco al Natale, sostenuta dal ministro Salvini e dal presidente della regione Fedriga.

Qual è il problema vero? Che a Monfalcone, 28mila abitanti, vivono 8mila stranieri, quasi il 30%, la metà dei quali provenienti dal Bangladesh, musulmani. E perché ci sono così tanti musulmani a Monfalcone? Perché lì vivono e lavorano, in buona parte a Fincantieri e nell’indotto della cantieristica. Non dovrebbe stupire che abbiano desiderio – e diritto – a un luogo di culto: anche gli italiani emigrati la prima cosa che costruivano, dopo la propria casa, era la chiesa. Ma invece di aiutarli a costruirsi una moschea dignitosa, si dichiara guerra ai loro luoghi di culto.

Certo, capiamo che è difficile governare questa complessità: peraltro, con un numero di immigrati aumentato fortemente proprio durante il primo mandato della sindaca, a testimonianza del fatto che non basta dire di non volere gli immigrati per vederli sparire. E allora perché chiudere le moschee? Con un argomento usato spesso: cambio di destinazione d’uso, sovraffollamento e sicurezza, e quindi inagibilità. Immaginiamo si usi la stessa solerzia per tutti gli altri cambi di destinazione d’uso, si siano chiuse per eccessivo affollamento le chiese durante le messe di Natale, e si controlli capillarmente sicurezza e norme antincendio di tutte le imprese (a cominciare da Fincantieri), i negozi, le scuole, le polisportive, i circoli culturali e gli oratori della città, per evitare sospetti di attenzione selettiva. Ma anche fosse: come potrebbero le moschee essere costruite alla luce del sole, visto che mai otterrebbero i permessi relativi? Altre regioni, come Veneto e Lombardia, hanno addirittura approvato leggi per impedirle…

Ecco, il problema è qui, ed è culturale, e di scontro tra l’ideologia e il principio di realtà. L’ideologia vorrebbe una Monfalcone ‘pura’ etnicamente (ma che vuol dire in una città in cui i meridionali son venuti a lavorare nei cantieri fin dalla loro apertura, cent’anni fa?). La realtà si scontra con un fabbisogno di manodopera che certo andrebbe gestito meglio, vincolando Fincantieri e le altre imprese a regole e contratti più cogenti (e questo si dovrebbe fare, infatti, non prendersela con l’ultimo anello della catena, il più debole), ma senza la quale la città sarebbe assai più povera, e in drammatico calo demografico: mentre così rischia di trovarsi in vantaggio competitivo rispetto ad altre realtà della regione. E invece no: si tolgono le panchine dalla piazza perché le usano gli immigrati, si pratica un tetto massimo di stranieri nelle scuole, e financo si toglie il cricket dalla festa dello sport monfalconese solo perché praticato dai bengalesi – mettendo i residenti gli uni contro gli altri. Sarà vantaggioso elettoralmente (la sindaca ha ottenuto il secondo mandato con una maggioranza del 72%, anche se i suoi voti sono stati 7500, meno dei manifestanti dell’altro giorno), ma è miope, perché si produce il contrario di quello che si dice di volere, senza metterne le basi: maggiore integrazione, che poi vuol dire maggiore sicurezza e benessere per tutti.

Cosa succederà, andando avanti così? Inevitabilmente, che una parte della città governerà contro l’altra, anziché con. Facile, anche perché l’altra parte, per ora, non ha per lo più la cittadinanza, e non vota. Ma tale scelta rischia di configurarsi come un blando e non dichiarato apartheid, in cui persone diverse per etnia e religione hanno diritti diversi, le cui conseguenze si pagheranno in futuro.

Ricordiamo, en passant, il precedente di Verona. Il sindaco allora leghista Tosi, al primo mandato, aveva un programma fortemente anti-islamico. Ha chiuso la moschea, come promesso: i musulmani hanno fatto ricorso al TAR e l’hanno vinto. L’ha richiusa, hanno rifatto ricorso, e l’hanno rivinto. È finita che nel secondo mandato sindaco e imam si facevano i selfie insieme, e oggi nessuno sano di mente, a Verona, rimetterebbe in questione il diritto costituzionale dei musulmani a riunirsi nel proprio luogo di culto. Magari pensarci prima?

 

Cantieri e moschee chiuse, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 dicembre 2023, editoriale, p. 1-2