Classe politica da rottamare

Le procedure per la formazione delle candidature alle amministrative ci pongono di fronte a un antico dilemma: meglio l’esperienza o l’innovazione? All’interno di quale progetto di città?

La tendenza di tutte le burocrazie, di cui il ceto politico è parte, è quella all’autoriproduzione. Con i danni connessi. Non a caso il ricambio è evocato spesso come una soluzione di per sé: anche se non sempre lo è, o non basta. Se non c’è un progetto, soprattutto.

Il caso padovano mostra bene questo dilemma. Da nessuna delle due parti – ma nemmeno al di fuori del mondo politico, a onor del vero – si vedono le tracce di un progetto alto e innovatore di città. Occorre quindi un sapiente mix. E’ bene che ci siano dei leader di esperienza. Ma è bene che ci siano spazi per il cambiamento e la sperimentazione: dove la futura leadership possa imparare il mestiere e prepararsi a scalzare la precedente.

Il leader della coalizione di maggioranza, che si ripresenta per la riconferma, non è certo di primo pelo. Può giocare la carta del governo, della continuità e dell’esperienza, appunto: l’avere un’idea della città. Non però quella dell’innovazione, del progetto alternativo. Il solo modo per dare un segnale di cambiamento è quello di costruire intorno a sé una squadra che rinnovata e ringiovanita lo sia, e alla radice. Pena pagare lo scotto – se non questa volta, la prossima; se non con questo leader, con il prossimo – di dare un’idea di continuismo, di regime.

Per quanto riguarda l’opposizione, siamo ancora in attesa, ma il dilemma è analogo, magari a ruoli invertiti: leader innovativo o volto vecchio della politica? E la squadra? Anche se per ora la mancanza stessa di un leader, atteso da decisioni altrui e non locali, e all’ultimo minuto, la dice lunga, a monte, sull’esistenza stessa di un progetto, di un’idea della città.

Come si attua il ricambio? Attuandolo, semplicemente. Quanti nomi nuovi ci saranno, in lista? Quante donne in più? Quanti giovani in più? Quanti nuovi attori che provengono da aree di impegno in cui hanno operato bene? E, soprattutto, quante persone con almeno due mandati alle spalle in meno? Sarà facile, a questo punto, calcolare il tasso di ricambio.

In questo processo è fondamentale la capacità di proposta e di controllo della società civile. Esprimendo nomi nuovi e all’altezza. E usando l’arma della preferenza per premiarli. Un tasso adeguato di rinnovamento fa paura soprattutto a chi sarebbe parte di ciò che si cambia. Bisogna avere il coraggio di dirlo. E di premiare il cambiamento, anziché la sua paura. Perché è un indicatore di qualità di per sé importante. Il rinnovamento della classe dirigente, affinché sia all’altezza delle sfide del futuro, e non solo di quelle del passato, è un interesse collettivo, pubblico.

Si comincia a capire che ciò che è usurato spesso consuma troppo, inquina, implode… Si rottamano auto, elettrodomestici, case, trattori. Perché non pensare che forse è un valore aggiunto anche in politica? Perché non rottamare quelli che ci sono già stati a lungo senza troppo brillare? Due mandati sono poi così pochi? Dieci anni: spesso più della durata di molti matrimoni… Non è abbastanza per un’esperienza politica? Perché non immaginare un premio all’innovazione? Un rimborso elettorale basato sul ricambio? Un contributo di rottamazione? Anche quando la direzione è giusta, può essere utile cambiare una parte della squadra di comando. Per intraprendere strade prima non immaginate o non prese in considerazione. Per riuscire a vedere il nuovo che avanza e non si è abituati a vedere.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 22 aprile 2009, p. 1-13

Europa snobbata dall’Italia

Manca poco ormai alla presentazione ufficiale delle candidature per le elezioni europee, e possiamo già trarre qualche non edificante lezione.

Due i problemi. I candidati paracadutati dall’alto, non espressione del territorio. E la loro incompetenza specifica.

Ancora una volta, in entrambi gli schieramenti, nonostante le promesse in senso contrario, si indicano capilista e candidati che non sono né designati dai partiti locali (ma qualcuno si ricorda delle primarie?) né conosciuti localmente e quindi non rappresentativi.

Ma il secondo problema è ancora più grave. Si continua ad usare il parlamento europeo come una discarica. Con falsi candidati: lo specchietto per le allodole di Berlusconi, già usato anche in Sardegna (una vera e propria frode elettorale di cui sarebbe arduo trovare paralleli nei paesi evoluti), che servirà poi per far passare fedeli e portaborse graditi al capo (ma lo stesso faranno Di Pietro, Casini, Bossi e tutti quelli di cui si sa già che opteranno per rimanere in Italia, sindaci democratici o leghisti inclusi, defraudando gli elettori della possibilità di una scelta reale). Con politici in prepensionamento o impopolari in loco, come nel caso di Cofferati. Con la solita girandola di mezzibusti, nani e ballerine.

Non un partito che ci dica che idea di Europa ha, come la vuole trasformare; non un candidato che ci dica che cosa ci andrà a fare lui, in Europa.

Si è tanto discusso di dove andare a collocarsi, in quale gruppo politico entrare (il Pd ha vissuto un dibattito molto politichese, tutto etichette e zero contenuto, su questo; il Pdl ha meno problemi, essendo uso obbedir tacendo), e neanche un po’ sul perché, per fare cosa.

Il problema è che l’Europa è cruciale. Gran parte della nostra legislazione (pensiamo a temi come l’economia, ancora di più l’ambiente, e per altri versi i diritti e le garanzie) è influenzata quando non decisa da quella europea. E noi viviamo il paradosso di essere uno dei paesi più euroentusiasti, almeno a parole (lo dicono i sondaggi Eurostat e i tassi di partecipazione alle elezioni europee, nonché le approvazioni plebiscitarie in parlamento dei trattati di adesione che altrove venivano bocciati dall’elettorato), e uno di quelli più sanzionati per mancata applicazione delle direttive comunitarie, e penalizzati dall’incapacità di usarne i fondi e le risorse (dai fondi strutturali agli innumerevoli progetti di cooperazione).

Occorrono candidati competenti, che conoscano l’Europa e il proprio territorio, per metterli in sinergia, come fanno altri paesi. La sfida dell’internazionalizzazione si gioca, e molto, a Bruxelles. E servono persone che ci lavoreranno davvero, per poter incidere sulla legislazione europea anziché limitarsi a subirla, non candidati di bandiera che prenderanno lo stipendio per poi occuparsi delle proprie carriere in Italia. La concorrenza, anche a livello europeo, è ormai brutale. Sarebbe ora di occuparsene. E presentarsi, per una volta, come classe dirigente anziché come casta.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 18 aprile 2009, p. 1-5

Obama and Islam – Arabic

وباما والإسلام

كانت المقابلة التي اجراها الرئيس أوباما على قناة العربية بمثابة استشراف لرياح جديد: انها علامة التغيير والتحول السياسي، وهو ما لم نكن مستعدين لتوقعه من قبل الولايات المتحدة. التحول الثقافي لا يمكن ان يكون اكثر وضوحاً. انه يحتمل وضوحاً رمزياً للقضايا: أوباما اختار شبكة عربية لإجراء اول مقابلة دولية له، مدركاً ان التأثير سوف يكون عالمياً. لقد كان شيئاً جديداً حتى في جانبه اللغوي: “نحن بصدد استخدام لغة الاحتراملهو امر لم يعتد العرب والمسلمون على سماعه من جانب الولايات المتحدة.

ستيفانو ألييفي هو استاذ في علم الاجتماع في جامعة بادوفا. وقد ألّف كتباً عديدة عن الاسلام، كان آخرها فخ الاوهام: الاسلام والغرب” (منتدى إيديتسزونيه Edizioni) في عام 2007. قد لا تكون عبارة كندي Ich bin ein Berliner، لكنها يمكن ان يكون لها العواقب السياسية نفسها. وقد لا نجدها في أوروبا، لكن للعالم العربي والإسلامي المتعب والممتعض، المنزعج من تاريخ طويل من الإذلال والهزائم التي عززتها الآن الحرب في غزة، كانت المقابلة التي اجراها الرئيس أوباما على العربية بمثابة استشراف لرياح جديد: انها علامة التغيير والتحول السياسي، وهو ما لم نكن مستعدين لنتوقعه من قبل الولايات المتحدة. ان تحدي اوباما هو اكبر مما كان عليه تحدي كندي: فكندي كان يخاطب اوروبا، لا سيما المانيا المنهزمة والمتضررة، بانتظار كلمة المسيح وكذلك بالنسبة للمواد الاساسية للمساعدة والتي كان الاميركيون يقدمونها بالفعل. اما اوباما، وبدلا من ذلك، يتحدث الى عالم عربي اقل واقل تأييداً للولايات المتحدة الاميركية، واكثر انتقاداً، حيث برز الاستياء القديم العارم وانفجر اثناء عهد بوش، وهو عمل على تغذية مشاعر هذا الاستياء ولم يفهم حقيقةً الاسلام. كلام اوباما ينبئ بتحول طفيف: سنرى الى اين سوف تؤدي هذه الكلمات. عندما ذكر الرئيس ان الشعب سوف يحاكمني لا على كلماتي بل افعالي وافعال ادارتي، كان يبلغ بوضوح ان هناك بالفعل خطة عمل في البيت الابيض.
وربما ستعرض الخطة في الخطاب الذي طال انتظاره والذي سوف يكون من عاصمة اسلامية، خلال أول مئة يوم من ولايته. نحن اذاً ندرك بالفعل السياسة الجديدة: نهاية الأحادية التي تجاوزت الحدود (كما، وهو ما يهم العالم الاسلامي، السياسة المؤيدة بشكل صارخ لاسرائيل)، واغلاق غوانتانامو، وسحب قوات الجيش من العراق، والالتزام الجاد من أجل حلّ الصراع الفلسطيني الإسرائيلي، وحتى اسلوب مختلف تجاه ايران، وفقا للخطة التي تتطلع إلى التعامل مع الأعداء، بدلا من شيطنتهم. وقد أكد أوباما أن إسرائيل ستبقى حليفا قويا للولاي
ات
المتحدة، اذ ان العكس قد يثير الدهشة
. لكن أوباما تحدث عن حليف قويوليس حليف وثيق“. انه لم يتحدث عن الحصن الغربي في الشرق الأوسط، كما نجد في اللغة المستخدمة في خطابات السنوات الماضية. وفي غضون ذلك، وزير الدفاع الاسرائيلي باراك علق زيارته الى الولايات المتحدة. هذا يمكن اعتباره نقطة فاصلة لتحضير الفكر حول التغيير في موقف الادارة الاميركية. بالتأكيد ان هذا هو الاصح وليس مقتل جندي إسرائيلي جراء هجوم من حماس كما أعطي التبرير.
التحول الثقافي لا يمكن أن يكون أكثر وضوحاً. انه يحتمل وضوحاً رمزياً للقضايا: أوباما اختار شبكة عربية لإجراء اول مقابلة دولية له، مدركاً ان التأثير سوف يكون عالمياً. لقد كان شيئاً جديداً حتى في جانبه اللغوي: “نحن بصدد استخدام لغة الاحتراملهو امر لم يعتد العرب والمسلمون على سماعه من جانب الولايات المتحدة. اما فيما يتعلق بعلاقته مع العرب والمسلمين، أوباما حدد نفسه ضمن: “الاستماع والاحترام“. ولقد اصر على ذلك: “نحن على استعداد لبدء شراكة جديدة، تقوم على الاحترام المتبادل والمصالح“. “ابدأ بالاستماع بدلا من أن تبدأ بالاملاءهي واحدة من أكثر الجمل قوةً والتزاماً في المقابلة، وتكاد تكون لا تصدق بالنسبة للعرب. هنا، لا بد ان يكون لخلفية أوباما دوراً في ذلك. لقد ذكرها في المقابلة واستخدمها كوسيلة لاستقطاب التعاطف. ان جوهر الرسالة موجه الى جمهور ناخبيه ويقوم على أساس التزام مزدوج: ايصال رسالة الى المسلمين ان الاميركيين ليسوا باعداء لكم. احياناً نحن نرتكب اخطاء. ولم نكن كاملين، والى الاميركيين انالعالم الاسلامي مليء باناسٍ استثنائيين يريدون فقط أن يعيشوا حياتهم ويشهدوا أطفالهم يعيشون حياة أفضل، وهو حتماً ما يرودونه هم ايضاً. نحن ابعد ما نكون بنحو الف سنة عن خطاب محور الشر“.
كيف كان رد فعل العرب؟ البعض بكى (وكأن الحجاب انهار اخيراً، اكثر منه بسبب السعادة)، وأعرب البعض عن الحماسة، والبعض الاخر ابدى مفاجأة خجولة. والبعض معظمهم ينتظر بحذر. ولكن هناك أيضا بعض الممتعضين او الذين يتهمون الرئيس بانه منافق. والجدير بالذكر انه ليست عرضياً ان يكون حتى على شبكة تلفزيون من الاعلى كفاءة والاعتدال التي استضافت المقابلة، ان حوالي 15% من ردود الفعل كانت سلبية. وهناك حتى بعض ردود الفعل التي رددت اصداء اللغة العنصرية التي استخدمها الرجل
الثاني في القاعدة الظواهري، والذي كان وبعيد انتخاب أوباما نعته بـ
عبد البيت“. كما وان هناك البعض الذي انتقد أوباما لكونه غير مسلم كأبيه (حتى ولو ان ذلك لم يكن ليساعد المسلمين بشيء لانه لو كان أوباما مسلماً لما وصل الى سدّة الرئاسة في الولايات المتحدة). حتى ان حماس اختارت نبرة عفا عليها الزمن للتعليق على مقابلة أوباما: “بالنسبة الى حماس، لا فرق بين بوش وأوباماكما اعلن الناطق باسم الحركة أسامة حمدان من بيروت لقناة الجزيرة. “وهذا من شأنه أن يؤدي إلى جعله يرتكب نفس أخطاء بوش، والتي وضعت المنطقة في اتون النار بدلا من تثبيت استقرارها“. أوباما يتجه إلى أربع سنوات اخرى من الفشل في الشرق الأوسط“.
على الرغم من ذلك، في المجتمع المدني في العديد من البلدان الإسلامية، وبخاصة العربية منها، اثارت المقابلة الاهتمام والتعاطف، والتي اعادت التأكيد بالفعل على خطاب اوباما التاريخي يوم انتخابه، والذي بدى فيه وكأنه ينظر نظرة ازدراء وريبة تجاه الزعماء المستبدين، او تجاه الحلفاء الغربيين ذوي الديمقراطية المزيفة، وهم يميلون الى المحافطة على السلطة حتى انتهاءهم تقريبا وحيث خلافتهم تؤدي الى ازمة دراماتيكية ومثيرة: “نحن نبحث عن سبل جديدة لمنطقة الشرق الاوسط، ترتكز على اساس الاحترام المتبادل والمصالح. لهؤلاء القادة الذين اشعلوا الصراع ونسبوا الاضرار في
مجتمعاتهم الى الدول الغربية
: سيتم الحكم عليكم على ما بنيتم، وليس على ما دمرتم. وللذين يصلون الى السلطة بطريق الفساد والخيانة وارهاب المعارضين، اريد ان انبهكم انكم على الجانب الخطأ من التاريخ، لكن سوف تجدون يداً ممتدة من جهتنا، فيما لو كنتم على استعداد لمدّ يدكم اولاً“. لكن ماذا تقول أوروبا؟ الجرح الفلسطيني ما زال ينزف في الفرع الاوروبي للأمة الإسلامية. الكلمات لن تكون كافية. ولكن رياح الأمل تهب. حتى لو كان المسلمون، وبخاصة العرب منهم، اعتادوا على رؤية الفشل في التغيير الجذري في النوايا المعلنة من قبل قادتهم الجدد (كما رأينا بالفعل في الجزائر والمغرب والاردن وسوريا)، والتي عادة ما لا تحترم. ان الامل هو فضيلة لدى المسلمين، وكما نعلم، هي الشيء الاخير الذي يمكن التخلي عنه. واذا ما نظرنا اليه من الوجهة النظر الايطاليا، فهو يتخذ ظلالا اخرى: ان الامل يبقى، في ايامنا هذه، وهو البعيد جدّ البعد ان يتحول الى حقيقة، يبقى في ان شيئاً ما سيتغير ايضا في الوطن. الامل ان العداء الاعمى للمسلمين في عهد بوش، والذي ترجم في الايطالية على انه ثقافة المغالطة Fallacism المتفشية حتى في احلك اوقات المواجهة من جانب المسؤولين السياسيين، سوف تؤول الى تعابير اكثر ملموسة ومدنية. لكن هذا يبدو انه ما زال بعيد المنال، أوباما لا ينتمي الى ايطاليا حتى الان، وان رياح التغيير التي يحمل تبدو غير مدركة بعد.
ان تأثيره الثقافي، في هذا الجزء من العالم، لم تتضح رؤيته، حتى الان. ترجمة كلوديا دوراستانتي
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فبراير 2009

Obama e l’islam

obama

Per il mondo arabo e islamico, l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato ad al-Arabiya è più che una boccata d’ossigeno: è il segnale di cambiamento e di svolta politica più ampio che ci si potesse aspettare dagli Stati Uniti d’America. La svolta culturale non potrebbe essere più netta. Intanto, sul piano simbolico: per il fatto di aver scelto un network televisivo arabo per la sua prima intervista internazionale, il cui impatto si sapeva sarebbe stato globale. Ma anche sul piano lessicale. Che “il linguaggio che dobbiamo usare è il linguaggio del rispetto” non è qualcosa che arabi e musulmani siano abituati a sentirsi dire, dagli Stati Uniti.

Stefano Allievi insegna sociologia all’Università di Padova ed è autore di diversi libri sull’Islam, tra cui “Le trappole dell’immaginario: Islam e Occidente” (Forum Edizioni 2007).
Non è l’Ich bin ein Berliner! kennedyano, ma nelle sue conseguenze politiche potrebbe assomigliarci. Dall’Europa infatti non ce ne accorgiamo, ma per un mondo arabo e un mondo islamico stanchi, disillusi ed esasperati da una lunga storia di umiliazioni e sconfitte culminata in questi giorni a Gaza, l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato ad al-Arabiya è più che una boccata d’ossigeno: è il segnale di cambiamento e di svolta politica più ampio che ci si potesse aspettare dagli Stati Uniti d’America. Il compito inoltre era più difficile: se Kennedy infatti parlava a un’Europa, e in particolare a una Germania, prima colpite e sconfitte ma allora alleate e in attesa quasi messianica del verbo e del concretissimo aiuto americano, che già si era ampiamente manifestato, Obama ha parlato invece a un mondo islamico sempre meno filoamericano, sempre più critico, in cui serpeggiano rancori sempre meno sopiti, esplosi nell’era di Bush (che dell’islam non ha capito nulla) e dalle sue politiche alimentati.
Le parole prefigurano una svolta quasi a centottanta gradi: le azioni, lo vedremo. Ma già il fatto che Obama chieda di essere giudicato “non dalle mie parole ma dalle mie azioni, e dalle azioni della mia amministrazione” è l’indicazione che un piano d’azione c’è già, e probabilmente sarà illustrato in dettaglio nel già attesissimo discorso da una capitale islamica, preannunciato entro i primi cento giorni di mandato. Le linee guida tuttavia le conosciamo già: fine dell’unilateralismo arrogante (e, per quel che riguarda il mondo islamico, ostentatamente pro-israeliano), chiusura di Guantanamo, ritiro dall’Iraq, impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, persino un diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran, nel quadro di una politica che programmaticamente prevede anche di parlare con i propri nemici, anziché limitarsi a demonizzarli. Certo, è stato ribadito che Israele resta un alleato di riferimento, e sarebbe stato sorprendente il contrario: ma, anche qui, Obama ha parlato di “forte alleato”, non del più stretto alleato, o del baluardo dell’Occidente in Medio Oriente, come ripetuto in una retorica di anni. E probabilmente l’annullamento del viaggio del ministro israeliano Barak negli Stati Uniti ha più a che fare con una riflessione e un bisogno di prepararsi su questo punto, che non con il soldato ucciso da Hamas in un attentato, negli stessi giorni, usato come giustificazione ufficiale.
La svolta culturale non potrebbe essere più netta. Intanto, sul piano simbolico: per il fatto di aver scelto un network televisivo arabo per la sua prima intervista internazionale, il cui impatto si sapeva sarebbe stato globale. Ma anche sul piano lessicale. Che “il linguaggio che dobbiamo usare è il linguaggio del rispetto” non è qualcosa che arabi e musulmani siano abituati a sentirsi dire, dagli Stati Uniti. Obama stesso si è definito così, nel suo rapporto con arabi e musulmani: “listening, respectful”. Parola riecheggiata insistentemente: “Siamo pronti a iniziare una nuova partnership, basata sul mutuo rispetto e sul mutuo interesse”. “Start by listening instead of start by dictate” è una frase più forte e politicamente più impegnativa, per l’orecchio arabo quasi inverosimile, della sua traduzione italiana. C’entra certamente la sua storia personale e familiare, che nell’intervista Obama ha voluto rievocare e mostra di usare sapientemente anche come mezzo per suscitare empatia. Ma il centro del messaggio riguarda anche chi l’ha eletto, basato com’è su un duplice impegno: dire ai musulmani che “l’America non è il vostro nemico. Qualche volta facciamo degli errori, non siamo così perfetti…”. Ma anche dire agli americani che il mondo islamico è fatto soprattutto di gente normale, che “vuole vivere la sua vita e che i propri figli abbiano una vita migliore”, né più né meno degli americani stessi: lontano anni luce dalla retorica dell’asse del male.
Gli arabi come l’hanno vissuta? C’è chi ha pianto (come per un velo che finalmente cade, più che di gioia vera e propria), chi ha espresso entusiasmo, chi cauta apertura, chi – moltissimi – attendismo. Ma c’è anche chi mostra disincanto o accusa apertamente di doppiogiochismo il presidente americano. Non è un caso che persino sulla pur ufficialissima e moderata emittente televisiva che ha ospitato l’intervista, un buon 15% delle reazioni sia stata negativa. In qualche caso riecheggiando il linguaggio intriso di razzismo, anch’esso tipico di una certa eredità araba, usato dal numero due di al Qaeda, al Zawahiri, in un messaggio pronunciato poco dopo l’elezione di Obama, che lo chiamava “servo negro” (“house slave” traducevano i sottotitoli in inglese dall’arabo “abid al-bayt”). Non sono pochi, del resto, coloro che rimproverano il neo-presidente americano di non essere musulmano come il padre (anche se alla causa islamica ciò non avrebbe reso miglior servizio, dato che non sarebbe mai diventato presidente…).
Anche Hamas ha scelto espressioni fuori dal tempo massimo della storia, per commentare l’intervista: “Per Hamas tra Barack Obama e George W. Bush non c’è alcuna differenza”, ha dichiarato un portavoce del movimento da Beirut, Osama Hamdan, ad al Jazeera. E questo “lo porterà a commettere gli stessi errori di Bush, che ha infiammato la regione invece di portare stabilità”, destinando Obama “ad altri quattro anni di fallimenti in Medio Oriente”. Nella società civile di molti paesi islamici, e arabi in particolare, tuttavia, l’intervista ha senza dubbio suscitato interesse e simpatia, confermando le parole pronunciate da Obama nel suo ormai storico discorso di insediamento, che potevano suonare come una sconfessione del sostegno a leader autocratici, o fintamente democratici, alleati dell’Occidente, alla cui successione, dopo un attaccamento al potere portato al limite della sopravvivenza fisica, si apriranno crisi e rivolgimenti drammatici: “Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull’Occidente i mali delle loro società – sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno”.
E dall’Europa? La ferita palestinese sanguina anche nel corpo europeo della umma islamica. E quindi anche qui non basteranno le parole a rimarginarla. Ma la speranza è palpabile. Anche se i musulmani, soprattutto gli arabi, sono abituati a veder disattese le speranze di cambiamento radicale, sempre annunciate dai nuovi leader (come accaduto in questi anni in Algeria, Marocco, Giordania, Siria) ma mai mantenute. La speranza è tuttavia virtù islamica: e anche, come noto, l’ultima a morire. Vista dall’Italia, poi, la speranza si tinge anche d’altro: dell’attesa, destinata a rimanere per ora senza risposta, che qualcosa cambi anche qui. La speranza che l’ottuso anti-islamismo dell’era Bush, da noi declinato nella sottocultura del fallacismo, dispensato a piene mani perfino da altissimi esponenti di governo, trovi parole più sensate e tonalità più civili: che sembrano, entrambe, terribilmente lontane. Ma Obama non abita ancora da queste parti, il vento di cambiamento che ha portato con sé qui non si percepisce, la sua influenza culturale, in quest’ambito e in questo spicchio di mondo, ancora non si vede.

Allievi S. (2009) Obama e l’islam, in ResetDoc,  http://www.resetdoc.org/IT/Obama-islam-allievi.php mercoledì, 15 aprile 2009

Obama and Islam

Stefano Allievi

For the tired and disenchanted Arab and Muslim world, exasperated by a long history of humiliations and defeats now strengthened by the war in Gaza, the interview President Obama released to al-Arabiya is more than a breath of fresh air: it’s a sign of change and political turnover, something we weren’t ready to expect from the United States. The cultural shift couldn’t be more sharper. It has evident symbolical issues: Obama chose an Arab network for his first international interview, knowing that its impact would have been global. It was something new even on the linguistic side: “We are going to use the language of respect” is something that Arab and Muslims are not used to hear from the United States.

Stefano Allievi is Professor of Sociology at the University of Padua. He has written several books on Islam; last one “Le trappole dell’immaginario: Islam e Occidente” (Forum Edizioni) in 2007.

It might not have been Kennedy’s Ich bin ein Berliner, but it could have the same political consequences. And we may not see it from Europe, but for the tired and disenchanted Arab and Muslim world, exasperated by a long history of humiliations and defeats now strengthened by the war in Gaza, the interview President Obama released to al-Arabiya is more than a breath of fresh air: it’s a sign of change and political turnover, something we weren’t ready to expect from the United States. Obama’s challenge was tougher than Kennedy’s: Kennedy was addressing Europe, particularly an affected and defeated Germany, waiting for the speech of the Messiah as well as for the fundamental material aid the Americans were already providing to. Obama, instead, is speaking to an Arab world less and less pro-American and more and more criticizing, in which older resentments outcropped and exploded during Bush’s era, who fed those resentments and never really understood Islam. Obama’s words foresee a mild turnover: we’ll see where these words will lead to. When the President stated that “people are going to judge me not by my words but by my actions and my administration’s actions”, he informed clearly that there’s already a plan of action in the White House.
Probably the plan will be presented in the longed speech going to come from a Muslim capital, within the first hundred of days of the mandate. We are already aware of the new policy: end of overweening unilateralism (and, for what concerns the Muslim world, a blatantly pro-Israelis policy), Guantanamo’s closure, troops withdrawal from Iraq, serious commitment for the resolution of the Palestinian-Israeli conflict; even a different attitude towards Iran, according a scheme that looks forward to deal with the enemies, instead of demonizing them. Obama has confirmed that Israel will remain a strong ally of the Us, since the contrary would have been astonishing. But Obama spoke about ‘strong ally’ and not ‘close’ ally. He didn’t speak about the Western bulwark in the Middle East, as in the rhetoric of the past years. Meanwhile, Israelis Minister of Defense Barak suspended his visit in the United States. This could be seen as a break to get ready and to reflect upon the change in the US administration attitude. It has surely more to do with this than with the death of an Israelis soldier in a Hamas ‘attack given as justification.
The cultural shift couldn’t be more sharper. It has evident symbolical issues: Obama chose an Arab network for his first international interview, knowing that its impact would have been global. It was something new even on the linguistic side: “We are going to use the language of respect” is something that Arab and Muslims are not used to hear from the United States. For what concerns his relationship with the Arabs and Muslims, Obama defined himself as: “listening, respectful”. He insisted on this: “We are ready to begin a new partnership, based on mutual respect and interests”. “Start by listening instead of start by dictate” is one of the most committed and powerful sentences of the interview, and it is almost unbelievable for the Arabs. Here Obama’s personal background has a part in the game. He mentions it in the conversation and uses it as medium to build empathy. The core of the message is addressed to his electorate and is grounded on a double commitment: communicate to the Muslims that “the Americans are not your enemy. We sometimes make mistakes. We have not been perfect” and to the Americans that “the Muslim world is filled with extraordinary people who simply want to live their lives and see their children live better lives”, more and less like they want. We are thousand of years apart-away from the “axis of evil” rhetoric.
How did the Arabs react? Some cried (as for a veil finally falling apart, more than for joy), some expressed enthusiasm, some shy disclosure. Some – the most of them – are waiting with caution. But there is also who is disenchanted or accuses the President to be a double-dealer. It’s not casual that even on the super efficient and moderate television network that hosted the interview, almost the 15% of the reactions were negative. Some reactions even echoing the racist language used by Al Qaeda’s number two in chief, Al Zawahiri, who in a message soon after Obama’s election called him “house slave”. There’s also a quite few of people who criticize Obama for not being Muslim as his father (even if this wouldn’t serve the Muslim cause since Obama, as a Muslim, would have never become President of the United States). Even Hamas chose anachronistic tones to comment Obama’s interview: “For Hamas there’s no difference between Bush and Obama” declared the movement’s spokesperson Osama Hamdan from Beirut to Al Jazeera. “This would lead him to make Bush’s same mistakes, which set the region on fire instead of steadying it”. Obama is destined to “other four years of failures in the Middle East”.
In the civil society of many Muslim countries, especially the Arab ones, though, the interview arouse interest ad sympathy, confirming Obama’s words in his already historical inauguration speech, who sounded as a distrust towards those autocrats leader, or fake democrats Western allies, who tend to stay attached to their power till they’re almost done and whose succession will lead to dramatic crisis and turnover: “We’re looking for new paths for the Middle East, based on mutual respect and interests. To those leaders who set the conflict on fire attributing the damages in their societies to Western countries: You will be judged on what you’ve built, not what you’ve destroyed. To those who arrive to power through corruption and dishonesty and awing dissent, I warn you that you are on the wrong side of History; but you will find an extended hand from us, if you’re ready to unclench your fist”.
And what does Europe say? The Palestinian wound still bleeds in the European branch of the Muslim umma. Words won’t be enough. But hope is in the air. Even if the Muslims, especially the Arabs, are used to see failure in the radical change intentions professed by their new leaders (as already seen in Algeria, Morocco, Jordan, Syria), which are usually never kept. Hope is a Muslim virtue and, as we know, is also the last thing to give up. Seen it from Italy, it gets another shade: the hope, nowadays far to be true, that something will change also at home. The hope that the blind Anti-Muslims of Bush’s era, translated in Italy in the subculture of Fallacism widespread even in the most critics moments of the confrontation by the higher politicians in charge, will achieve words that are more sensed and civil. This seems to be still far away; Obama doesn’t belong in Italy yet, the wind of change he carries with him it’s not perceivable.
His cultural influence, in this part of the world, is just not still visible.
Translated by Claudia Durastanti

Obama and Islam, in ResetDoc,  http://www.resetdoc.org/story/00000001237 Wednesday, 15 April 2009

Mai dire imam

La parola imam è diventata stranamente ricorrente nel lessico politico e giornalistico. Ma la sua diffusione è inversamente proporzionale alla chiarezza della sua definizione.

L’imam è diventato, grosso modo, il ‘prete’ dei musulmani: ma in realtà gli assomiglia assai poco.

Imam, tecnicamente, è semplicemente chi guida la preghiera. Nei paesi musulmani può essere anche un funzionario addetto allo scopo, e per questo salariato, magari dallo stato. Spesso coincide con la figura di colui che ha il diritto di pronunciare la qutba, il sermone del venerdì, che è l’atto comunicativo principale della ritualità settimanale dei musulmani.

In terra di emigrazione, tuttavia, assume un altro significato. Imam è spesso solo chi assume questa carica, o perché si è semplicemente proposto, magari perché più istruito, con più anni di studio – non necessariamente a carattere religioso – alle spalle, o perché è il più saggio e anziano della comunità, ma talvolta anche uno dei più giovani, magari uno studente universitario con più tempo a disposizione per aprire la moschea negli orari della preghiera. Imam può essere poi più di uno: è una funzione, non un ruolo assunto da una persona, e come tale può essere svolta da persone diverse, secondo le necessità. Può pronunciare il sermone del venerdì, ma – raramente – la funzione viene affidata a un khatib, un predicatore ufficiale, magari una persona più istruita. Può pronunciare delle fatwa, cioè dei pareri giuridici individuali su questioni che gli vengono poste, o semplicemente fare dell’ordinario counseling religioso, ma talvolta tale funzione è riservata a un alim, un sapiente, che può essere un’altra persona. Può essere il ‘presidente’ di un centro islamico, ma talvolta questa carica è tenuta da un amir, che è una funzione più di comando, politica in senso lato, e di gestione amministrativa.

Di fatto spesso, nella povertà economica e di divisione delle funzioni della maggior parte delle moschee, che si reggono sul volontariato di pochi, tutti questi ruoli vengono assunti dalla medesima persona. Che non è, tuttavia, un chierico. E’ una persona che lavora, che ha una famiglia, e che dedica il suo tempo all’organizzazione, gestione e formazione anche spirituale della comunità.

Può ricevere uno stipendio dai suoi fedeli – imparagonabile ai nostri minimi salariali – ma più spesso questo accade per gli imam ‘importati’ da singoli gruppi etnici, che voglio riprodurre il ‘loro’ islam d’origine, sul piano linguistico e delle tradizioni culturali, con il risultato che si tratta di figure che non si integrano, che sanno di avere un rapporto a termine con la comunità, e hanno un rapporto difficile con le seconde generazioni, che tendono a staccarsi da questo tipo di moschee. Alcuni sono mandati dai governi dei rispettivi paesi, o da organizzazioni religiose del più vario genere. Più spesso si mantiene con commerci ‘collegati’ alle attività religiose: macellerie halal, organizzazione dei pellegrinaggi alla Mecca, ma anche attività religiose di vario genere. Altrettanto spesso, tuttavia, si mantiene con il proprio lavoro secolare, con il quale non di rado aiuta, invece, la comunità.

Sono chiamati dalle singole moschee, e questo rende difficili i tentativi, che pure ci sono in varie parti d’Europa, di formarli adeguatamente al nuovo contesto. Anche una volta formati, chi li assumerebbe? Chi garantirebbe loro di poter svolgere, pagati, la loro funzione?

Il dibattito italiano sul tema è abbastanza surreale, prescindendo tanto dai dati di fatto empirici quanto dal riferimento ai principi ordinatori (concordato, intese, legge – che ancora non c’è – sulla libertà religiosa, principi di base di uguaglianza di trattamento, di universalità delle leggi, e dello stesso abc della costituzione).

Da un lato si pretende di obbligarli ad iscriversi ad un opinabile ‘albo degli imam’, in modo da consentire uno screening e un gradimento governativo, dimenticando che è contro i nostri principi di base di non intervento negli affari interni della comunità religiose: e che non esiste un analogo albo dei rabbini, dei pastori pentecostali, e nemmeno dei preti cattolici – le comunità religiose sono sovrane, nell’attribuzione di questi ruoli. Dall’altro si pretende che usino la lingua italiana, dimenticando che non la usano né gli ortodossi né i sikh, né i metodisti asiatici né i pentecostali africani, né i luterani tedeschi né gli anglicani, e nemmeno i cattolici filippini o nigeriani, e persino gli autoctoni che preferiscono la liturgia in una lingua sconosciuta ai più, il latino.

Così, accade di sentire autorevoli esponenti politici e anche religiosi dibattere seriamente di progetti senza alcuna base giuridica fondabile. Ma, soprattutto, lontani dalla realtà. E’ evidente che è auspicabile l’uso della lingua italiana, come fattore progressivo di integrazione. In molte moschee già la qutba è bilingue. In ogni caso accadrà, per la forza di processi sociali già molto visibili in altri paesi europei (aumento delle seconde generazioni) e delle stesse divisioni etniche delle comunità, per molte delle quali già oggi l’unica lingua comune è quella del paese in cui vivono. Diverso pretenderlo anche per la liturgia: l’uso della propria lingua sacra, l’arabo, è tanto caro ai musulmani anche non arabofoni quanto lo è per gli ebrei, che tuttora, pur vivendo da due millenni in diaspora, usano ancora l’ebraico.

Forse un rispetto maggiore – e anche una maggior fiducia – nei confronti dei processi sociali in atto, e una loro osservazione un po’ più attenta, potrebbe consentire di apprendere qualche utile lezione dai fatti, prima di fare danni pericolosi con nuove leggi.

Stefano Allievi

“Popoli”, n.4 aprile 2009, p. 45

Vincitori&sconfitti. Cosa resta del Fisichella day all’università

MOLTO RUMORE PER NULLA? Sconfitti e vincitori del “Fisichella day” (sic…)

Adesso, dopo la relazione di mons. Fisichella, quello che era considerato da alcuni il sospetto malevolo di un gruppo di docenti prevenuti, è diventato una conferma. Una smilza paginetta, su quattordici, dedicata ai trapianti; le cellule staminali nemmeno nominate. Lo stesso per l’intervento dell’on. Lupi, che ha ignorato gli uni e le altre. Lo stesso per la sterminata serie di saluti, capace di tramortire chiunque, di cui forse solo uno o due era incentrato sui trapianti. Qualcuno ha ancora il coraggio di venirci a raccontare che si è trattato di un convegno accademico su “Etica nella medicina dei trapianti e delle cellule staminali”? Che il vero scopo non era fare una forzatura identitaria all’interno di una operazione schiettamente politica?

Ma l’averlo verificato di persona è una amara conferma. E l’aver avuto ragione nel denunciare ciò che stava accadendo è una triste vittoria, all’interno di una più complessiva sconfitta.

Non credo, quando con i colleghi Curi e Zatti abbiamo denunciato quanto stava accadendo, che avremmo immaginato davvero una tale conclusione: la città blindata pur in assenza di uno scontro sociale reale, e un tale sgomitare di potenti intorno a un alto esponente ecclesiale provvisoriamente assurto al ruolo di icona della libertà di pensiero.

Cominciamo dalla fine. Sarà reato di lesa maestà dire con franchezza che la relazione di mons. Fisichella era, sul piano dei contenuti, una delusione? Qualcuno, forse, avrà potuto trovarci spessore umano e spirituale. E certamente vi erano affermazioni condivisibili e altre meno. Ma, diciamolo con franchezza, lo spessore scientifico era alquanto inconsistente. Non solo perché non ha parlato del tema che gli era stato affidato. Ma perché anche le considerazioni sul rapporto tra scienza e fede sono apparse banali e datate. Per non parlare di alcuni piccoli incidenti, a modo loro illuminanti (non si dice che Dio sta nei dettagli?), come il pronunciare la sola parola difficile del testo, polimero, con l’accento sulla ‘e’ come Calimero: gli sguardi smarriti di alcuni tra il pubblico non hanno osato trasformarsi in sorriso, ma si capiva che avrebbero voluto. E’ stato un degno finale, quindi, da parte di chi officiava la cerimonia, chiamarla ‘lectio magistris’, dimenticando che siamo all’Università.

Detto questo, chi sono gli sconfitti di questa giornata, che qualcuno ha ribattezzato “Fisichella day”? Molti, purtroppo.

Sconfitta la città, inutilmente militarizzata per un pericolo inesistente, a pagare il prezzo di una paranoia senza serio fondamento, assolutamente sproporzionata al rischio reale. Un costo economico, un costo sociale e un costo di immagine assurdo, opportunamente strumentalizzato da qualche potente di turno. Ma che sembra essere diventato parte di un meccanismo comunicativo complesso, su cui varrebbe la pena riflettere – è, questa stessa esibizione di forza, e ancor più questa privatizzazione dello spazio pubblico, un messaggio, e assai significativo.

Sconfitti gli studenti. E su questo qualche considerazione va spesa. Il caso l’abbiamo sollevato noi docenti. Ma il clamore, un certo clamore, l’hanno aggiunto gli studenti. Meglio: alcuni studenti. Meglio ancora: uno solo, coccolato dai media proprio per questo suo ruolo, nemmeno più studente di questa Università, afflitto da un’ansia di protagonismo che si traduce in un linguaggio pirotecnico il cui solo risultato è stato di ritorcersi contro gli studenti tutti. I quali, per lo più, hanno intelligentemente criticato e isolato i pochi piccoli moschettieri del boicottaggio. Ma tanto, chi ne parla, chi ne scrive, chi lo sa? L’opinione che passa è che gli studenti sono facinorosi. Poco importa che da soli abbiano programmato una serie di iniziative di approfondimento su questi temi il cui spessore scientifico è largamente più elevato di quello cui abbiamo assistito il 6 marzo, pur con zero finanziamenti, il supporto di nessuno, e nessuna eco sulla stampa. Ma se l’espressione ‘intelligenza politica’ ha un senso, e la sua mancanza un significato, forse qualcuno dovrebbe riflettere sul risultato che ha ottenuto: sul fatto che quella che avrebbe potuto essere una vittoria – sollevare un problema anche di principio non irrilevante, e discuterne di fronte ad un’arena assai vasta – si sia trasformata in una cocente sconfitta. Va detto, a questo proposito, che una parte del gruppo contestatore, piccola ma reale, ha manifestato intolleranza concettuale nel voler espellere dall’Università una posizione etica religiosamente ispirata: e questo è inaccettabile di principio, moralmente censurabile, e politicamente stupido, perché ha consentito poi ad alcuni, come gli studenti co-organizzatori del ‘convegno’ in cui era ospite Fisichella, di farsi passare per vittime, mentre erano gli artefici iniziali di una modalità di porsi arrogante e prevaricatrice, appoggiata da una fetta consistente di potere cittadino e accademico. L’arroganza e la prevaricazione speculare e, va pur detto, più rozza nel linguaggio e nei metodi di chi ha voluto rispondere con grida sconsiderate ha fatto passare inevitabilmente in secondo piano tutto ciò. Faccio modestamente notare, a contrario, quanto siano state più efficaci ed astute le modalità di contestazione attuate in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, a cominciare dall’acquisizione della complicità della Hack, che ha potuto far sentire la voce degli studenti dove molti non l’avrebbero voluta sentire, e dove meno di tutti il rappresentante degli studenti aveva parlato a nome loro: quella sì una meritata vittoria comunicativa.

Sconfitta l’Università. Che ha abdicato in questa occasione alla sua missione più alta, cedendo alla protervia egemonica di alcuni, tutti amici degli amici. Non i cattolici. Guai a far passare questo messaggio: cattolici ve ne erano anche tra chi ha criticato le modalità del convegno. Ma una specifica componente cattolica organizzata, che ha un nome e un cognome. Che si è costruita la sua piattaforma di visibilità, presumibilmente anche in vista delle elezioni rettorali, in cui giocherà un ruolo importante, e si è capito per chi. Si può leggere in questa chiave la piccola gaffe del preside della facoltà di medicina, probabilmente il vero vincitore occulto della giornata, che ha chiamato l’onorevole Lupi ‘monsignore’: qualcosa di più di un lapsus. L’Università ha perso perché alcuni, al suo interno, hanno voluto fare una arrogante furbata, e gli è stato permesso, anzi, si è collaborato a realizzarla; ha perso, perché ha perso il controllo della situazione, perché come un apprendista stregone ha messo in moto un meccanismo che non è stata più in grado di controllare; ha perso, perché è stata espropriata di una sua stessa iniziativa, privatizzata dai promotori a proprio uso e consumo, e utilizzata come passerella da tutto ciò che non avrebbe dovuto essere lì dentro; ha perso perché è stata soltanto la sede di un evento e il suo megafono, ma è stata, di fondo, tragicamente assente.

Sconfitti noi, i docenti che hanno sollevato il caso. Che volevano solamente innescare una discussione civile, ma che nel vedersela presa in mano dagli interlocutori più disparati, per i motivi più disparati, in un impressionante gioco di strumentalizzazioni reciproche, hanno scoperto di aver creato loro malgrado un gigantesco spot pubblicitario non solo e non tanto per monsignor Fisichella, quanto per interessi altri e più alti, che poco avevano a che fare con il caso in questione. E non mi riferisco alla Fondazione che ha organizzato il convegno, che di suo fa un onesto mestiere, certo corresponsabile, ma forse strumentalizzata anch’essa da interessi che passavano largamente sopra la sua testa. Paghiamo, evidentemente, un peccato di ingenuità: non pensavamo si sarebbe arrivati a tanto, e non avevamo valutato nel giusto modo le conseguenze del nostro gesto. Paghiamo, probabilmente, un peccato di presunzione intellettuale: il pensare che una libera discussione tra liberi cittadini, gettata nello spazio pubblico, possa rimanere tale, senza rischiare di venire cannibalizzata da altri. Paghiamo, anche, un banale peccato di libertà individuale: voler dire quello che si pensa, da persone che non hanno ruoli di potere e non aspirano ad averne, per motivi che con il potere non hanno nulla a che fare. E’ triste, quindi, pensare di avere avuto ragione ma, alla luce di quanto è successo, dover credere che sarebbe stato forse meglio non sollevare il caso, lasciare che gli interessi di alcuni continuassero a spadroneggiare con la solita protervia, tanto non c’è niente da fare. Non voglio pensarlo e non voglio crederlo. Ma, in questo momento, prevale l’amarezza: la vittoria, apparentemente, è ‘loro’. Una lezione utile, tuttavia, una piccola vittoria, c’è anche per noi: ci siamo accorti che è bastato poco per disturbare il manovratore, molto al di là delle nostre intenzioni. Segno che avevamo colpito nel segno… E che discutere, dopo tutto, può davvero servire a qualcosa.

Sconfitti, in parte, i media. Che sono stati, va pur detto, il mezzo attraverso il quale la discussione si è sviluppata, e in questo senso un formidabile strumento di democrazia. Che hanno svolto un ruolo di trasparenza e di pubblicizzazione fondamentale, mettendo in luce, in alcuni casi, ciò che avrebbe preferito rimanere in un assai più pratico cono d’ombra. E che hanno informato come doveroso degli sviluppi della situazione, mettendosi in ascolto delle diverse voci della città: e di questo va dato loro atto – questa, se vogliamo, è la loro vittoria. Ma che hanno commesso alcuni peccati abituali, che hanno avuto un ruolo nel caso specifico. Perché hanno titillato, per far fermentare la notizia, i malsani desideri di visibilità di alcuni, andandoli a cercare prima ancora che questi cercassero loro. Perché hanno usato talvolta un linguaggio roboante che si è trasformato, come spesso accade, in una profezia che si autorealizza. Perché non hanno informato, con le dovute eccezioni, su alcuni dati di base che sono pur rilevanti (chi rappresenta chi, quanto conta, al di là di quanto forte abbaia). Perché, quando si è arrivati al punto, si sono accontentati dei messaggi provenienti dal ‘centro’ senza cercare contraltari tra le voci di ‘periferia’, che avevano invece ascoltato fino a quel momento. Perché molti giornalisti – e lo sappiamo per esperienza personale, visto che ce lo chiedevano – sapevano che c’erano in ballo importanti questioni elettorali interne all’università, e forse anche alleanze e interessi trasversali, che riguardano la città nel suo complesso e il suo futuro, con grandi interessi economici in gioco, e che sarebbe stato interessante indagare. Ma non uno che ne abbia scritto. Mentre altri, ed è più grave, non se ne sono resi conto. E solo pochi, avendolo avvertito, sono stati tacitati in anticipo dalle reazioni degli interessati.

Sconfitta, mi pare, la Chiesa: silente, probabilmente con buone ragioni, anche perché di fatto essa stessa esautorata, a livello locale, e rappresentata quindi dai suoi principi papalini. Una Chiesa la cui immagine ancora una volta viene associata al potere e ai suoi rappresentanti: che, non a caso, hanno fatto a gara – anche quelli non credenti, come ci stiamo abituando a vedere in questo tempo e in questo paese in cui il tasso di clericalismo è spesso inversamente proporzionale alla fede – a fingere di omaggiarla, stringendosi intorno a monsignore (ah, quella sigla che precedeva il suo nome, quel SER – Sua Eminenza Reverendissima – che non usa nemmeno più altrove, e che in Università, con tristo servilismo, spiccava incongrua ma significativa). Certo, questa strumentalizzazione reciproca giova al suo potere, ed è per questo che viene con successo praticata da entrambe le parti, ma specularmene si trasforma in una controtestimonianza che non fa onore al messaggio che vorrebbe e dovrebbe trasmettere.

Sconfitta, certamente, la politica, quella che si occupa di problemi reali, che cerca di affrontarli e risolverli. Ma vincenti, totalmente vincenti, i politici, invitati e no (e vale anche per i piccoli politici in sedicesimo oppositori dell’iniziativa, che anche loro si sono guadagnati il loro quarto d’ora di celebrità a spese della città): astutamente preoccupati di gestirsi un’immagine di cui poi i giornali parlano, accuratamente lontana dagli interessi che poi maneggiano, dei quali invece cercano di far parlare meno. Non è un caso che in questa vicenda, molti media e tutta la politica d’accordo, il tema sia diventato, alla fine, la libertà di parola di uno, mentre era il suo esatto opposto: il suo monopolio, il suo uso prevaricatore, da parte di pochi.

Un considerazione finale. Raramente abbiamo visto, a livello locale, una così consistente parata trasversale di potenti stringersi intorno a un alto prelato: e mai, credo, in questa Università. Un segno dei tempi, certo. Ma anche qualcosa di più. Guardando quella impressionante sfilata di facce, tutte maschili (non me ne voglia la presidentessa della Fondazione organizzatrice, se non l’annovero tra coloro che in quella sede contavano davvero), mi sono venute alla mente certe grottesche caricature di George Grosz. C’erano tutti: il potere politico – nelle sue varie sfaccettature, purtroppo indistinguibili nonostante la diversità di schieramento – il potere ecclesiastico, il potere baronale. Anche il potere economico, assente nei suoi rappresentanti, ma corposamente rappresentato nei suoi interessi. E una tale potenza di fuoco, un tale unanimismo, una tale volontà di cantare all’unisono, al cittadino comune, che non è uomo di potere e che non spera di diventarlo, non può che suscitare un’amara inquietudine, e produrre un brivido freddo alla schiena.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 21 marzo 2009, p. 29

Convegno con monsignor Fisichella. Era necessario avviare il dibattito

Di questa vicenda si è parlato persino troppo. Ma è un segno, evidentemente, che di discutere c’era bisogno. Vorremmo evitare, tuttavia, almeno la logica degli schieramenti, il richiamo alla censura, il facile gioco dell’anatema reciproco, l’ideologizzazione esasperata.

La lettera aperta che io e i colleghi Curi e Zatti abbiamo scritto voleva essere un segnale e un richiamo. Un richiamo di opportunità e di metodo, e un segnale che all’università non si può e non si deve applicare la logica dell’occupazione del territorio e delle bandiere identitarie.

Da questo punto di vista l’iniziativa del 6 marzo non era impostata, a nostro parere, nella maniera ideale e più consona alla sede. Le stesse motivazioni ribadite dagli organizzatori, che pure di mestiere fanno un encomiabile lavoro, sono risultate assai deboli, nel motivare una scelta blindata e a senso unico. Di più: tale modo di procedere si ritorce contro le ragioni di cui gli stessi relatori sono portatori, che meritano ascolto e rispetto, e che è giusto vengano prese in considerazione e dibattute, anche in università.

Tuttavia, siamo stati chiari fin da subito: “Non intendiamo contestare il diritto di parola di alcuno. L’Università non è un luogo dove esso si nega. Al contrario, è semmai, ed eminentemente, un luogo in cui la parola si analizza, si approfondisce, si discute, dove non si fugge il confronto, ma lo si ricerca programmaticamente”. Quindi, nessuna censura. Nemmeno la richiesta di cambiare programma.

Evocare lo scontro tra laici e cattolici, o addirittura il bavaglio ai cristiani e alla Chiesa, è quindi una impostazione ideologica fuorviante e risibile, una vittimizzazione che nulla ha a che fare con quanto è in gioco in questo momento. Lo scontro non è tra laici e cattolici, ma tra chi vuole il confronto e chi vuole soltanto dire la sua.

Credo sia arduo, nell’unico paese al mondo in cui il giornalista esperto di questioni religiose si chiama vaticanista, e la presenza della Chiesa cattolica nello spazio pubblico, anche sui temi qui evocati, evidentissima, parlare con qualche senso logico e onestà intellettuale di crociate anticattoliche. Semmai, è probabile che l’attitudine alla privatizzazione della verità, visibile da varie sponde, esacerbi gli animi. Ma questa difficoltà attraversa tutte le identità e appartenenze, non solo la Chiesa. Non è un caso che i sondaggi intorno al caso Englaro, per citare l’ultimo e più clamoroso esempio di discussione pubblica sulla bioetica, abbiano concordemente mostrato una forte divaricazione tra le prese di posizione ufficiali della Chiesa cattolica e il pensiero di coloro che avrebbero dovuto da essa sentirsi rappresentati. Così come interventi anche di scienziati di campo laico e di impostazione assolutamente non religiosa abbiano mostrato dubbi, lacerazioni, ed esplicite posizioni in sintonia con quelle rappresentate anche, non solo, dalla Chiesa.

Dunque, nessuno scontro: nemmeno tra accademici e chierici. Su questo, due parole per evitare equivoci interessati: non abbiamo rifiutato alcun confronto. Semplicemente, non avevamo mai chiesto di partecipare a quel dibattito. E’ stato mons. Fisichella, per sua dichiarazione a questo giornale e a me telefonicamente, con un gesto apprezzato, a dichiararsi stupito delle modalità organizzative dell’incontro, mostrandosi disponibile a un dialogo che altri, più realisti del re, temevano. Proprio per questo, cogliendo questa disponibilità, e non praticando logiche di schieramento, i miei colleghi, in una iniziativa in corso di organizzazione, hanno rilanciato: invitando mons. Fisichella, ma in un contesto dialogico vero. Mi pare una lezione di stile: in sintonia con lo spirito e la lettera del nostro appello.

Ancora più arduo e in mala fede evocare un inesistente scontro tra destra e sinistra. Per molti motivi, uno dei quali è che chi scrive ha troppo rispetto per la Chiesa per volerla ascrivere alla destra, che pure vorrebbe anche oggi strumentalizzarla ai propri fini.

Detto questo, siamo in Università, di cui ho una concezione alta: un luogo in cui la discussione critica, il confronto aperto e la ricerca senza pregiudiziali sono la linfa vitale e la stessa ragion d’essere. E in cui la censura è fuori questione. Per questo, a titolo personale, parteciperò, tra il pubblico, all’iniziativa del 6 marzo, ascoltando le voci che lì si esprimeranno. E poi, con maggiore entusiasmo, parteciperò alle iniziative di confronto e di approfondimento che si stanno organizzando: e che altri (studenti, cittadini, associazioni) vorranno organizzare. Credo che l’Università, e la città, avranno tutto da guadagnare da una discussione pubblica e matura. Che siamo lieti sia iniziata.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 3 marzo 2009, pp. 1-12

anche in

“Ecco perché sarò in aula ad ascoltare monsignor Fisichella”, in “Corriere Veneto”, 3 marzo 2009, p. 7

L’islam cambia e ci cambia (forse)

popoli
Allievi S. (2009), L’islam cambia e ci cambia (forse), in “Popoli”, n. 3, marzo 2009, pp. 48-49 A R e R/I

Sull’etica-staminali nessuna esclusiva

Il giorno 6 marzo si svolgerà all’Università di Padova, nella Sala dei Giganti di Palazzo Liviano, un convegno su “Etica nella medicina dei trapianti e delle cellule staminali”. Tema di grande attualità, controverso, sul quale è aperto uno scontro sia nel mondo scientifico che nel paese, e di cui è certamente opportuno informare e discutere.

Sorprende tuttavia l’articolazione dell’incontro: che prevede, dopo i saluti d’uso, solo un’introduzione del Vicepresidente della Camera dei Deputati, on. Maurizio Lupi, esponente di Comunione e Liberazione, e un’unica relazione di Mons. Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia Pro Vita. Nessuna discussione è prevista.
Questa scelta chiusa al dibattito e di parte, del tutto legittima in qualunque altro contesto, in sede universitaria, luogo per eccellenza dell’educazione al pensiero critico, dispiace e sconcerta; perché su temi così importanti, che coinvolgono ragione ed emozione, fede e scienza, e producono un intenso dibattito sociale, si preferisce la ricerca dell’egemonia alla discussione critica.
Non intendiamo contestare il diritto di parola di alcuno. L’Università non è un luogo dove esso si nega. Al contrario, è semmai, ed eminentemente, un luogo in cui la parola si analizza, si approfondisce, si discute, dove non si fugge il confronto, ma lo si ricerca programmaticamente; non è invece il luogo per promuovere l’aggregazione per bandiere identitarie, oggi fin troppo praticata nella società italiana.
Chiediamo quindi che l’Università si faccia promotrice di una discussione franca e aperta su queste tematiche, che tenga conto di tutte le opinioni in campo, senza dare ad alcuno il diritto di definirne in esclusiva i temi e i limiti. Tanto più in questi tempi, in cui su tematiche analoghe e correlate si è acceso un vivo dibattito nella società, e in cui ogni idea di possesso esclusivo della verità, da qualunque parte provenga, divide drammaticamente le coscienze, anche all’interno degli stessi settori da cui proviene.

Prof. Stefano Allievi, sociologo

Prof. Umberto Curi, filosofo

Prof. Paolo Zatti, giurista

Qualche giorno dopo…


Riguardo alla prevista ‘Lettura’  di Mons. Fisichella abbiamo sollevato  una questione  che non riguarda le persone né le opinioni,  ma solo il metodo propagandistico, programmaticamente chiuso al confronto, estraneo allo spirito del dibattito universitario e particolarmente inopportuno nel momento in cui la questione bioetica vede in atto uno scontro aspro e condotte aggressive  sul piano istituzionale e su quello mediatico, senza risparmiare le persone coinvolte.

Si levano ora all’interno del mondo studentesco voci e  proposte che si caratterizzano per un atteggiamento eguale e contrario, e abbandonando il piano della critica e della discussione mirano ad espellere dall’ambito universitario una posizione etica, negando la base stessa di ogni confronto: il diritto di parola. Esprimiamo il nostro totale dissenso da queste posizioni  e confidiamo che gli studenti sapranno isolarle.  L’Università deve restare lo spazio della libertà di esprimersi e confrontarsi per tutte le opinioni che accettino le basi costituzionali della convivenza; solo l’intolleranza non può e non deve abitarvi”

Stefano Allievi, Umberto Curi, Paolo Zatti

“il Mattino”, 24 febbraio 2009, pag. 1-20