Il Carroccio crea paure e ci guadagna

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Manifesto_30122009

Allievi S. (2009), «Il Carroccio crea paure e ci guadagna», in “Il Manifesto”, 30 dicembre 2009, p.4, intervista di Cinzia Gubbini

La cultura dell’odio e il ruolo della stampa

“Il Gazzettino” di ieri ha ospitato un articolo, a firma di Ario Gervasutti, in risposta all’editoriale da me scritto per “Il Mattino”, in cui cercavo di spiegare un’ovvietà: e cioè che il clima che ha preceduto e seguito il ferimento di Berlusconi è frutto di una predicazione dell’odio che ci portiamo avanti da anni. E che questo clima non è caduto dal cielo, ma è figlio di una cultura politica e mediatica precisa: quella della demonizzazione dell’avversario – diffusa in molti ambiti, da e contro Berlusconi – e della calunnia faziosa come metodo. E, infine, che questa cultura non è uguale dappertutto, e men che meno che è più diffusa a sinistra, come si sta dicendo in queste ore. Semmai, se è vero che la faziosità e il partito preso sono diffusi da tutte le parti e in certa misura fisiologici, in questa fase storica (in altri momenti è stato il contrario) molti esponenti della destra politica e giornalistica hanno imparato ad usare l’attacco a singole persone o a intere categorie con indubbio successo, non solo praticandolo ma vantandosene e rivendicandolo come metodo vincente (per non citare nomi di politici, citerò solo il caso Feltri-Boffo per gli attacchi personali e l’odiosa e indiscriminata campagna anti-immigrati della Lega: che, è il caso di dirlo, non guardano in faccia nessuno).

Che si sia superato, e da molti mesi, il limite di guardia, non lo dice il sottoscritto, ma il Presidente della repubblica e la terza carica dello Stato, e soprattutto un sacco di gente disgustata, che non ne può più del livello degradante della vita politica italiana.

L’intervento di Gervasutti si inserisce perfettamente in questa linea. Il fatto che, con un gioco di parole non originalissimo, che da mezzo secolo mi sento ripetere, parli delle “lezioni dei cattivi allievi” (con la maiuscola), paragonandomi implicitamente, niente meno, ai “cattivi maestri” alla Toni Negri, la dice lunga proprio sul clima che tentavo di descrivere, di cui sono un eccellente esempio. E il fatto che, per rispondere a una considerazione politica e culturale, si lanci in un attacco personale, avvilente più per chi lo fa che per chi lo riceve, alludendo al fatto che io possa influenzare negativamente i miei studenti dalle aule della Facoltà di Scienze Politiche in cui mi onoro di insegnare, è precisamente un esempio di quanto tentavo di descrivere. Se, davvero, non si può più esprimere un’opinione, senza essere tacciati di faziosità e accusati sul piano personale, è appunto il frutto avvelenato di questi anni.

Da antico obiettore di coscienza, detesto la violenza. Le mie parole sul ferimento a Berlusconi, definito “vile oltre che violento”, e che insistevano anche sull’umiliazione inflitta al premier come “umiliazione e degradazione di tutti”, indicano proprio questo, senza ambiguità. Ma ribadisco con assoluta convinzione, semmai rafforzata, che è una sciagurata sconsideratezza esercitarsi “nel cercare, con nome e cognome, presunti mandanti morali e materiali, offrendo all’ira popolare nuovi nemici da combattere”. Come hanno fatto molti in queste ore, tra cui, si parva licet, l’amico Gervasutti. E che fare paragoni con gli anni di piombo o il terrorismo è semplicemente vergognoso: in quegli anni c’ero, e la violenza, tra opposti estremismi e stragi di stato, si respirava giorno per giorno, ti passava tra i pori. L’altra sera, insieme a milioni di italiani, ho sentito al Tg1 Bossi definire un “atto di terrorismo” il ferimento del premier, e subito dopo è stato detto dell’arresto di Tartaglia, uno psicolabile in cura da dieci anni. Questa semplice sequenza di notizie descrive bene l’insensatezza di certi paragoni e di troppe parole in libertà: di cui, davvero, non ne possiamo più.

Dopo l’editoriale dell’altro giorno ho ricevuto molte telefonate di apprezzamento. La più gradita mi è giunta proprio dal “Gazzettino”, da parte di un giornalista, che non conosco personalmente, che ci ha tenuto a esprimermi parole di condivisione e di incoraggiamento: segno che il rifiuto di un dibattito che non porta da nessuna parte è trasversale, e che in tanti vorremmo uscire da questa logica. Mi fa piacere segnalarlo perché non voglio a mia volta aggiungere faziosità a faziosità. Ad Ario Gervasutti, che si accinge ad assumere l’importante responsabilità di dirigere “il Giornale di Vicenza”, l’augurio di farlo con stile e autorevolezza. E un sentito Buon Natale.

Stefano Allievi

Allievi S. (2009), La cultura dell’odio e il ruolo della stampa, in “Il Mattino”, 18 dicembre 2009, p. 15

La cultura dell’odio e il ruolo della stampa

La cultura dell’odio e il ruolo della stampa

“Il Gazzettino” di ieri ha ospitato un articolo, a firma di Ario Gervasutti, in risposta all’editoriale da me scritto per “Il Mattino”, in cui cercavo di spiegare un’ovvietà: e cioè che il clima che ha preceduto e seguito il ferimento di Berlusconi è frutto di una predicazione dell’odio che ci portiamo avanti da anni. E che questo clima non è caduto dal cielo, ma è figlio di una cultura politica e mediatica precisa: quella della demonizzazione dell’avversario – diffusa in molti ambiti, da e contro Berlusconi – e della calunnia faziosa come metodo. E, infine, che questa cultura non è uguale dappertutto, e men che meno che è più diffusa a sinistra, come si sta dicendo in queste ore. Semmai, se è vero che la faziosità e il partito preso sono diffusi da tutte le parti e in certa misura fisiologici, in questa fase storica (in altri momenti è stato il contrario) molti esponenti della destra politica e giornalistica hanno imparato ad usare l’attacco a singole persone o a intere categorie con indubbio successo, non solo praticandolo ma vantandosene e rivendicandolo come metodo vincente (per non citare nomi di politici, citerò solo il caso Feltri-Boffo per gli attacchi personali e l’odiosa e indiscriminata campagna anti-immigrati della Lega: che, è il caso di dirlo, non guardano in faccia nessuno).

Che si sia superato, e da molti mesi, il limite di guardia, non lo dice il sottoscritto, ma il Presidente della repubblica e la terza carica dello Stato, e soprattutto un sacco di gente disgustata, che non ne può più del livello degradante della vita politica italiana.

L’intervento di Gervasutti si inserisce perfettamente in questa linea. Il fatto che, con un gioco di parole non originalissimo, che da mezzo secolo mi sento ripetere, parli delle “lezioni dei cattivi allievi” (con la maiuscola), paragonandomi implicitamente, niente meno, ai “cattivi maestri” alla Toni Negri, la dice lunga proprio sul clima che tentavo di descrivere, di cui sono un eccellente esempio. E il fatto che, per rispondere a una considerazione politica e culturale, si lanci in un attacco personale, avvilente più per chi lo fa che per chi lo riceve, alludendo al fatto che io possa influenzare negativamente i miei studenti dalle aule della Facoltà di Scienze Politiche in cui mi onoro di insegnare, è precisamente un esempio di quanto tentavo di descrivere. Se, davvero, non si può più esprimere un’opinione, senza essere tacciati di faziosità e accusati sul piano personale, è appunto il frutto avvelenato di questi anni.

Da antico obiettore di coscienza, detesto la violenza. Le mie parole sul ferimento a Berlusconi, definito “vile oltre che violento”, e che insistevano anche sull’umiliazione inflitta al premier come “umiliazione e degradazione di tutti”, indicano proprio questo, senza ambiguità. Ma ribadisco con assoluta convinzione, semmai rafforzata, che è una sciagurata sconsideratezza esercitarsi “nel cercare, con nome e cognome, presunti mandanti morali e materiali, offrendo all’ira popolare nuovi nemici da combattere”. Come hanno fatto molti in queste ore, tra cui, si parva licet, l’amico Gervasutti. E che fare paragoni con gli anni di piombo o il terrorismo è semplicemente vergognoso: in quegli anni c’ero, e la violenza, tra opposti estremismi e stragi di stato, si respirava giorno per giorno, ti passava tra i pori. L’altra sera, insieme a milioni di italiani, ho sentito al Tg1 Bossi definire un “atto di terrorismo” il ferimento del premier, e subito dopo è stato detto dell’arresto di Tartaglia, uno psicolabile in cura da dieci anni. Questa semplice sequenza di notizie descrive bene l’insensatezza di certi paragoni e di troppe parole in libertà: di cui, davvero, non ne possiamo più.

Dopo l’editoriale dell’altro giorno ho ricevuto molte telefonate di apprezzamento. La più gradita mi è giunta proprio dal “Gazzettino”, da parte di un giornalista, che non conosco personalmente, che ci ha tenuto a esprimermi parole di condivisione e di incoraggiamento: segno che il rifiuto di un dibattito che non porta da nessuna parte è trasversale, e che in tanti vorremmo uscire da questa logica. Mi fa piacere segnalarlo perché non voglio a mia volta aggiungere faziosità a faziosità. Ad Ario Gervasutti, che si accinge ad assumere l’importante responsabilità di dirigere “il Giornale di Vicenza”, l’augurio di farlo con stile e autorevolezza. E un sentito Buon Natale.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 18 dicembre 2009, p. 15

Berlusconi, odio seminato a piene mani

Berlusconi, odio seminato a piene mani

E’ una bruttissima Italia, quella che emerge dagli eventi di questi giorni, a partire dal ferimento del premier. Ma è uno specchio fedele dell’Italia che siamo. E che è opportuno guardare in faccia, con onesta inquietudine.

L’insensato attacco a Berlusconi si commenta da solo. Vile, oltre che violento; dannoso certo per i suoi effetti diretti, ma anche per l’umiliazione che sempre la brutalità produce nei confronti di chi la subisce. Giusto e doveroso quindi condannarlo con forza, da parte di tutti. L’aggressione a chi governa l’Italia è davvero, in questo senso, un’aggressione all’Italia: e la sua umiliazione è l’umiliazione e la degradazione di tutti. La solidarietà umana e istituzionale è dunque un dovere di chiunque abbia un minimo di coscienza civica. Virtù che purtroppo non abbonda nel Paese, a cominciare da chi lo rappresenta.

Ma l’oscena gazzarra che ne è seguita è uno spettacolo che ha superato ampiamente i limiti dell’indecenza. Da un lato la becera grettezza di chi inneggia all’aggressione e alla violenza. Chi si esalta, inveisce, e rilancia, con squallido humour, su facebook e nei bar: chi lo grida in pubblico, e chi si limita, sotto sotto, a godersela, perché l’umiliazione del potente è pur sempre uno spettacolo popolare. Dall’altro le reazioni ossessive dei fedelissimi: in politica e nei media.

La rappresentazione è sconcertante. Per la sproporzione degli eventi messi a confronto, tanto per cominciare. Si collega il fatto con l’attentato a Togliatti (a cui, dopo tutto, hanno sparato) o con l’assassinio di Rabin: mancano solo Gandhi e Luther King. E si evocano con leggerezza paragoni con gli anni di piombo e il terrorismo. Dimenticando che si è trattato del gesto isolato di uno psicolabile, e non del complotto organizzato di una qualsiasi opposizione. Ma anche per la sconsideratezza di chi si esercita nel cercare, con nome e cognome, presunti mandanti morali e materiali, offrendo all’ira popolare nuovi nemici da combattere.

Non è strano che nell’Italia di oggi ci siano contrasti, tensioni, opposizione. Fa parte del gioco politico, in cui i partiti sono per l’appunto questo: parti della società, in conflitto tra loro per idee e interessi da difendere. Quello che è desolante è che questo contrasto, di per sé fisiologico, sia così radicato nel ceto politico odierno (in gran parte composto da fedelissimi che devono tutto a chi li ha messi in lista, e non a chi li ha votati: servi sciocchi, quindi, più che statisti e uomini politici) da aver prodotto un’assuefazione verbale a qualsiasi insensatezza – tanto ha più spazio nei tg chi le spara più grosse.

Diciamolo onestamente: oggi si fa politica e si guadagna consenso demonizzando l’avversario e organizzando le rispettive tifoserie politiche, non certo progettando il futuro della società. In questo c’è chi si è mostrato maestro e ne ha guadagnato elettoralmente. Così come, se dovessimo pensare a quali sono i giornali che non solo per i contenuti (a cui, quanto a faziosità, contribuiscono quasi tutti), ma anche per lo stile si dimostrano faziosi, facendosene un vanto e rivendicandolo, oggi non penseremmo al Manifesto e all’Unità, ma piuttosto a Libero e al Giornale.

E allora forse chi grida ‘al lupo’ pensando all’odio degli altri dovrebbe pensare anche a chi lo ha seminato a piene mani in questi anni. Ne troverebbe ovunque. Solo questo potrebbe essere un passo avanti per dare uno sbocco positivo alla gravissima aggressione a Berlusconi: dando un contributo a migliorare il livello della vita politica, anziché contribuire forsennatamente, come sta accadendo in queste ore, ad abbassarlo ulteriormente.

Il “Mattino”, 16 dicembre 2009, p. 1-5

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La nuova Venezia e la Tribuna di Treviso

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L’odio senza colore di una brutta Italia, in “Il Piccolo”, 17 dicembre 2009, p. 1

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“Il messaggero” di Udine

Stefano Allievi

Ma per il carroccio il crocifisso è un’arma

Ma per il carroccio il crocifisso è un’arma

Di lotta e di governo. Così si presenta la Lega nei confronti della Chiesa.

Da un lato le polemiche odierne del ministro Calderoli contro il cardinal Tettamanzi, reo di parlare un po’ troppo spesso di immigrati e rom: che si inseriscono in una lunga tradizione leghista, che ha sempre assimilato la Chiesa, in toto, a Roma ladrona. Le polemiche contro i ‘vescovoni’, come li ha chiamati più volte sprezzantemente Bossi, contro la Caritas, o contro le prese di posizione ecclesiali, specie sull’immigrazione ma non solo, non si contano, e fanno parte della storia culturale della Lega. Ne sono, anzi, la matrice, coerentemente reiterata nel tempo, di cui i riferimenti neo-pagani (dal dio Po ai matrimoni celtici) sono una costante platealmente sbandierata.

Anche le polemiche contro la chiesa ambrosiana sono del resto di vecchia data, risalendo ai tempi del cardinal Martini. La curia milanese è stata sempre un obiettivo prediletto: non amata dai leghisti, anche perché essa non ha mai fatto mistero di non amare la Lega, e gli egoismi che rappresenta. Peccato di lesa maestà doppiamente grave, essendo la diocesi ambrosiana anche la culla del leghismo e del suo capo indiscusso. Da qui battaglie politiche che assomigliano molto a tentativi di ingerenza, che a qualcuno hanno fatto ritornare in mente i tempi delle nomine vescovili caldeggiate dall’imperatore di turno: e oggi, non c’è dubbio, nel Nord comanda, sempre più, la Lega.

D’altra parte c’è anche una Lega alla disperata ricerca di benedizioni, se non di benemerenze, ecclesiali. E’ la Lega che difende il crocifisso – seppure considerato simbolo identitario e non religioso, e quindi più facilmente trasformabile in arma contundente – proponendone persino l’apposizione sulla bandiera nazionale (singolarmente proposta dall’ex-ministro Castelli, che di suo ha preferito sposarsi celticamente). Del ministro Zaia che al meeting di Rimini va a proporsi, e a proporre la Lega, come il vero bastione della cristianità e il nuovo interprete dello spirito crociato. Del ministro Calderoli, altro esponente leghista sposato celticamente, e del gran capo Bossi, in visita al patriarca Scola, primo alto esponente ecclesiale a riceverli (9 aprile), per un’ora e mezza di misteriosi colloqui, forse favoriti dalla comune origine lombarda e dalla strategica collocazione nel Nord. O dell’incontro ancora più autorevole con il cardinal Bagnasco (3 settembre): un quarto d’ora forse più simbolico che di contenuto, e probabilmente, almeno nel breve periodo, più utile alla Lega che alla Cei.

Incontri volti a proporre un improbabile volto conciliante e filo-clericale della Lega, ma anche, probabilmente, a tentare di suggellare un patto di egemonia culturale condivisa e non più concorrenziale su un Nord sempre più saldamente in mani leghiste, e il cui elettorato è in parte significativa cattolico.

Difficile intravedere gli scenari che questi tentativi mettono in luce.

Sul lato ecclesiale la Lega si manifesta boccone indigesto. Tanto che Bagnasco, nei mesi successivi all’incontro, non ha mancato di polemizzare duramente con la Lega, sulla questione della moschea genovese come sul caso Tettamanzi; e Scola è portatore di una visione del ‘meticciato delle culture’ molto più complessa e problematica, e certamente più ‘alta’, delle semplificazioni leghiste. La Lega di governo al Nord diventerà tuttavia un fatto compiuto sempre più difficile da ignorare, e si può presumere che questo porterà a una normalizzazione progressiva dei rapporti. Anche se si può ipotizzare che resteranno, nel mondo ecclesiale, tanto alla base quanto al vertice, forti sacche di resistenza culturale all’assalto leghista. Ma si sa: anche Mussolini aveva cominciato la sua carriera politica con infuocati comizi in favore dell’ateismo, intimando a Dio, se esisteva, di incenerirlo all’istante, e ha finito per firmare i Patti Lateranensi. La piroetta leghista dal folklore neo-celtico al bacio dell’anello cardinalizio non è, dopo tutto, più estrema.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 11 dicembre 2009, p. 1-4

La ‘dottrina Obama’, tra conflitti veri e immaginari

La ‘dottrina Obama’, tra conflitti veri e immaginari

La ‘dottrina Obama’, i conflitti locali, e i rapporti tra islam e occidente

Conflitti veri e conflitti immaginari

Il conflitto tra islam e occidente si manifesta in molti modi diversi. Il più evidente, a livello globale, è ovviamente quello del terrorismo islamico transnazionale, da un lato, e delle guerre condotte sul suolo islamico da potenze occidentali, dall’altro. Ma esso ha anche manifestazioni interne all’Europa, più ordinarie e al contempo più frequenti, spesso basate su conflitti di convivenza: talvolta reali, più spesso con basi empiriche dubbie ma un forte coinvolgimento, sul piano emotivo come su quello culturale (simbolico) e politico. Si pensi a questioni come l’hijab (il cosiddetto velo islamico) o le moschee, ma anche ad altre questioni legate alla visibilità culturale nella scuola e alle questioni di genere.

La presenza dell’islam all’interno dello spazio pubblico europeo non poteva del resto passare né socialmente né culturalmente inosservata. Essa è troppo visibile per non indurre dibattiti e anche tensioni: segno che si tratta effettivamente di un evento che tocca corde sensibili, o che viene percepito come tale. E che il fatto – l’islam come seconda religione in Europa per numero di fedeli (se si vuole, il passaggio dei musulmani dallo statuto di ex-nemici a quello di co-inquilini) – è di quelli che sono legittimamente considerabili come storici.

L’islam è messo in discussione in sé, spesso attraverso interpretazioni essenzialiste e semplicistiche delle modalità di rapporto tra religione e politica che propone. L’islam è poi messo in discussione in alcuni suoi aspetti, per come si manifestano nei paesi musulmani e non solo; di questi aspetti, i più mediatizzati sono certamente la condizione della donna e il fondamentalismo. Infine, esso produce e induce dibattito sui fondamentali della società, sui limiti delle sue possibilità di ‘apertura’, sui suoi confini, su svariate interpretazioni di possibili ‘soglie di tolleranza’. Tutto ciò accade senza che, di solito, si tratti di un confronto/scontro diretto con i musulmani; per lo più si tratta di dibattiti interni alle società di accoglienza, a proposito dei musulmani e dell’islam. Vi sono tuttavia, oltre ai dibattiti sull’islam, anche alcuni concreti esempi di confronto/scontro sociale e culturale (tra sub-società e tra culture, dunque, o per meglio dire tra esponenti e rappresentanti delle medesime) manifestatisi sul suolo europeo, che hanno coinvolto direttamente degli attori sociali musulmani, e che hanno provocato tensioni, discussioni, manifestazioni di ostilità, forme di rifuto o di ripensamento. Tra questi, anche delle controversie che, più che nello spazio pubblico, sono controversie sullo spazio pubblico. Un punto, questo, che ci pare ancora più cruciale, implicando la percezione del controllo sul territorio, il suo imprinting simbolico. Un aspetto che, seppure con le doverose cautele, potrebbe essere studiato non solo con gli strumenti della sociologia della cultura, ma anche con le categorie proprie dell’etologia e della sociobiologia. Il controllo del e sul territorio non è dopo tutto solo un fatto culturale e simbolico; è anche (rimane, nonostante tutto) un segno assai concreto e materiale di dominio, di potere. Pensiamo in particolare alla costruzione di moschee o la concessione di spazi cimiteriali specifici.

La questione è importante per vari motivi. Da un lato infatti la presenza di comunità straniere sembrerebbe presupporre come conseguenza banale e del tutto ovvia che esse desiderino anche avere propri luoghi di incontro in base alla religione di appartenenza, come li hanno del resto anche le minoranze ‘interne’, ovvero cittadine. D’altro canto intorno a questa questione sono nati conflitti persino sorprendenti: segno di un disagio e di un rifiuto più profondo del suo bersaglio occasionale. Conflitti che fanno pensare che in questione non sia il fatto in sé (quasi nessuno tra coloro che vi si oppongono direbbe che vuole impedire a qualcuno di pregare: la ragione evocata è sempre altra), ma qualcosa di più profondo, legato all’appropriazione simbolica del territorio, che ha a che fare anche con la storia e la sua ri-costruzione, ma anche con dinamiche sociali profonde.

Su questo tema, nell’ambito delle attività svolte presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova, sono state svolte negli ultimi due anni, coordinate da chi scrive, diverse ricerche. La prima e più importante è riassunta oggi in un report, frutto di una ricerca finanziata dal Network of European Foundations, con il supporto di Ethnobarometer, con analisi empiriche svolte in 11 paesi europei, che sarà presentato a Vienna il 7 di ottobre, nel corso di una conferenza internazionale, alla presenza delle più alte autorità politiche e religiose, dal Presidente della Repubblica al Cardinale di Vienna, e di una folta rappresentanza di operatori dei media. Il titolo, Conflicts on Mosques in Europe, rende già conto del fatto che si è voluta esaminare non solo il fatto in sé – il diffondersi delle moschee – ma precisamente la dimensione conflittuale che è implicata e le sue dinamiche. Nello stesso ambito è stata condotta anche una ricerca sulle moschee in Italia, nel Veneto e a Padova (il cui testo sarà pubblicato in italiano in ottobre: S. Allievi, a cura di, L’ospite inatteso, Milano, Franco Angeli), e prodotto il documentario di F. Dal Lago e C. Dall’Osto, Fuori dal ghetto. Storia controversa della moschea di Padova, presentato al Bo il 27 maggio 2009. Questi ultimi lavori sono stati svolti coinvolgendo gli studenti dei corsi specialistici di Sociologia e di Comunicazione, attraverso una sperimentazione anche didattica svolta nell’ambito del corso di Globalizzazione e pluralismo culturale.

Una delle risultanze di queste ricerche, che non è possibile qui riassumere nemmeno per grandi linee, è che anche quando si sollevano casi empirici circoscritti e limitati, molto presto il dibattito scivola su meta-temi che finiscono per evocare categorie astratte e globalizzanti, come islam/occidente, islam/cristianesimo, islam/Europa. L’empirico e il sociale, insomma, lasciano il posto molto rapidamente al politico e al culturale, spesso attraverso forme di mediatizzazione e di strumentalizzazione politica che si incaricano precisamente di connettere i due livelli: quello strettamente locale, e quello globale, da cui si prendono in prestito, per così dire, le chiavi di lettura di tipo conflittuale.

La ‘dottrina Obama’

Il paradigma base di queste riflessioni è infatti ordinariamente, esplicitamente o implicitamente, quello del clash of civilizations, attraverso una sorta di ‘huntingtonizzazione’ dei conflitti anche locali. Proprio per questo diventa interessante analizzare i segnali che vanno in direzione opposta: verso l’abbandono del paradigma del clash, che è stato il più formidabile meccanismo legittimante dei conflitti, sia su scala globale che micro e locale. Il più recente, il più importante, il più ‘globale’ e il più esplicito tra questi segnali l’ha dato il presidente americano Obama, con il suo ‘discorso all’islam’ del 4 giugno 2009 dall’Università del Cairo. Vale la pena quindi tentarne un’esegesi, perché i suoi effetti si riverbereranno anche sulla percezione e sull’uso dei conflitti a livello locale e micro.

L’annuncio della svolta c’era già stato nel discorso di Chicago, al momento della sua elezione, e poi nell’intervista ad Al-Arabiya di gennaio, nel discorso della mano tesa all’Iran, e ancora nell’intervento al parlamento turco in aprile.

Con l’intervento del Cairo – il grande discorso da una capitale islamica annunciato entro i primi cento giorni di mandato, e arrivato un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, ma con un grado di consapevolezza inaspettato – la svolta si è compiuta. La ‘dottrina Obama’, come già oggi è lecito chiamarla, viene declinata in tutti i suoi aspetti, in un’ora di discorso densissimo di riferimenti: che, non è un’esagerazione, segnerà le relazioni tra Stati Uniti e mondo islamico, e più in generale tra islam e occidente, negli anni a venire.

Non si tratta solo di una grande offensiva mediatica, volta a cambiare l’immaginario e la simbolica delle relazioni tra Stati Uniti e mondo islamico: che già sarebbe importante. La svolta, anche di stile, rispetto alla precedente amministrazione Bush e più in generale alla politica estera americana, non potrebbe essere più netta: davvero “a new beginning”.

Obama ha capito che non si trattava solo di fare un gesto di buona volontà: una nuova visione dei rapporti con l’islam è anche chiaramente vantaggiosa per gli Usa, tanto quanto la precedente politica è stata controproducente. E Obama non solo lo pensa: questa visione la incarna nel proprio nome e la vive sulla propria pelle, letteralmente. E consapevolmente li gioca in questa chiave.

Le linee guida di questa politica non sono cambiate dalla sua elezione: fine dell’unilateralismo e dell’isolazionismo, apertura di credito al mondo islamico (ferma sui principi, ma attenta ai problemi interni e amichevole nello stile), fine del collateralismo compiacente con Israele. Testimoniato dalle parole ferme sugli insediamenti, che non si sentivano da anni da parte della leadership americana; ma senza nulla concedere al pregiudizio antiebraico così fortemente presente nel mondo islamico.

Vediamone in dettaglio i contenuti.

“Thank you, shukhran, assalamu aleikum”. Comincia così, tra gli applausi e i ringraziamenti, il discorso del ‘new beginning’, in cui la ‘dottrina Obama’ sull’islam è stata per la prima volta compiutamente articolata.

Una visione che si rivolge ad altri attori riconoscendoli come interlocutori, innanzitutto: ed è già un cambiamento significativo rispetto a una politica in passato basata essenzialmente su convenienze ‘di potenza’ solo pudicamente velate, ma non celate, da discorsi di più ampio respiro e da una visione pur esistente, ma essenzialmente autocentrata. Con l’inevitabile dimensione retorica che da una visione ci si aspetta: che, del resto, era fortemente presente anche all’interno del paradigma interpretativo precedente.

A cominciare dalla prima applaudita citazione coranica: “Be conscious of God and speak always the Truth (Sii cosciente di Dio e dì sempre la verità)”. Con assoluta tranquillità applicata da Obama innanzitutto a se stesso, e al suo ruolo, alle vesti assunte al Cairo: che qualcosa di profetico l’avevano effettivamente, e volutamente.

I richiami storici avevano la stessa funzione: di captatio benevolentiae, ma non solo. Dal riconoscimento del ruolo della civilizzazione islamica nell’aprire la strada al Rinascimento europeo, all’aver voluto ricordare che il primo paese ad aver riconosciuto gli Stati Uniti è stato un paese islamico, il Marocco. Dal tributo alla tolleranza islamica medioevale a quello, personale e più ‘americano’, all’eguaglianza razziale nell’islam.

La rivendicazione orgogliosa del mito americano è stata l’altra faccia di questa visione: a cominciare dal fatto che oggi “un uomo che si chiama Barack Hussein Obama sia presidente degli Stati Uniti”. Ma le citazioni sono state anche più dense. Il richiamo alla libertà religiosa, al fatto che non c’è un solo Stato negli Usa dove non ci sia una moschea (e ve ne siano 1200 in totale), alla libertà delle donne musulmane di portare l’hijab garantita dal governo Usa fin nelle corti (due riferimenti che varrebbe la pena di meditare in Europa), fino all’episodio toccante del primo musulmano-americano eletto al Congresso nell’ultima tornata elettorale che ha giurato sul Corano che faceva parte della biblioteca personale di Thomas Jefferson. Corde giuste, per rivolgersi ai musulmani. Che hanno tuttavia mostrato di applaudire anche temi più delicati e problematici: dai riferimenti alla libertà di vestiario e di istruzione delle donne, all’applauso venuto dopo i riferimenti alle vittime della discriminazione religiosa in Bosnia e Darfur.

Sulla questione israelo-palestinese, l’equidistanza, ferma nel difendere i diritti degli uni e degli altri, e altrettanto nel definire l’amicizia con Israele ‘unbreakable’ e quindi fuori discussione, ha dato la linea. Con fermezza, tuttavia, sui punti delicati del riconoscimento reciproco, del no alla violenza, dell’orizzonte dei due stati che possano vivere entrambi in pace e sicurezza.

Nessun tentennamento sulla violenza religiosa. Quella di Al-Qaeda, innanzitutto, di cui ha avuto l’intelligenza di ricordare che le sue prime vittime, non solo sul piano politico ma anche concretamente su quello dei numeri della morte, sono stati i musulmani. Ma più in generale del fanatismo e del fondamentalismo: in quel contesto, proprio per come l’ha costruito, Obama ha potuto permettersi il lusso di stigmatizzare il fatto che “alcuni musulmani hanno la fastidiosa tendenza (disturbing tendency) di misurare la propria fede sulla base del rifiuto di quella altrui”.

“A new beginning”, quindi, quello prospettato. La fine, davvero, del paradigma del “clash of civilizations” – di fabbricazione americana ma di utilizzo globale – che ha dominato l’ultimo quindicennio, e che Obama ha esplicitamente contestato: per il suo essere, chiosiamo, più una profezia che si autorealizza che una constatazione empirica. Un nuovo inizio in cui si dica basta agli stereotipi reciproci: quelli occidentali sull’islam e quelli musulmani sull’America e l’occidente. In cui si metta da parte la paura e la sfiducia costruita per anni. Fino allo slancio finale: profetico, davvero. “E’ più facile iniziare delle guerre che finirle. E’ più facile parlare male degli altri che guardare dentro di sé; guardare quello che ci differenzia rispetto alle cose che abbiamo in comune. C’è una sola regola che sta nel cuore di ogni religione – che facciamo agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi”: che, per lo stupore di molti, è anche una citazione coranica, oltre che biblica, accolta da applausi convinti.

In crescendo, Obama ha anche proposto una parafrasi del suo fortunato slogan, “Yes, we can”: “Abbiamo il potere di costruire il mondo che vogliamo”. Fino alle tre citazioni finali dal Corano, dal Talmud e dalla Bibbia; quest’ultima, forse con qualche accento autobiografico, era “Beati i costruttori di pace…”. Fino al saluto islamico del cristiano ‘laico’ Obama: “Thank you. And may God’s peace be upon you”

Le conseguenze in Europa.

In sintesi, non è stato un gesto di debolezza, questo di Obama: al contrario, è una posizione di forza, che non potrà non piacere ad un mondo arabo che culturalmente ha ancora il mito della nobiltà del gesto e della forza d’animo del capo, anche se lo pratica assai poco, e a cui piace farsi sedurre dal carisma politico del leader.

La definizione della ‘dottrina Obama’ nei confronti dell’islam procede quindi senza incertezze.

C’è solo da auspicare che, come in passato per altre ‘dottrine’, si sostanzi di una politica di lungo termine e, quindi, di atti concreti. I primi segni si sono già visti: la chiusura di Guantanamo è già avviata, il ritiro dall’Iraq pianificato, seppure non così a breve termine come qualcuno si aspettava, l’impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese attivato, e persino un diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran ha cominciato a manifestarsi (l’incognita, semmai, è se sarà raccolto).

Le questioni spinose le ha nominate tutte, e questo è un buon punto di partenza. Quelle spinose per gli Stati Uniti: le reticenze maggiori si sono registrate sull’Iraq, che non ha avuto il coraggio di chiamare almeno un errore, come ha fatto prima di essere presidente, se non una tragedia. E quelle spinose per i musulmani: diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele, democrazia, libertà religiosa, diritti della donna. Ma ha avuto l’intelligenza di rivolgersi, con un doppio livello di intervento, sia ai governi che ai popoli: e almeno con i secondi il successo di Obama appare garantito.

Intanto c’è da registrare almeno che il clima è cambiato. Negli Stati Uniti, nei confronti dei paesi islamici e dei musulmani. E, prima ancora, nei confronti delle opinioni divergenti, dato che, dal Dipartimento di Stato alle università (dove per un certo periodo ha dominato un’isterica caccia alle streghe, non troppo diversa da quella maccartista, fatta anch’essa di liste di proscrizione dei docenti scomodi, di siti di denuncia e diffamazione come ‘campus watch’, di finanziamenti pilotati ai soli amici fidati), non dominano più i falchi dell’islamofobia occidentalista che avevano reso irrespirabile l’aria culturale su questi temi negli anni di Bush. Ma soprattutto tra i musulmani: l’applauso da popstar che ha concluso il suo discorso, seppure tributato da un pubblico particolare, lo sancisce.

Intanto, c’è da domandarsi se anche l’Europa sarà capace di farsi sentire. Qui gli Obama – capaci di vantare come un onore il fatto che vi siano oltre 1200 moschee negli Stati Uniti, e il fatto che il governo abbia difeso persino in tribunale il diritto delle ragazze musulmane di portare l’hijab – scarseggiano. E anche alle elezioni europee del giugno 2009 hanno guadagnato altro terreno gli imprenditori politici dell’islamofobia: dall’Olanda all’Ungheria, dalla Gran Bretagna all’Italia. C’è, dunque, materiale di riflessione anche per noi. In Italia, in particolare.

Stefano Allievi

“Il Bo”, n.2, dicembre 2009, pp. 2-6

Il morire tra ragione e fede (intervento)

Il morire tra ragione e fede (intervento)

STEFANO ALLIEVI: Due domande: una per Scola e una per Severino.

Viviamo in una società in cui la morte è ancora, fortemente, un tabù: l’ultimo, probabilmente, anche se meno che nei rampanti decenni passati.

Una civiltà votata all’estetica e al giovanilismo, ha relegato a lungo la morte alla stregua della pornografia, dell’osceno: tanto che si evita che i bambini abbiano commercio con essa, vedano i morti e ne parlino.

La società tutta, ipocritamente, evita di nominare e la morte e il cadavere, con una lunga serie di eufemismi, spesso anche ridicoli.

La convenzione sociale vuole che non se ne parli, che non la si nomini nemmeno, che venga almeno avvolta nella cortina fumogena di irritanti metafore (dal greco metá e phérein, lett. ‘portare oltre’), che anziché dire meglio e in altro modo, semplicemente nascondono la realtà, illudendosi in questo modo di cancellarla, di negarla. Una prassi, questa della negazione – della malattia, oltre che della morte -, che è di tutta la società; e che si traduce in una preoccupazione particolarmente visibile nel linguaggio usato per cercare di non dirla, di non nominarla: dalla comunicazione giornalistica (nessuno muore mai di cancro, ma sempre ‘dopo lunga malattia’) ai tecnicismi del gergo medico-ospedaliero, fino alla ipocrita delicatezza del linguaggio quotidiano (nessuno è mai morto: al massimo, è ‘mancato’, quasi si fosse perso…) e al linguaggio pudico della pubblicità delle agenzie di pompe funebri (per le quali la morte è diventata un insapore ‘transito’ o un ‘decesso’, i parenti ‘dolenti’, la tomba una sepoltura, il funerale le esequie, la bara il feretro, il corpo ormai cadavere la salma, le spoglie o, peggio, i resti, ecc.).

Eppure, vi sono dei momenti di resipiscenza, di sussulto, di emersione e persino di esplosione della morte. In alcune subculture (dark, metal, punk, ma anche fumetti popolari come Dylan Dog, i programmi tipo Real tv…). O la morte degli olympiens, dei divi. O nelle notizie da telegiornale, dove spesso si è “sostituito lo spettacolo al rito”, come ha scritto l’antropologo Louis-Vincent Thomas.

Uno di questi momenti, il più significativo, è precisamente il dibattito bioetico sul fine vita. E’ singolare notare che una società analgesica, abituata ad evitare accuratamente il dolore e la morte, sia poi capace di discussioni piene di furore ideologico, più di schieramento che di contenuto, su ciò che alla morte ci avvicina, su ciò che la morte è, sui confini della vita.

Discussioni intense, come abbiamo visto intorno al caso Englaro, viscerali: che fanno emergere partiti contrapposti l’un contro l’altro armati. E che dividono, a stare ai sondaggi, gli stessi uomini e donne che sono presunti appartenere ad essi: come è emerso con chiarezza, quasi la metà dei cattolici non si sentiva rappresentato dalle posizioni, spesso terribilmente prive di pietas, di alcuni suoi pastori, o del giornale della Cei. E i laici hanno mostrato di essere a loro volta divisi, sia nel centro-destra che nel centro-sinistra. Segno, probabilmente, di una maturità maggiore rispetto ai loro rappresentanti, così accecati dalle certezze.

La domanda, a questo proposito, è la seguente. La pronunciamo attraverso una citazione di Junger, che si riferiva al suicidio, ma che ben si può applicare ad alcune pratiche medicalizzate. Diceva Junger che “il suicidio è un indizio del fatto che esistono cose peggiori della morte”. La volontà di morire di alcuni (pensiamo al caso Welby, che tanto ha colpito il mondo anche credente, ancora una volta anche per la singolare mancanza di pietas di taluni solerti pastori), la determinazione dei parenti senzienti di altri (e qui torniamo al caso Englaro, che ha segnato un turning point, un punto di non ritorno, una svolta irrimediabile, nel corso della quale troppe soglie sono state oltrepassate), ci dice la stessa cosa.

Siamo pronti ad ammettere che, anche per la coscienza credente, sia possibile ipotizzare che ci possono essere cose peggiori della morte? Tanto più per il credente che, dopo tutto, della morte non dovrebbe avere poi così paura?

Dobbiamo invece all’etica laica e alla medicina occidentale l’aver dimenticato l’umanità del morente. Non a caso, quando non c’è più niente da fare, spesso il medico sparisce, lasciando il lavoro sporco agli infermieri e alle infermiere. Per il medico “La morte è un giallo in cui bisogna trovare il colpevole”. Ma al malato spesso interessa più il ‘senso’ della sua morte che la sua ‘causa’, più o meno oggettiva od oggettivabile.

La morte ‘ospedalizzata’ diventa anche morte spersonalizzata, perché l’istituzione ospedaliera “si fa carico non dell’individuo, ma del suo male” (M. de Certeau). Come già notava Rilke, nei suoi Quaderni di Malte Laurids Brigge, “ora si muore in 559 letti. In serie, naturalmente. Con una produzione così enorme ogni singola morte non è proprio ben eseguita, ma non importa (…) Oggi chi dà ancora valore a una morte ben fatta?”. Del resto si tratta di un problema più generale legato all’istituzione ospedaliera. Come ha notato Elizabeth Kübler-Ross, il sovraccarico di lavoro burocratico e tecnico rischia di far sì che, anche per il personale infermieristico, “in questo sistema sempre più elaborato, il malato può diventare meno importante dei suoi elettroliti”.

La funzione della malattia è oggi di nascondere la morte” (Jean-Didier Urbain), di tacerla o di travestirla. Concentrato sulla malattia, su come combatterla, il medico distoglie lo sguardo dal suo esito, nel lungo termine, inevitabile, perché è l’esito di ogni vita. Dopo tutto, per il medico esso è quasi sempre vissuto come uno scacco professionale, una sconfitta: la medicina contemporanea si concepisce come una titanica battaglia, spesso vincente, contro la morte – non riesce ad accettare, quindi, di perdere.

Un atteggiamento, questo, che ha finito per instillare nel grande pubblico e nel suo immaginario l’idea che la morte sia un’anomalia, la conseguenza di un malfunzionamento, al limite di un errore; e che ha finito per ritorcersi contro la stessa classe medica, oggi più che in passato confrontata con il moltiplicarsi di cause giudiziarie, per inadempienza, per errore diagnostico colposo o altro.

Un atteggiamento, inoltre, che non è estraneo alla frequente tendenza del medico ad essere presente e attivo nelle fasi di ‘lotta’, e ad eclissarsi nel momento in cui, come si dice, “non c’è più niente da fare”, e il malato, ormai morente, deve solo, per l’appunto, morire – lasciando la responsabilità di seguire questa fase cruciale al personale paramedico, al personale religioso, ai volontari, ai familiari, o, peggio, a nessuno. Un osservatore direttamente implicato, un medico, già anni fa sottolineava del resto il paradosso per cui “una delle cose più difficili della nostra arte medica è di occuparci di quelli che non hanno più bisogno di cure”.

E sarà capace invece la coscienza laica e non credente di rispettare la vita morente come è stata capace di farlo quella credente? (Penso, ad esempio, alle suore che per tanti anni hanno assistito Eluana, praticando la nobile virtù del silenzio sia prima che poi…) Diventerà capace di imparare che la vita non è soltanto “l’insieme delle funzioni che resistono alla morte”? di intraprendere una battaglia per la de-medicalizzazione e de-ospedalizzazione – e quindi de-disumanizzazione – della morte, così come si comincia a fare anche per la nascita? Capire che la qualità della morte è una parte fondamentale del recupero della qualità della vita, tendenza oggi così presente nella società?

Stefano Allievi

“Humanitas”, n.6, novembre-dicembre 2009, pp. 884-887

In Europa poche moschee? Falso, ecco tutti i numeri

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IlGiornale1

Allievi S. (2009), In Europa poche moschee? Falso, ecco tutti i numeri, in “Il Giornale”, 1 dicembre 2009, p.8, articolo di Fausto Biloslavo

En Europe, seules les mosquées suscitent des conflits

http://www.la-croix.com/Religion/S-informer/Actualite/Stefano-Allievi-En-Europe-seules-les-mosquees-suscitent-des-conflits-_NG_-2009-11-29-569506
Stefano Allievi : « En Europe, seules les mosquées suscitent des conflits »
Le sociologue italien Stefano Allievi a, professeur à l’université de Padoue, a supervisé une enquête, encore inédite, sur les constructions de mosquées en Europe et les oppositions que cela provoque
La Croix : La votation en Suisse, ce dimanche, visant à interdire les minarets est-elle un cas unique en Europe ?
Stefano Allievi : Non, c’est une idée qui vient de l’Autriche, où l’interdiction est déjà entrée en vigueur dans deux régions (Carinthie et Vorarlberg). Dans ce pays, comme pour les promoteurs du référendum suisse, l’interdiction de minarets repose sur des arguments de type urbanistique. Cela permet, sur un plan législatif, de ne pas s’attaquer directement aux libertés publiques.
Mais en réalité, l’argument urbanistique masque le véritable enjeu, de nature culturelle ou religieuse : on ne rencontre pas les mêmes réserves à l’encontre d’une tour de centre commercial ou un multiplex de cinéma ! L’interdiction des minarets va bien, selon moi, contre le respect de liberté religieuse.
Vous venez justement de rendre une étude européenne sur la construction des mosquées en Europe. Comment se comporte notre continent ?
Le premier résultat intéressant, et auquel à vrai dire je ne m’attendais pas, c’est que, d’un point de vue statistique, il n’y a pas de problème de liberté religieuse en Europe pour les musulmans. En effet, nous avons recensé toutes les salles de prières et mosquées. Sur une population de 18 millions de musulmans pour toute l’Europe, le nombre de lieux de prière est satisfaisant, avec une salle pour 2 000 musulmans. Mais qualitativement, de nombreuses salles de prière restent non satisfaisantes.
L’affaire suisse révèle qu’il y a encore beaucoup d’obstacles pour ces lieux de culte. Cette hostilité est-elle générale à l’Europe ?
Les constructions de mosquées continuent de susciter beaucoup de conflits. Il est à noter qu’aucun autre lieu de culte, temple sikh, lieux de culte pentecôtiste, ne provoque ces oppositions. Sur les trente dernières années, seul l’islam rencontre ce problème. Nous avons examiné les arguments opposés aux constructions, il ne s’agit que rarement de points précis tenant aux modalités du lieu, au voisinage (problèmes de parkings, d’affluence), mais plutôt des arguments généraux, c’est-à-dire idéologiques.
Y a-t-il des différences entre pays ?
Non, cela dépend des régions. En France, par exemple, toutes les situations coexistent : parfois, le projet de mosquée bénéficie d’un degré d’implication des pouvoirs publics (nationaux ou locaux) qui n’est pas imaginable dans les autres pays, pourtant moins à cheval sur la laïcité. Mais on peut rencontrer aussi des situations conflictuelles dures.
De même, aux Pays Bas, il est difficile de voir aboutir un projet de mosquée à Utrecht, mais non à Rotterdam. Cependant, d’une manière plus générale, les conflits sont moins importants dans les pays où les musulmans sont représentés dans des institutions, comme la Grande-Bretagne et la France.
Comment naissent les conflits autour de mosquées ?
Au plan local, pour un projet urbanistique, le conflit permet d’exprimer des intérêts divergents. Mais si l’on examine les situations de plus près, on s’aperçoit que ces conflits dérivent lorsque ce que j’appelle des « entrepreneurs politiques de l’islamophobie » s’en mêlent, car ils n’ont aucun intérêt à résoudre le conflit, qui connaît alors une évolution pathologique. D’autant plus qu’ils sont rapidement court-circuités par les médias, qui s’en emparent – l’islam se vend bien ! – et le hissent au niveau national.
Quel est le mauvais élève ?
L’Italie, le pays où l’on trouve le moins de mosquées. Sans doute parce que, sur la péninsule, ces « entrepreneurs politiques de l’islamophobie » contrôlent le ministère de l’intérieur : la Ligue du Nord a toujours considéré l’islam comme dangereux, et dans les régions où elle domine, Vénétie, Lombardie, les constructions de mosquées sont quasi impossibles.
Qui finance les mosquées européennes ?
Pour la majeure partie, les immigrés eux-mêmes par leurs contributions. Les grands centres islamiques sont financés par l’Arabie saoudite, par l’intermédiaire de la Ligue islamique. Cela soulève la question de la réciprocité, car il est impossible de construire des églises dans ce pays.
Recueilli par Isabelle de GAULMYN
Allievi S. (2009), « En Europe, seules les mosquées suscitent des conflits », in “La Croix”, 29 novembre 2009, intervista di Isabelle de Gaulmyn

L’invasione delle moschee

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Allievi S. (2009), L’invasione delle moschee, in “Panorama”, n. 48, 26 novembre 2009, pp. 72-74, articolo di Franca Roiatti