Sociologia della lettura

Si può ancora leggere nel mondo moderno? La domanda si coniuga direttamente con un’altra e più intrigante questione: si può ancora leggere il mondo moderno? Ed è la lettura il modo più appropriato di farlo? Il più efficace?

Il primo dato che possiamo produrre è esperienziale. Per la mia generazione, quelli di mezzo secolo o più, la lettura è stata un dato di scoperta del mondo, e di apertura al mondo, sostanzialmente indispensabile. Certo, siamo stati anche la generazione che ha scoperto altre dimensioni e stati d’animo: il viaggio; la fuga dai ruoli dati; la scoperta di altre realtà attraverso l’uso di droghe di cui allora si conoscevano più le potenzialità dei pericoli, l’effetto di apertura a nuovi mondi potenziali che non quello di distruzione di quello reale; la creazione di nuovi mondi – o il tentativo o l’illusione di farlo – attraverso le relazioni costruite nell’impegno politico e sociale. Ma poi, alla fine, era la lettura che sostanziava anche queste esperienze, che ne costituiva, in tutti i casi, il riferimento alto, la giustificazione, la possibilità di scambiarle con altri, il tramite simbolico stesso, in molti casi.

Per spiegare l’intreccio complesso che costituisce il rapporto tra esperienza e lettura, tra realtà reale e realtà presente nelle pagine di un libro, prendo a presto un’immagine di Alessandro Baricco. Che in un suo splendido programma televisivo divulgativo sulla lettura (già questo un intreccio complesso) di qualche anno fa, che si chiamava Pickwick, iniziava le trasmissioni descrivendo l’immagine di un uomo: che, salito sul treno, guarda dal finestrino, contempla il panorama che si svolge sotto i propri occhi; poi, apre un libro, si immerge nella sua lettura, in un altro panorama, aprendo una diversa finestra sul mondo.

Il libro, la lettura, sono stati spesso questo, per me e per molti, e lo sono ancora. Me è ancora necessariamente così? E’ ancora questa la forma di lettura del mondo, di suo approfondimento, di sua contemplazione, privilegiata o da privilegiare? Osservando laicamente le modificazioni del conoscere oggi c’è da porsi più di un dubbio.

Proviamo a farlo a partire da un secondo dato esperienziale. Quello di chi oggi ha meno di vent’anni (o, ancora più giovani: i miei due figli, per esempio, di 15 e 12 anni): quelli che chiamano i nativi digitali; mentre noi, immigrati digitali, dell’immigrato in questo mondo manterremo sempre il senso di spaesamento e di incertezza. Per loro la lettura è competenza accessoria, ma non nella sua essenza, solo nella sua modalità tradizionale. La modalità standard per accedere ad altri mondi non è aprire un libro, è accendere il computer, e collegarsi ai social network. Ma da qui si è poi costretti a leggere (le riflessioni altrui, i loro messaggini, i link a cui ci rimandano), ma anche vedere e sentire (magari via you tube), attraverso un’esperienza sensorialmente più avvincente, coinvolgente e convincente. Ma, da lì, volendo – e qualche volta capita – il rinvio è a un libro, o a un suo pezzo, o a una sua citazione. Spesso, sempre più spesso, per frammenti, per letture trasversali, attraverso i meccanismi dell’ipertesto e quelli dei link, che ne sono una diversa modalità attuativa, più personalizzata – e, certo, più problematica, persino più dubbia non solo, come ovvio, nella sua coerenza, ma anche nella sua correttezza. Il frammento è infatti molto più facilmente manipolabile e falsificabile di un testo lungo e complesso. Detto questo, leggono anche libri, anche se meno di quelli che leggevo io alla loro età, in cui non avevo tutti questi altri media a disposizione, altrettanti accessi al mondo, finestre su di esso.

Questo meccanismo ha a che fare con un altro problema: la presentificazione degli orizzonti, lo schiacciamento sul presente. Che sappiamo essere una tendenza forte da vari indicatori (che citiamo in maniera random, senza tentativi di classificarne l’importanza e il peso): la sempre più scarsa capacità di contestualizzare i fenomeni e di coglierne le radici, e quindi la difficoltà dello stesso pensare storicamente (anche quando ci si interroga sul futuro); le modalità affettive e relazionali, che sempre più difficilmente si inscrivono all’interno di una storia coerente (non a caso le relazioni durano meno); un’accresciuta mobilità spaziale e non, che rende più problematico lo stesso collocarsi all’interno di una storia (quale? di chi? di dove?); la diminuita propensione al risparmio, che è un indicatore certo di minor investimento sul futuro; e molti altri. Come conseguenza di tutto ciò nella mia professione di docente universitario sono giunto, dagli esiti delle discussioni d’esame, alla conclusione che, grosso modo, per una parte significativa dei miei studenti (e di tutti i giovani) la storia sempre più si divide in due: la preistoria, che è, in maniera indifferenziata e quindi difficilmente collocabile – come una fotografia scattata con lo zoom, in cui tutto è schiacciato alla stessa altezza, e si perde in profondità e differenziazione – tutto quanto accaduto prima della propria nascita; e la storia, o meglio la mia storia, la storia personale di ciascuno, che è ciò di cui posso grosso modo dare contezza e avere verifica perché basato sull’esperienza personale. Il passato è ininteressante e poco esplicativo delle ragioni del mio essere (e spesso è proprio così: la sensazione che tutto sia cambiato molto e molto in fretta, e quindi non c’è più trasmissione – nemmeno dell’esperienza e del sapere – ma solo innovazione, è figlia di questa precomprensione, che ha molte ragioni di capirsi in questo modo). Il presente è l’elemento di maggiore coinvolgimento per ovvi e ottimi motivi, ma anche perché ci si immagina solo in esso di poter conquistare gratificazione personale. Il futuro, sempre più spesso, è qualcosa di lontano, precario, inesorabile ma poco comprensibile e prevedibile, e vagamente minaccioso. Non certo qualcosa su cui una persona sana di mente investirebbe davvero volentieri qualcosa: lo si fa perché si deve, nel caso, non perché davvero lo si vuole.

In tutto questo, le forme digitali di accesso al mondo della conoscenza hanno questo in comune almeno con una forma di lettura, quella letteraria: il recupero della dimensione narrativa della vita , la scoperta del bisogno di raccontare e raccontarsi e il tentativo di farlo – più o meno riuscito, ma questo importa meno. E la dimensione frammentaria di questa conoscenza ha molto in comune con le nostre vite: all’interno delle quali cerchiamo il filo rosso della coerenza, ma sempre ex-post, e a dispetto delle piroette più sconcertanti: ci raccontiamo una continuità e un senso che spesso non c’è, ma perché, come diceva Flaiano, “facciamo finta di tutto”, non perché ci sia davvero, o necessariamente. Ancora: questa dimensione ha moltissimo a che fare con una forma di comprensione del mondo molto moderna, quella degli aforismi. Che, come diceva Karl Kraus con un altro brillante aforisma, “non è mai la verità: o è mezza verità, o è una verità e mezza”. Così è la vita, così è il racconto.

La lettura, nella forma saggistica del discorso scientifico e della speculazione filosofica, ci ha portati mostruosamente avanti in un percorso di progressivo disincarnamento, di astrazione pura. E di innaturale e inumano primato del pensare sull’essere. Quello che Cartesio riassumeva nel “Cogito, ergo sum”. Una balla che ci siamo ripetuti per secoli, che l’occidente ha portato alle estreme conseguenze e all’estrema spersonalizzazione, ma che oggi scopriamo con orrore essere sempre più un’oscena finzione dalle conseguenze devastanti. Semmai, come ha corretto chi è portatore di maggiori competenze psicologiche e sociologiche, “sumus ergo sum”. Siamo innanzitutto e soprattutto perché siamo il prodotto di relazioni, e di relazioni che si narrano, e narrandosi si lasciano incontrare. Se è ancora vero che “il medium è il messaggio”, è indubbio che nonostante la dimensione di menzogna che incorporano, e a cui lasciano spazio (a cominciare dalla menzogna dell’identità, attraverso il nickname e le false generalità), i media digitali incorporano un messaggio relazionale e narrativo. E questo non è male. Del resto, quanto a menzogna, anche il libro non ne è meno portatore. Certo, nei media digitali e nei social networks si impoverirà il linguaggio, ma ci si apre maggiormente all’esperienza e all’interazione. Che diventa, per l’appunto, un diverso modo di leggere il mondo.

Ci si può lavorare sopra, oltre tutto, sull’interazione tra la lettura e l’esperienza. In un corso di ‘Globalizzazione e pluralismo culturale’ che tengo da qualche anno all’interno di una laurea specialistica, a miei studenti faccio leggere dei libri, che discutiamo in aula. Ma loro non li devono riassumere: li devono incarnare, rappresentandoli, rappresentandone in prima persona gli autori, e intervenendo nel dibattito in quanto incarnazione delle tesi contenute nei libri, non in quanto portatori del loro contenuto. Non sarà una rivoluzione: ma alla fine del corso ciascuno ha letto solo due libri (uno che incarna, l’altro di cui incarna un potenziale discussant), ma tutti hanno non solo sentito ma ‘visto’ dibattere tra loro una trentina di libri importanti che rappresentano alcune delle punte più avanzate di riflessione sul tema. Se li avessero letti tutti, probabilmente ne saprebbero di meno.

Così è per i media, in ogni caso. Come noto, l’invenzione di ogni nuovo medium e di ogni nuova tecnica conoscitiva, che per gli apocalittici è sempre stato il preludio alla scomparsa delle precedenti, nella maggior parte dei casi ha portato alla loro somma e quindi a un pluralismo sempre maggiore dei media, non alla loro sostituzione per ondate successive. Il giornale non ha ucciso il libro, la radio non ha ucciso il giornale, la televisione non ha ucciso la radio, il computer non ha sostituito nessuno dei precedenti, cominciando semmai progressivamente a incorporarli, mantenendone tuttavia e in un certo senso rendendone visibile ed esperibile la pluralità e la diversità. Sì, certo, il long playing non esiste quasi più, sostituito dal compact disc. E questo a sua volta sta per essere del tutto sostituito dall’mp3. E poi altro arriverà. Ma questi sono meri cambiamenti tecnici, come l’aver trovato il modo di attaccare un motore a un carro e trasformarlo in automobile (car come char, eredità di cui ci resta il carro attrezzi, il paracarro, ecc.): mentre la pluralità di esperienze è salvaguardata. Inclusa quella, volendo, di guidare un carro trainato da cavalli e di ascoltare un lp.

L’ultima invenzione è quella che ci consente di leggere i libri in formato elettronico, ma in maniera portatile, proprio come un libro: Kindle, collegata ad Amazon, e l’Ipad. Ci sono arrivato da poco. E certo è esperienza diversa, non tattile, con l’oggetto libro. Ma se rinuncio a qualche romanticismo, comunque con un Kindle del costo di 100 euro, che oggi con un ingombro minimo è in grado di stoccare 2500 libri, scopro che con 4-500 euro sarei in grado di contenere in pochi decimetri quadri la mia intera biblioteca, risparmiando un locale delle dimensioni di un fienile e i costi di librerie e rafforzamento dei tramezzi. E comunque non ne butterò via uno, dei miei vecchi libri, e continuo a comprare anche cartaceo. Ma oltre tutto so che ogni mia sottolineatura elettronica, a differenza della amata e indispensabile matita, è in grado di registrare e mantenere in memoria tutte le mie sottolineature e i miei commenti. Questo non fa di me un sapiente, se questo sapere non è memorizzato e introiettato, e per così dire ruminato a lungo dentro di me. Ma un utilizzatore più leggero e felice, e sicuramente più comodo, forse sì. Non è farsi prendere da entusiasmo ingenuo per la tecnologia, e nemmeno fare pubblicità subliminale, volerlo sottolineare: sottolineando anche gli elementi di diffusione e di democraticizzazione del sapere che queste tecnologie incorporano. Oltre tutto, sostituendo con status symbol da poco prezzo quello status symbol da ricchi che sono spesso le grandi biblioteche private, che l’invitato vedendole fa “oh” per lo stupore. E oltre tutto non sempre letti: ricordo ancora con umorismo la visita alla casa di un arricchito amico di famiglia, appena sistemata dall’architetto, con intere collane Einaudi ancora incellophanate nelle librerie intonse…

Il discorso sulle librerie mi richiama a un gusto tipico del lettore colto di libri: quello della citazione. Che oggi con i nuovi media si rinnova con un quid di snobismo in meno. La citazione che mi sovviene è la seguente, di Marguerite Yourcenar: “Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri”. Oggi contano ancora, ma ci sono anche altri luoghi natii fuori da sé, dati da altri media. Che possono aiutarci, anch’essi, a uscire fuori dai particolarismi, dai nazionalismi chiusi, dai localismi claustrofobici. Perché questo dovrebbe fare la conoscenza. E così dovrebbe essere per le persone, con esse, attraverso di esse. E questo probabilmente dovrebbe essere l’università. Un luogo dove si fanno esperienze e si costruiscono relazioni tra persone, tra pensieri, tra cose, e tra le une e le altre e le altre ancora: non solo, in maniera disincarnata, tra concetti. Perché questo significa sentire le cose intensamente, profondamente. Conoscere vuol dire avere un contatto immediato, diretto. L’università, il luogo dove si formano i processi di conoscenza più ancora che dove si trasmettono le conoscenze (che spesso nascono al di fuori di esse) dovrebbe essere un luogo così: un universo di contatti, stimoli, di relazioni im-mediate, cioè non mediate. Che aiuti a farsi le giuste domande. Perché, come ricordava Canetti, “l’ignoranza non deve impoverirsi con il sapere”, e quindi bisognerebbe essere capaci, per ogni risposta, di farsi almeno due nuove domande. Come in una nota storiella ebraica: un gentile domanda a un ebreo perché gli ebrei hanno l’abitudine di rispondere a una domanda sempre con un’altra domanda; e l’ebreo risponde: “e perché no?”. La conoscenza è il luogo delle domande e delle risposte che aprono a nuove domande. E questo nei rapporti tra i compagni così come con i libri o con i docenti e con chiunque ci sia o ci possa essere di riferimento, magari anche di guida.

Bisogna assaggiare il mondo, non solo leggerlo. Sapere deriva da sàpere: che ha sapore. Il sapere vero dunque non si legge e non si studia: lo si incontra, lo si tocca con mano, ci si discute insieme, ci si nutre di esso, ce ne si innamora, magari. Si provano, con esso, e-mozioni: che fanno muovere, appunto – uscire da sé e dal proprio mondo per entrare in un mondo più grande e più intenso.

Non vogliamo, con queste note sparse – frammenti, ancora una volta – convincere nessuno. “Accontentiamoci di far riflettere, senza tentare di convincere” (Georges Braque). Invitiamo semplicemente a non compiangere precocemente la scomparsa del leggere come noi l’abbiamo conosciuto. Ci sono altri modi di leggere il libro del mondo. Che possono aiutarci, oltre tutto, a leggere meglio i libri sul mondo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Sociologia della lettura, in “Servitium”, n. 193, gennaio-febbraio 2011, pp.47-53

Post scriptum. Per scrivere questo articolo non ho consultato, letto o riletto alcun libro. Ho ragionato, mi sono basato sulla mia memoria e le mie considerazioni. Ma ho consultato internet, via Google. Non per bisogno, ma per curiosità, per vedere se trovavo stimoli interessanti. Non ne ho trovati. Ma ho letto qualcosa in rete: poco, e in maniera frammentaria, trasversale, veloce. In ogni caso, adesso ne so di più.

Multiculturalism in Italy: The missing model

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Allievi S. (2010), Multiculturalism in Italy: The missing model, in A. Silj (a cura di), “European Multiculturalism Revisited”, London-New York, Zed Books, pp. 147-180
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Producing Islamic Knowledge. Transmission and dissemination in Western Europe

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Van Bruinessen M. e Allievi S. (a cura di) (2010), Producing Islamic Knowledge. Transmission and dissemination in Western Europe, London-New York, pp.196
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Immigration and Cultural Pluralism in Italy: Multiculturalism as a Missing Model

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Allievi S. (2010), Immigration and Cultural Pluralism in Italy: Multiculturalism as a Missing Model, in “Italian Culture”, vol. XXVIII, n. 2, September 2010, pp. 85-103 (19) E SR

I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva

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Allievi S. e Maréchal B. (2010), I Fratelli Musulmani in Europa. L’influenza e il peso di una minoranza attiva, in M. Campanini e K. Merzran (a cura di), “I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo”, Torino, Utet, pp. 197-240
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Moschee in Europa. Conflitti e polemiche, tra fiction e realtà

I conflitti intorno alla costruzione di moschee e alla visibilità di sale di preghiera, in Europa, sono una caratteristica significativa e un dato reale del dibattito intorno all’islam di questi ultimi anni, come ha ben dimostrato il referendum contro i minareti svoltosi in Svizzera nel novembre 2009, passato con il 57,5% dei voti favorevoli a bandirli, in ben 22 cantoni su 26.

E’ probabile che in altre aree d’Europa, e certamente in diverse regioni d’Italia, referendum analoghi produrrebbero analoghi risultati. Il problema relativo ad essi è che, a termini di Costituzione di molti paesi, Svizzera inclusa, quesiti del genere non dovrebbero nemmeno essere ammessi al voto, per palese illegittimità. Il problema di fondo è infatti che con essi si produce un vulnus gravissimo ai fondamenti giuridici e alle basi della convivenza sociale così come sono stati progressivamente concepiti e costruiti in Occidente. Dove il principio di riferimento di fondo è, puramente e semplicemente, che le maggioranze non hanno il diritto di decidere sui diritti delle minoranze. Punto.

Detto questo il referendum elvetico, sul piano sociale, ha fatto emergere anche un significativo e paradossale elemento che potremmo chiamare di fiction. Pochi hanno notato infatti il dato surreale che proprio in Svizzera, dove i minareti realmente esistenti sono quattro, in tre dei cantoni coinvolti il referendum non sia passato. Ovvero, traducendo ai minimi termini, ed estremizzando volutamente, dove minareti non ve ne sono, e magari nemmeno musulmani, la paura spinge a bandire gli uni e a temere gli altri. Dove esistono e sono pure visibili, vi è molto meno timore. Non per il loro valore e significato in sé: ma perché questo significa che in quegli stessi luoghi si attuano politiche interculturali che hanno i loro effetti.

Una curiosità, a conferma: la percentuale più alta di voti il referendum l’ha ottenuta nell’Appenzello interno: oltre il 70% di voti. Si tratta del medesimo cantone – in cui è presumibile ipotizzare che la presenza di musulmani sia irrisoria se non inesistente – che, dopo aver respinto per ben tre volte i referendum per estendere il diritto di volto alle donne (1973, 1982, 1990), è stato costretto a concederlo solo per intervento diretto del tribunale federale. Un segno di chiusura mentale in generale, non solo nello specifico. Si può forse presumere, a questo punto, che una buona percentuale dei pochi favorevoli ai minareti sia stata di donne, per solidarietà tra discriminati…

Ma la Svizzera non è un caso isolato. Più significativo ancora è il caso austriaco: il paese che per primo ha riconosciuto l’islam, negli anni ’20 del secolo scorso, e che per primo ha pure introdotto delle leggi specifiche contro i minareti, in Carinzia e in Voralrberg.

Come si spiega questo paradosso? Innanzitutto è un segno che il problema è reale: che, anche laddove conflitti non ve ne erano, e vi è tuttora un livello di integrazione anche formale e istituzionale dell’islam molto avanzato, incluso nella scuola pubblica, i problemi possono comunque emergere, ed emergono di fatto.

Questa semplice constatazione, da sola, giustifica il desiderio e la necessità sociale di saperne di più. E’ con questo obiettivo che ho proposto di svolgere una ricerca empirica sui conflitti intorno alle moschee in Europa. Ricerca che è stata approvata e finanziata dal Network of European Foundations di Bruxelles, e condotta in collaborazione con Etnobarometro, nell’ambito di un importante e impegnativo progetto di lavoro denominato “Religion and democracy in Europe”. Il testo finale della ricerca, così come delle altre condotte finora, è disponibile in inglese, a stampa1 e anche on line (sul sito www.nefic.org). Qui ne diamo alcune indicazioni sintetiche, rimandando ad essa per gli opportuni approfondimenti, sia sui singoli paesi che sui temi trasversali legati all’interpretazioni dei conflitti e ai loro esiti, nonché per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici. Ricordiamo che nell’ambito della ricerca, oltre a un’analisi approfondita di numerosi casi empirici di conflitto intorno alla costruzione di moschee, è stato possibile effettuare anche la prima mappatura esaustiva dei luoghi di culto musulmani in Europa, ciò che ne costituisce uno dei punti di forza.

Definire la moschea

Il primo problema definitorio che ci si pone è, innanzitutto, che cosa intendiamo per moschea. Conviene quindi usare un criterio estensivo e di buon senso: consideriamo moschea tutti i luoghi, aperti ai fedeli, in cui i musulmani si ritrovano insieme a pregare con continuità. Questo costituisce il criterio più significativo e più comprensivo per comprendere le dimensioni e le dinamiche del fenomeno di cui stiamo parlando. Esso fa appello alla funzione principale – la preghiera – e alla dimensione collettiva e pubblica. Al suo interno, la categoria ‘moschea’ conosce un certo numero di differenziazioni.

Per usare una scala di importanza decrescente, il primo elemento è quello dei ‘centri islamici’. Intendiamo per centro islamico un luogo di dimensioni significative, che svolge, oltre alla funzione della preghiera e del culto, un certo numero di funzioni a carattere sociale e culturale, attraverso varie forme di aggregazione (scuola coranica, corsi e momenti di aggregazione per adulti, donne, convertiti, conferenze a altre attività formative e culturali), di solito svolte in locali separati dalla sala di preghiera vera e propria, e svolge anche attività di rappresentanza istituzionale e simbolica dei musulmani. I centri islamici costituiscono una parte minoritaria ma importante di quelle che chiamiamo moschee. Solo nelle città maggiori ve ne può essere più di uno, e spesso non ve ne è alcuno. Non di rado svolgono funzioni di centralizzazione o di rappresentanza a livello provinciale o regionale. Di solito si occupano anche dell’organizzazione delle attività di riunione straordinarie, legate ad esempio alle festività islamiche.

Un’altra categoria importante, data la sua significatività rispetto ai conflitti intorno ai luoghi di culto, è quella delle moschee costruite ad hoc (purpose built), di solito con i segni visibili della cupola e di uno o più minareti (le masgid vere e proprie). Esse possono coincidere, e di fatto spesso coincidono, con i centri islamici. Vi sono tuttavia casi di moschee ad hoc che non sono centri islamici organizzati e strutturati, così come, non di rado, i centri islamici sono collocati in edifici riconvertiti che non hanno la forma visibile della moschea, e i segni di riconoscimento e di visibilizzazione esterni si limitano a una scritta o a una targa.

Una terza categoria – di gran lunga quella numericamente più significativa in tutti i paesi europei – è riconducibile a quella islamica della musalla, ovvero della sala di preghiera. In questo caso si tratta di luoghi che possono essere capannoni industriali, magazzini, negozi, appartamenti. In essi si può svolgere la sola attività di preghiera, ma più spesso vi si svolgono anche altre attività correlate (tipicamente la scuola coranica e altri momenti formativi). All’interno di questa categoria si collocano anche le musalla ‘etniche’, frequentate dai membri di una sola etnia, di solito per motivi linguistici (gruppi etnici non arabofoni, ad esempio). Vanno menzionate esplicitamente anche le sale di preghiera o zawiya sufi, ovvero quelle che fanno capo a confraternite mistiche, che talvolta hanno anche una specificità etnico-linguistica (si pensi ai muridi senegalesi, o ad alcune confraternite di origine indo pakistana, e altre ancora) ma spesso, soprattutto quelle più frequentate da convertiti, hanno uno spiccato carattere interetnico. Vi sono poi le sale di preghiera che fanno capo a gruppi minoritari di musulmani (shiiti, ahmadiyya, ecc.), laddove questi abbiano la forza per costituire le proprie strutture. Queste tre categorie di sale di preghiera hanno la prerogativa di essere semi-chiuse: ovvero, di principio possono essere aperte a qualunque musulmano, ma di fatto vengono frequentate dai soli appartenenti ad uno specifico gruppo (questo vale in particolare per i gruppi sufi).

Alcune musalla possono essere temporanee sulla base di diverse esigenze: o perché condivise con altre funzioni (come può accadere in talune università, ospedali e altre istituzioni, stadi di football, o nei centri di accoglienza per immigrati), per cui la stanza svolge la funzione di sala di preghiera solo in determinati orari, o solo indeterminati periodi dell’anno, come nel caso delle moschee in luoghi di aggregazione temporanea (ad esempio luoghi di villeggiatura che richiamano lavoratori musulmani solo in alcune stagioni e momenti dell’anno, o moschee rurali, in cui sono impiegati lavoratori stagionali in agricoltura). Molte moschee rurali e isolate, spesso fuori dai circuiti delle federazioni ma anche della conoscenza, sono tuttavia stabili, seppure vivendo vita più stentata in alcune stagioni dell’anno.

E’ evidente che se per i centri islamici, le moschee costruite ad hoc, e le sale di preghiera principali, il calcolo può essere svolto con una certa precisione, il calcolo delle moschee ‘nascoste’ e temporanee si rivela inevitabilmente più complicato, e spesso non costituisce che un’approssimazione.

Una panoramica generale

Nella tabella che segue presentiamo i dati sul numero di moschee nei vari paesi europei analizzati2.

Paese

Musulm. (in mln.)

% mus. su pop.

Moschee

Spagna

0,8-1,1

2,2

454

Italia

1,3

1,9

729

Grecia

0,2-0,33

0,4

< di 4004

Austria

0,4

4,8

> di 200

Bosnia

1,5

40

1867

Francia

5,5

8

2100

Germania

3,2-3,4

3

2600

Gran Bretagna

2,4

4

850-15005

Olanda

1

6

432

Belgio

0,4-0,5

3,5-4

330

Svezia

0,35-0,4

3,8-4,4

> 50

Norvegia

0,12

2,5

120

Finlandia

0,04

0,8

30-406

Danimarca

0,2

3,5

115

Se sommiamo il numero degli abitanti musulmani dei paesi considerati, e lo rapportiamo al numero di moschee, otteniamo il seguente risultato7: circa 18 milioni di musulmani e oltre 10.000 moschee. Il che equivale, grosso modo, a una moschea ogni 1.800 abitanti musulmani. Una quantità significativa, indicativamente comparabile a quelle esistenti in molti paesi musulmani o, in Europa, per i luoghi di culto della religione dominante cristiana nei rispettivi paesi. Tra l’altro, anche togliendo i dati sulla Bosnia, il solo paese in cui l’islam sia una presenza storicamente attestata e la religione più diffusa (anche se non maggioritaria), e i musulmani e le moschee della Tracia, l’altra minoranza islamica storica interna alla parte di Europa presa in considerazione nella ricerca, avremmo comunque quasi 9.000 moschee per oltre16 milioni di musulmani: una cifra e una percentuale non sostanzialmente diverse, che non alterano il quadro generale e il suo criterio interpretativo. A titolo di confronto, negli Stati Uniti vi sono tra 4 e 6 milioni di musulmani, che possono usufruire di oltre 1200 moschee (il dato, presente in vari fonti, è stato autorevolmente riportato nel discorso del presidente Obama al Cairo, il 4 giugno 2009). Prendendo come riferimento la cifra più alta di musulmani, che è peraltro la più diffusa, si tratta di 1 moschea ogni 5000 musulmani; se prendiamo la più bassa, di 1 ogni 3333 musulmani. La variabilità è enorme a seconda dello stato: si va dalla singola moschea delle Hawaii o dell’Alaska, alle 250 della California e 147 dello stato di New York, i soli dati a tre cifre.

Se poi rapportiamo il dato alle sole persone di origine musulmana che attivano in qualche modo i loro riferimenti religiosi (un terzo circa, secondo una stima recente8), il dato relativo al numero di musulmani potenziali per moschea risulta sensibilmente più basso.

Non vi è quindi, in assoluto, un problema di mancanza di luoghi di culto. Al contrario, in molti paesi ci si trova attualmente in una fase di consolidamento, di stabilizzazione del numero delle moschee, e semmai di investimento nella loro strutturazione interna, di allargamento dei loro spazi e delle loro funzioni.

Di fatto non si può dire dunque, in assoluto, che vi sia un problema di libertà religiosa non garantita per i musulmani in Europa. I problemi che emergono sono di ordine qualitativo, non quantitativo.

Simbolica e territorio

Le moschee – come ogni forma costruttiva che si proponga su un territorio dove prima non era presente – costituiscono una forma di appropriazione simbolica del territorio: e nello stesso tempo la resistenza alle medesime diventa un segno di dominazione e potere sul territorio molto concreta e materiale. E’ chiaro quindi che il conflitto intorno alle moschee è innanzitutto un genuino conflitto di potere. In esso giocano variabili diverse: gli attori considerati legittimi, la loro forza, la capacità di resistenza degli attori sociali già presenti (della loro ‘cultura’, come si dice spesso su questi argomenti), e le rispettive forme di legittimazione, di espressione del proprio discorso.

Una prima constatazione è autoevidente: non tutti gli edifici, anche nuovi nella forma e nelle funzioni, producono lo stesso tipo di conflitti. Raramente un edificio pubblico, o un edificio commerciale, produce tali forme di protesta. Un nuovo ospedale, una nuova banca, un nuovo supermercato o una nuova multisala, possono eventualmente essere oggetto di critiche, ma raramente queste sono espresse in chiave culturale. Se ne potrà valutare l’opportunità della collocazione, anche rispetto agli interessi che va a danneggiare (es. un supermercato rispetto ai piccoli negozi circostanti), oppure la dimensione e la forma (un edificio grande in un contesto di edilizia di piccole dimensioni, un edificio alto in un contesto di edilizia sviluppata orizzontalmene), o ancora le qualità estetiche. Ma raramente questi contrasti, pure frequenti, producono un riflesso identitario (e una dinamica noi-loro) simile a quella che troviamo a proposito di moschee. Questa dinamica si può manifestare (un quartiere di nuovi abitanti in un paese, di persone che vengono dalla città in area rurale), ma solo occasionalmente produce riflessi identitari collettivi. Le moschee invece li producono, in forma blanda o radicale, quasi immancabilmente, e in quasi tutta Europa, almeno in questa fase storica. Allo stesso modo chiese di altra confessione rispetto a quella dominante in un paese, o sinagoghe, ma anche templi di altre religioni, non producono il medesimo tipo di reazione e di rifiuto (anche se sarebbe storicamente falso dire che questo non sia accaduto in passato). In questo senso una ‘questione moschee’ oggi, in Europa, si pone.

Alcune forme del conflitto intorno alle moschee potrebbero essere addirittura interpretate attraverso le chiavi di lettura dell’etologia e della sociobiologia, più ancora che della sociologia e dell’antropologia, o ancor meno dell’urbanistica. Ne sono un esempio alcune forme di imprinting sullo spazio come lo spargimento di urina di maiale, o di teste mozzate di suino, o di suo sangue, sul territorio dove è previsto sorga una moschea: esempi che troviamo ampiamente diffusi, dalla Svezia all’Italia, e che costituiscono un oggetto di interesse in sé.

Dal lato islamico sottolineiamo innanzitutto il ruolo dei grandi centri islamici, soprattutto nelle capitali, nella definizione della simbolica spaziale. La loro presenza costituisce una forma contrattata di visibilizzazione.

Dal lato europeo, con l’eccezione dei centri islamici di alcune capitali, e pochi altri, si assiste invece spesso alla logica speculare e contraria della periferizzazione, della marginalizzazione in quartieri degradati, o vicino a funzioni esse stesse degradate: campi nomadi, centri di riciclo dei rifiuti urbani e discariche, aree industriali dismesse e in abbandono, addirittura in luoghi inquinati e contaminati. O si richiedono forme di ‘mimetismo architettonico’: la moschea va bene, purché non sia troppo (o per nulla) riconoscibile come tale.

Le battaglie sul minareto

Oggi non c’è quasi conflitto a proposito di moschee in Europa che non includa, in posizione prioritaria o marginale ma comunque presente, la questione del minareto: della sua altezza, o della sua stessa esistenza. Il caso più clamoroso è stato quello del referendum elvetico del novembre 2009, da cui abbiamo preso le mosse, ma questi è lungi dall’essere il solo. Il minareto sembra essere diventato un simbolo per eccellenza del conflitto intorno all’islam, o meglio intorno alla sua visibilizzazione nello spazio pubblico, nonostante esistano moschee senza minareto anche nei paesi musulmani, ed esso non appartenga alla storia iniziale dell’islam.

Non è improprio ricordare in questa sede che il minareto, come il grattacielo, come la torre di Babele, è un simbolo che si innalza verso il cielo: un simbolo di potenza, di grandezza, di forza. Anche senza voler sottolineare troppo esplicitamente il suo evidente aspetto fallico, di dominio, che non è comunque estraneo alla prospettiva anche etologica che abbiamo introdotto, è storicamente dimostrabile che le torri hanno sempre costituito un segno di potere e di dominio. Non a caso, nella lunga storia dei comuni medievali italiani, la vittoria di una famiglia o di una città sull’altra aveva come conseguenza la distruzione delle torri delle famiglie o delle città sconfitte: le torri mozze di molte città sono ancora lì a testimoniarlo. E ancora nella guerra della ex-Yugoslavia c’è stata una corsa a distruggere minareti e campanili, per sancire il proprio dominio. Ha lo stesso carattere di sfida e di potere la rincorsa tuttora in atto tra grandi imprese o, oggi ancor più, tra grandi città, in particolare da parte delle nuove potenze economiche e finanziarie, per ospitare il grattacielo più alto del mondo, il simbolo più visibile di dominio.

Dunque, le controversie sui minareti sono anche, forse innanzitutto, dei conflitti di potere. Dei tentativi di introdurre un simbolo comunque di grande visibilità, da parte dei musulmani, con una funzione ostentatoria o almeno interpretata come tale dalla popolazione circostante (un modo di dire: ci siamo anche noi, e vogliamo affermarlo pubblicamente e visibilmente). Mentre il tentativo di impedirlo da parte dei gruppi e delle correnti di opinione autoctone che vi si oppongono (comitati di cittadini, imprenditori politici della paura, della xenofobia e dell’islamofobia, media, intellettuali) testimonia il tentativo di impedire all’islam di esistere socialmente in forma visibile nello spazio pubblico, cioè di attestare una primazia, o almeno una com-presenza. A costo di entrare in conflitto con i propri stessi principi e ordinamenti, a cominciare dai diritti di libertà religiosa.

Le moschee come dimensione conflittuale

Le moschee costituiscono una modalità di uscita dell’islam dalla sfera privata, il suo ingresso ufficiale nella sfera pubblica, e anche il suo qualificarsi come interlocutore della società e delle istituzioni9. Inoltre moschee e sale di preghiera insieme testimoniano di dinamiche specifiche, legate alle stesse dinamiche migratorie, che hanno molte sfaccettature. Innanzitutto, spesso esse sono la sola forma di associazionismo di riferimento presente sul territorio. Talvolta sono il testimone di un più elevato livello di pratica in situazione di emigrazione. Sono inoltre un buon termometro del livello di organizzazione delle varie comunità etniche e religiose. Inoltre sono un elemento di maturazione delle leadership islamiche, o talvolta di dimostrazione della loro immaturità.

I conflitti intorno alle moschee coinvolgono vari tipi di attori. Essi hanno quasi sempre un’origine tra i cittadini delle zone circonvicine: o in maniera diretta (proteste di cittadini, manifestazioni, raccolte di firme, petizioni, comitati spontanei) o in maniera indiretta (gruppi politici e media che agiscono o dicono di agire in nome dei cittadini stessi).

Le motivazioni dei cittadini sono fondamentalmente riconducibili alle seguenti:

  1. motivazioni ‘reali’ o presunte tali: caduta di valore degli immobili; timore di aumento del traffico, perdita della tranquillità, problemi di parcheggio; timori di aumento della delinquenza e di maggiore frequentazione della zona da parte di persone sgradite; timori di violenza, incidenti e fondamentalismo islamico; timore di invasione degli spazi pubblici in occasione del venerdì e di altre festività islamiche (cortili, marciapiedi, parchi e parchi giochi); esistenza di altre priorità sociali nella zona;

  2. motivazioni ‘culturali’: estraneità dell’islam alla ‘nostra’ cultura locale; difesa dei diritti della donna; reciprocità; inintegrabilità e/o incompatibilità dell’islam con i valori dell’occidente/d’Europa/cristiani.

Come si vede, se il primo ordine di motivi può avere (ma spesso non ha) un fondamento empirico, e può essere costruito discorsivamente come tale, il secondo serve solo a motivare una kulturkampf il cui oggetto non è più la moschea in quanto tale – che diventa solo un simbolo tra altri da colpire – ma l’islam stesso come religione diversa, estranea, ‘aliena’, non compatibile con la democrazia, l’occidente, il liberalismo, il cristianesimo, ‘le nostre tradizioni’, secondo i casi.

Va notata in primo luogo l’emergere con forza, man mano che ci si avvicina ai nostri giorni, delle opposizioni: frutto evidentemente di eventi traumatici (dall’11/9 a eventi interni a vari paesi: gli attentati di Madrid e Londra, per limitarci al terrorismo, l’assassinio di Theo van Gogh, la vicenda delle vignette danesi, turbolenze legate ai dibattiti sull’hijab o su questioni di genere e di autoritarismo paterno (matrimoni forzati, casi clamorosi di delitti d’onore, ecc.). Tutto questo ha avuto certamente un’influenza sull’evoluzione del dibattito: ma, probabilmente, non lo spiega interamente. E non si può escludere a priori che sia anche la conseguenza di una valutazione meditata degli effetti della convivenza – con l’islam in generale e con le moschee in articolare – nei vari paesi.

Gli attori politici giocano comunque un ruolo decisivo. Tra di essi possiamo distinguere: gli attori politico-burocratici competenti per gestire le pratiche relative alla moschea (amministrazione locale e enti collegati); i partiti politici locali; i partiti politici esterni; i vari gradi di intervento della giustizia (sentenze, atti di tribunali amministrativi) che possono interferire con le decisioni politiche e lo sviluppo delle vicende. Rinviamo alla ricerca per un approfondimento del loro comportamento.

Ma anche la percezione e la mediatizzazione giocano un ruolo fondamentale. Più ancora che dalla realtà dei processi sociali in atto, è dalla loro percezione che dipende molto della direzione che essi prendono e della loro ‘riuscita’. Questo aspetto è di fondamentale importanza anche relativamente alle politiche intorno all’islam, e nello specifico intorno alle polemiche sulle moschee: che dipendono in larga misura dalla percezione che si ha del fenomeno.

I media risultano dunque oggi sempre più decisivi, anche perché il loro ruolo, a seguito dei processi di globalizzazione, di cui sono nel contempo un effetto, una causa e un acceleratore, non è più solo quello di informare, ma propriamente di costruire i nostri mondi conoscitivi: nel nostro caso, ad esempio, fornendo il quadro interpretativo del rapporto islam-occidente, e le definizioni fondamentali dei termini della questione10.

E’ evidente che il conflitto esiste nello spazio pubblico – superando le dimensioni locali strettamente intese e le relazioni di vicinato – nella misura in cui è mediatizzato. Oggi siamo indubitabilmente in una fase in cui anche conflitti in realtà locali periferiche e persino marginali possono emergere all’attenzione nazionale, anche a seguito della strumentalizzazione di imprenditori politici dell’islamofobia. In questo senso i media e le forze politiche anti-islamiche hanno un co-interesse evidente nel sollevare il conflitto in una logica di rispecchiamento reciproco nella sua evoluzione e nei suoi esiti: e hanno il medesimo ‘non interesse’ nel risolverlo. Di fatto, conflitti che fino al decennio Novanta non avrebbero avuto visibilità, oggi ce l’hanno, e tanto più quanto più si attivano imprenditori politici dell’islamofobia anche esterni: basta una dichiarazione, in questo senso, per attivare il meccanismo. E i discourses impostati a livello mediatico hanno un ruolo fondamentale nel definire l’immaginario collettivo e le stesse strategie discorsive degli attori in gioco, obbligate a collocarsi all’interno della logica iniziale proposta dagli attori che per primi intervengono nello spazio pubblico.

Dall’analisi dei casi empirici e della letteratura studiata emergono con chiarezza alcuni elementi di rilievo. Il primo è l’esistenza stessa dei conflitti. Non c’è quasi paese dove essi non siano emersi, pur nella diversità della forma e della frequenza. Il secondo è la loro accettazione spesso rassegnata, da parte dei musulmani. Il terzo è la loro forma e il loro ruolo. In tutta evidenza i conflitti intorno all’islam non sono quello che sembrano, e non dichiarano il loro contenuto. Ma proprio per questo mostrano la necessità del conflitto stesso, che diventa la modalità con cui il tema reale – la presenza dell’islam, più che quella delle moschee, il contenuto più che il simbolo che lo rappresenta – viene introiettato, discusso, fatto emergere alla superficie.

1 S. Allievi, Conflicts over Mosques in Europe. Policy issues and trends, London, Alliance Publishing Trust/NEF, presso il quale è richiedibile gratuitamente. Un’edizione ampliata e ulteriormente aggiornata, anche con un’attenzione esplicita al caso italiano, è in corso di pubblicazione presso l’editore Marsilio.

2 I dati sono tratti dai report prodotti in funzione della presente ricerca.

3 Di cui circa 120.000 appartengono alla minoranza Tracia.

4 Di cui 301 in Tracia, circa 60 nel distretto di Atene, di cui 26 in città.

5 La variabilità è dovuta al fatto che molte moschee non sono registrate. Dati statistici validi e completi sono disponibili solo su 255 moschee.

6 Di cui 5 fanno capo alla comunità Tatara.

7 Laddove le cifre siano all’interno di una forbice, abbiamo riportato la cifra più alta indicataci; ma anche se scegliessimo quella più bassa le proporzioni non cambierebbero.

8 Dassetto, F., Ferrari, S. and Maréchal, B. (2007), Islam in the European Union: what’s at stake in the future?, Strasbourg: European Parliament. Per un’analisi più generale dell’islam in Europa l’opera di riferimento resta ancora Maréchal, B., Allievi, S., Dassetto, F. and Nielsen, J. (2003), Muslims in the Enlarged Europe, Leiden: Brill.


9 Pochi gli studi specificamente dedicati alla questione delle moschee in Europa, e ancora meno quelli che trattano esplicitamente la dimensione conflittuale. Tra questi: Beinhauer-Köhler, B. e Leggewie, C. (2009), Moscheen in Deutschland. Religiöse Heimat und gesellschaftliche Herausforderung, München : Beck Verlag; Landman, N. (1992), Van mat tot minaret. De institutionalisering van de islam in Nederland, Amsterdam: VU Uitgeverij; Maussen, M. (2009), Constructing Mosques. The governance of Islam in France and the Netherlands, Amsterdam: University of Amsterdam; Metcalf, B.D. (ed.) (1996), Making Muslim Space in North America and Europe, Berkeley: University of California Press; Ternisien, X. (2002), La France des mosquées, Paris: Albin Michel. Per l’Italia se ne tratta esplicitamente, in testi dedicati più in generale alla presenza islamica, in : Allievi, S. (2003), Islam italiano, Torino: Einaudi; Allievi, S. (2009), I musulmani e la società italiana. Percezioni reciproche, conflitti culturali, trasformazioni sociali, Milano: Franco Angeli; Allievi, S. e Dassetto, F. (1993), Il ritorno dell’islam. I musulmani in Italia, Roma: Edizioni Lavoro.


10 Rinviamo almeno, per un approfondimento su questi temi, a Allievi, S. (2005a), ‘Conflicts, cultures and religions. Islam in Europe as a sign and symbol of change in European societies’, Yearbook of Sociology of Islam, 6: 18-27; Allievi, S. (2005b), ‘How the Immigrant has become Muslim. Public Debates on Islam in Europe’, Revue Européenne des Migrations Internationales, 21: 135-163 ; nonché Allievi, S. (2007), Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Udine: Forum.

Allievi S. (2010), Moschee in Europa. Conflitti e polemiche, tra fiction e realtà, in “Quaderni di diritto e politica ecclesiastica”, anno XVIII, n. 1, aprile 2010, pp.149-160


Islam e Occidente, paure a confronto. Tra clash degli immaginari e profezie che si autorealizzano

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Allievi S. (2010), Islam e Occidente, paure a confronto. Tra clash degli immaginari e profezie che si autorealizzano, in R. Gritti, M. Bruno e P. Laurano (a cura di), Oltre l’Orientalismo e l’Occidentalismo. La rappresentazione dell’Altro nello spazio euro-mediterraneo, Milano, Guerini e Associati 2009, pp. 221-234
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Presentazione all’edizione italiana de "Il Dio dell’Europa. Il cristianesimo e l’islam in un continente che cambia" di P. Jenkins

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Allievi S. (2009), Presentazione all’edizione italiana, in P. Jenkins, Il Dio dell’Europa. Il cristianesimo e l’islam in un continente che cambia, Bologna, Emi, pp. 11-15

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L’islam degli immigrati e dei convertiti

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Allievi S. (2009), L’islam degli immigrati e dei convertiti, in R. Tottoli (a cura di), Le religioni e il mondo moderno. Islam, Torino, Einaudi, pp. 607-641
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