Eid al-Adha e macellazione islamica. Qual è veramente il problema?

Puntuale come la festa islamica dell’Eid al-Adha, che commemora il sacrificio di Abramo, celebrata in questi giorni, arriva anche la polemica intorno a essa. Che consiste nella protesta contro lo sgozzamento di agnelli e montoni per celebrare l’occasione: altrettanto rituale del rito stesso.
Ora, possiamo capire che gli animalisti si lamentino: è pur sempre un sacrificio animale. E chi gli animali non li mangia è evidente che non sia d’accordo, ed è sacrosanto che possa manifestare la propria opinione: che non è solo legittima, ma esprime un punto di vista su cui c’è molto da riflettere, anche in termini di sostenibilità del pianeta e del nostro stile di vita. Il che implicherebbe protestare in egual misura sia nei confronti di chi gli animali li uccide e li mangia per motivi religiosi, sia di chi lo fa per il puro piacere del palato, o semplicemente per abitudine e idee diverse in materia.
È quando la protesta è per così dire selettiva, che insospettisce. Come accade sempre più spesso intorno alla festività islamica, detta anche Eid al-Kabir, la festa grande. In primis perché la macellazione halal è esattamente identica, sia nelle motivazioni che nell’aspetto tecnico (lo sgozzamento dell’animale previo taglio della carotide, e il conseguente progressivo dissanguamento) alla macellazione ebraica kosher. Infatti molti di coloro che protestano, quando lo scoprono, si ritirano in buon ordine: anche perché la macellazione kosher è legale da quando esistono gli ebrei, cioè da prima che esistessero i cristiani. Com’è che proteste di fronte ai macelli che lavorano per le comunità ebraiche non ce ne sono? Se invece il problema sono gli agnelli, ricordiamo sommessamente che, in occasione della Pasqua, cristiani e laici ne fanno una strage ben più cospicua ogni anno, con numeri imparagonabili. Infine, in passato, e un po’ di nascosto anche nel presente, l’uccisione per dissanguamento era pratica abitudinaria della civiltà contadina, in particolare per il maiale, animale invece considerato impuro per ebrei e musulmani.
Torniamo all’islam. La pratica è tradizionale e diffusa. Personalmente vi ho assistito in diversi paesi musulmani, e anche da noi. L’importante è che non avvenga in privato, senza rispettare elementari norme igieniche, come occasionalmente accaduto in passato. È per questo, peraltro, che le comunità islamiche, esattamente come quelle ebraiche, hanno siglato degli accordi con i macelli, a termini di legge e nel rigoroso rispetto di tutte le normative. Aggiungiamo, peraltro, che il cibo viene condiviso anche con i poveri e gli indigenti, nella misura di un terzo, essendo un tradizionale atto di elemosina e di condivisione, appunto. Ma proprio per questo è pratica oggi spesso sostituita dal conferimento dell’equivalente del costo dell’animale in opere di carità. Infine, se il problema è la sofferenza dell’animale, ricordiamo che ci sono molti studi e opinioni di veterinari che sostengono come l’animale soffra meno, mediante il dissanguamento. Il che non dovrebbe stupire, visto che – e non è ovviamente un suggerimento – quello per dissanguamento è il modo meno doloroso che conosciamo anche per suicidarci. In più, nel caso degli animali, viene accompagnato da una benedizione: un atto di rispetto a noi ignoto, che pure apprezziamo tra i nativi americani e altre popolazioni indigene.
Parliamo del problema vero, allora, se vogliamo porlo. Che è quello dell’industrializzazione della morte animale nella modernità. Che ha una storia lunga, tutta occidentale e non religiosa: la catena di montaggio non l’ha inventata Henry Ford per le automobili, ma lo Union Stock Yard, il macello di Chicago, da cui Ford prese ispirazione.

Il macello islamico. Indignati con chi e per cosa, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2025, editoriale, pp. 1-5

Tra chiesa e moschea. Le trasformazioni del paesaggio religioso.

Nei giorni scorsi, su questo giornale, due istruttive pagine di inchiesta ci informavano, da un lato, sulla crisi della chiesa veneta, e dall’altro, sull’ennesima polemica intorno alla costruzione di una moschea. Due notizie che ci raccontano due pezzi diversi della medesima storia. Che è utile mettere in sequenza, e intorno alle quali costruire un ragionamento.

Il calo delle vocazioni sacerdotali (e di conseguenza il loro invecchiamento) non è solo un problema della chiesa cattolica, ma in essa è particolarmente visibile: circa 6000 in Veneto mezzo secolo fa, 3700 oggi, ma in calo tendenziale ulteriore e drammatico. È presente anche in altre chiese e religioni, e rappresenta la crisi di motivazione di un ruolo in quanto tale sempre meno sentito e considerato meno appagante. Ma in altre forme religiose (dai pentecostali al mondo new age) è invece ancora attrattivo e pregno di significato. Il che ci dice che la forma non è irrilevante, anche rispetto alla possibilità e alla capacità di veicolare un contenuto. Ad esso bisogna aggiungere l’abbandono della tonaca (che peraltro quasi nessuno mette più: è rimasto un modo di dire) da parte di chi prete lo è già, e se ne va via, in fondo per gli stessi motivi per cui altri non vengono più: per una crisi di senso, ma anche per desiderio d’altro (incluso l’amore e la sessualità: che altri magari vivono all’interno e di nascosto). Quello che era un mestiere una volta stimolante, di prestigio e con adeguato riconoscimento sociale, oggi è spesso, in molte sue forme, faticoso e ripetitivo, mentre la sua centralità sociale e la sua influenza sono tracollati, riducendo i preti alla meno attrattiva figura di “funzionari di Dio”, per riprendere il titolo di uno splendido libro di Eugen Drewermann, teologo e psicanalista (e oggi ex-sacerdote), che i suoi confratelli li ha avuti in terapia per una vita. E questo a dispetto dello spessore umano, spesso notevolissimo, di figure sacerdotali che in taluni casi diventano esempi di riferimento anche per il mondo laico, e preziosi costruttori di comunità. Calano anche le vocazioni di monaci e suore, e di conseguenza anche i servizi, da queste ultime in particolare, erogati, talvolta come manodopera a basso costo, nel mondo dell’educazione e dell’assistenza: anche questo un modello da mettere in discussione come tale.

A parole il rimedio sarebbe coinvolgere i laici. Ma poi, nella pratica, i parroci si tengono stretti potere decisionale e cassa, e gerarchia delle priorità, lasciando i laici, pure indispensabili nella gestione concreta, in posizione ancillare e subordinata (non vero coinvolgimento, mai alla pari, e soprattutto niente ruoli decisionali anche simbolicamente rilevanti per le donne, senza la cui presenza e il cui lavoro, pure, le parrocchie non starebbero in piedi): anche per responsabilità dei fedeli, che continuano ad avere un’idea di chiesa clericocentrica e quindi de-responsabilizzante per loro stessi.

Il ruolo del prete finisce per essere soprattutto rassicurante, in particolare per gli anziani, che oggi costituiscono la presenza maggioritaria alle funzioni: li tranquillizza che nulla è cambiato. Ma non è così, e gli altri allora non entrano nemmeno più, perché non riconoscono l’ambiente come proprio. L’effetto è il crollo della partecipazione settimanale, ormai ridotta a meno di un quinto della popolazione (molto meno, nelle città) e di conseguenza dei contributi economici, cioè a dire della fiducia.

Il Covid ha dato il colpo di grazia a un processo che sarebbe avvenuto comunque (anche perché viene da molto lontano: i primi studi sulla secolarizzazione risalgono agli anni Sessanta), ma più gradualmente. La disaffezione dei giovani è cresciuta, e la prevalenza di anziani che rispondono a una fede espressa in maniera tradizionalista, non più comprensibile per le nuove generazioni (anche nelle cose minute, come nella punitiva insistenza a mantenere gli orari delle messe al mattino in orari incompatibili per i giovani che il sabato fanno legittimamente tardi), allontanandole ulteriormente.

Gli altri dati completano il quadro. Educazione religiosa al massimo fino alla cresima, matrimoni civili in crescita esponenziale (da un decimo mezzo secolo fa a due terzi oggi: e molti di quel terzo rimasto, per motivi che spesso hanno a che fare più con l’estetica che con la fede), convivenze in aumento, nascite al di fuori del matrimonio che sono oltre la metà tra le coppie giovani, riducendo a fortiori il numero di battesimi.

Eppure la domanda di spiritualità non è diminuita, e nuove forme di religiosità si fanno strada. All’interno della chiesa cattolica e al suo esterno. Incluso nelle nuove religioni arrivate per via migratoria, di cui quella che fa più discutere è l’islam, ma che tutte testimoniano un nuovo e vivace pluralismo religioso. Esse non pongono alcun problema di concorrenza, e peraltro sono soggette alle medesime tendenze in precedenza evidenziate: solo in maniera meno visibile e più lenta. Ma a proposito dell’islam detta ancora legge, o per lo meno urla più forte, lo schema leghista della protesta a prescindere. Anche se si assiste a una maturazione altrove, incluso tra le forze politiche di centrodestra, meno disposte a farsi trascinare sul terreno di un inutile scontro, e nella società. Qui la religione, e concretamente la moschea, gioca un ruolo di integrazione, e dunque di maggiore sicurezza, come attestano anche le forze dell’ordine, mentre è il pregiudizio che ad esse si oppone che produce dis-integrazione e conflitto sociale. La discriminazione è sempre e solo riferita a musulmani e moschee, contro le quali la regione si è già prodotta in una legge discriminatoria (contro cui si sono schierate tutte le comunità religiose, dai cattolici agli ebrei) quanto inutile. Ma la moschea fa sentire i musulmani più cittadini in quanto riconosciuti anche nella loro specificità religiosa (peraltro costituzionalmente protetta, come quella di tutti) e quindi più integrati. E a chi, per giustificare la sua contrarietà, richiede prima un accordo con lo Stato, rispondiamo, per esperienza (ero membro del Consiglio per l’islam italiano, presso il Ministero dell’interno), che è lo Stato (rappresentato dagli stessi partiti che localmente invocano un accordo che nazionalmente impediscono) che non lo vuole. Le organizzazioni islamiche lo firmerebbero domani. Chiedessero dunque, nel caso, ai loro rappresentanti di darsi una mossa.

 

La chiesa e le nuove religioni, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 maggio 2025, editoriale, pp.1-7

Di bambini, moschee, polemiche politiche e identità reattive

La questione della visita dei bambini di una scuola cattolica a una moschea (non importano i nomi e i luoghi) ha avuto una eco molto forte, così come il nostro editoriale di ieri l’altro sul tema. Decine di condivisioni, ma anche diversi educati interventi critici dei nostri lettori. Segno che è un tema sensibile, su cui si ha voglia di discutere. Proviamo, allora, a tirare le fila delle critiche. E a rispondere, per quanto possibile nei limiti di un articolo, quando al tema ho dedicato libri interi.

Un primo livello di discussione riguarda la scelta della scuola, e la sua autonomia decisionale. Può una scuola frequentata da molti bambini musulmani fare un approfondimento, con visita guidata, su quella religione? Lo può decidere solo lei. Non i genitori: che pure, in questo caso, sono stati consultati preventivamente e hanno espresso il loro assenso. Lo stesso per l’educazione all’affettività e sessuale: si può fare solo se i genitori sono d’accordo? Sicuri? Se di educazione sul tema abbiamo bisogno, si fa, punto. E poi come si quantifica il disaccordo? Sarebbe democratico se bastasse l’opposizione di uno per ledere l’interesse di tutti? Così come non si consultano i genitori, e nemmeno la politica, sui programmi di italiano. Molti genitori pensano che la matematica non serva a niente, altri considerano pericolosa persino la biologia perché si parla di genere, ma non per questo si smette di insegnarle. Quando è stato introdotto l’obbligo scolastico, molti genitori erano contro: lo stato non interveniva con comprensione, ma mandava i carabinieri a prelevare in casa i bambini per portarli a scuola.

Le strumentalizzazioni della politica hanno le loro ragioni. Ma non hanno nulla a che fare con il merito delle questioni. La politica vive di contrapposizioni, e il consenso si costruisce meglio se hai un nemico, come insegnava Machiavelli. Se poi il nemico è una minoranza stigmatizzata (che siano gli ebrei in altre epoche, o gli immigrati, o i musulmani oggi, ma potrebbero essere i gay – o magari i conservatori o i razzisti o semplicemente quelli con un’opinione diversa dalla nostra, i presunti cattivi giudicati dai presunti buoni), si chiama capro espiatorio, e serve per acchiappare voti. Non è nobile, ma funziona, e la politica lo sa benissimo, e ne usa a man bassa. Tanto più perché le minoranze contano meno, e spesso hanno meno diritti, incluso quello di voto in questo caso, per cui non si paga pegno: si guadagnano i voti di chi è contro, senza perdere quelli dei diretti interessati. È un meccanismo che mostrano bene le identità reattive: quelle che si formano in reazione, o contro, qualcuno. Come la pletora di persone che hanno scoperto di essere cristiane da quando ci sono i musulmani: prima non se ne erano accorte. Tuttora i politici che tuonano di più di radici cristiane sono quelli che in chiesa vedete meno, e a cui il contenuto del messaggio evangelico interessa meno. Ma vale anche per altre minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali: tanto che i conflitti più forti spesso non sono tra gruppi, ma al loro interno, a proposito degli altri.

C’è chi, nel merito, chiede di difendere i valori cattolici. Legittimo. Forse la domanda vera è se a minacciarli è il nemico che ci viene messo di fronte, l’islam, o quello che ci sta alle spalle, apparentemente nostro alleato: la secolarizzazione, l’individualismo, il consumismo e quant’altro. E se i religiosi di altre comunità non siano semmai dei potenziali alleati. Anche perché, poi, il problema vero è chi decide quali sono, i valori cattolici: per qualcuno tutto si riduce all’aborto, per altri all’accoglienza degli immigrati, mentre probabilmente le cose sono un po’ più complesse.

C’è chi ha sollevato il tema della reciprocità. Comprensibile, ma nel caso in questione mal posto, visto che è un ambiente cattolico, dove si prega e ci si fa il segno della croce con regolarità. Anche questo tema, tuttavia, è più complesso: in Marocco o in Senegal, per fare un esempio, i cattolici godono di piena libertà di culto, in Afghanistan no – dobbiamo prendercela con i marocchini che sono da noi perché gli afghani che non sono da noi non ce la danno? Anche la polemica sul fatto che i bambini in moschea si sono inginocchiati e hanno mimato il gesto della preghiera, appare fuorviante: i bambini fanno e imparano così, e cinque minuti dopo se ne sono dimenticati, ed è il loro bello, e la loro libertà, da cui avremmo molto da imparare. A scuola si fa questo. Se lo chiamiamo indottrinamento, come dovremmo chiamare l’allenatore che porta i ragazzi a tifare per la squadra che piace a lui, o l’insegnante (o il parroco, o l’assessore) che gli fa leggere un libro o li porta a teatro a vedere un autore che ha un proprio specifico punto di vista: che li indottrina, o che gli offre delle opportunità e li abitua alla pluralità dei punti di vista?

Il problema vero, alla fine, è l’islam, o meglio il nostro modo di percepirlo. Se siamo convinti che vogliono islamizzarci per via demografica, o vogliono imporci la sharia (da cui spesso sfuggono, proprio per vivere più liberi da noi), o vogliono togliere il crocifisso o il presepe dalle scuole (mai successo per iniziativa dei musulmani, che iscrivono i loro figli e ancor più figlie pure a scuole cattoliche), anche se è un sentito dire, non cambieremo idea neanche di fronte all’evidenza.

Il problema è la questione femminile? Molto giusto. Ma perché la nostra attenzione è selettiva? Perché a proposito dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina non islamiche non protestiamo? Perché se un marito o un padre pakistano è violento con la propria moglie o figlia diciamo che è colpa dell’islam, mentre se è rumeno non diamo colpa all’ortodossia, e se è italiano al cattolicesimo? E se il problema è la democrazia (problema serissimo), siamo sicuri che certi hindu, protestanti o ebrei siano più democratici? Non è un problema di modello di sviluppo, di singolo paese, di epoca storica, più che di religione? Avremmo giudicato il cattolicesimo compatibile con la democrazia, nell’Europa degli anni ’30, quando la chiesa era alleata di Mussolini, Franco, Salazar, o trent’anni fa in America Latina, quando sosteneva le peggiori dittature centro e sud americane?

Certo, nell’islam ci sono dei problemi. Il terrorismo jihadista ce lo ha insegnato (peraltro trent’anni fa il terrorismo da noi era politico, oggi nel mondo è spesso anche indipendentista, etnicista, e pure suprematista e razzista, e quando è religioso non è solo islamico). Lo combattono anche la maggioranza dei musulmani. È giusto parlarne e sollevare il problema. Per affrontarlo insieme, nell’interesse di tutti. Non per combattere i fedeli di una religione, in nome di un’altra, o forse solo di una presunzione di superiorità. Che si dovrebbe dimostrare nei fatti.

La società, le religioni, la politica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Scuola cattolica e visita in moschea. Il problema è l’ignoranza della politica

Di fronte all’ignoranza – nella sua accezione etimologica di mancanza di conoscenza – sono possibili due atteggiamenti. Uno è quello che potremmo definire dantesco: lasciar perdere (“non ragioniam di lor ma guarda e passa”, come si suggerisce nel canto terzo dell’Inferno a proposito “di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”). L’altro è quello di provare a ragionare nonostante tutto, anche se l’oggetto del contendere è risibile, e non è facile. Anche perché c’è un’ignoranza per così dire pura, con cui si può interloquire (appunto perché è solo una carenza di conoscenze), e una che è mossa dalla strumentalizzazione politica contro un presunto nemico, che è facile trasformare in capro espiatorio, e che è più difficile da sradicare.

La (non) notizia di partenza è quella della visita dei bambini di una cattolicissima scuola paritaria parrocchiale a una vicina moschea, frequentata anche da molti genitori i cui figli frequentano la scuola in questione: in cui peraltro ci si fa il segno della croce prima di pranzo e spesso si recitano le preghiere in aula.

L’ignoranza ha naturalmente protestato. Ignorando, per l’appunto, che la nostra società è composta da molte diversità: per dire, oltre il dieci percento delle persone (di più, in Veneto) che vivono da noi sono immigrate. E appartengono, tra le altre cose, a minoranze religiose diverse (cattolici, musulmani, ortodossi). E che frequentarle, studiarle, includerle, rapportarcisi, è l’abc della vita sociale, oltre che del patto costituzionale. Mentre stigmatizzarle favorisce la raccolta di un facile consenso, ma non fa un buon servizio alla società.

Con i criteri dell’ignoranza non ci dovrebbero essere moschee (in effetti la regione ha approvato una legge contro, perfettamente inapplicabile, e infatti le moschee ci sono). Gli oratori non dovrebbero accogliere i bambini musulmani (una ricerca a Milano li quantificava intorno a un terzo degli utenti). Nelle scuole non se ne dovrebbe discutere e guai a fare visite di conoscenza (che peraltro, laddove davvero i musulmani fossero come li descriviamo avrebbero un effetto controproducente). E la diversità non dovrebbe essere nemmeno presa in considerazione: quindi niente visita anche alle sinagoghe, ma nemmeno alle chiese, visto che pure esse (lo ricordiamo a chi non se ne rendesse ancora conto) rappresentano oggi non una presunta maggioranza, ma solo la più grande e storicamente importante delle minoranze religiose.

Quella della chiusura alle culture altrui – incarnate in persone, in questo caso – è sempre una scelta ottusa e perdente: che non ci arricchisce, ma al contrario ci impoverisce (proviamo a immaginare se ci nutrissimo solo di letteratura, musica, cinematografia italiana, o peggio veneta, per non rischiare contaminazioni). Peraltro non ci salva nemmeno dai conflitti culturali, ma al contrario ne produce di nuovi e perfettamente inutili. Ricordiamo, en passant, che la Serenissima, cui molti degli oppositori alla visita in moschea amano nominalmente richiamarsi, aveva consentito la costruzione sul Canal Grande di un Fondaco (da funduq, parola araba ancora oggi usata per albergo) dei Turchi, inaugurato nel 1621 e durato fino al 1838, in cui era presente una moschea (anche allora, nel 1602, un anonimo cittadino veneziano promosse una petizione contro: ma perse… e oggi è il civico museo di storia naturale, che l’ignoranza potrà visitare con profitto). Che il Corano verrà dato alle stampe per la prima volta, in arabo, sempre a Venezia, nel 1537, e una sua prima traduzione seguirà dieci anni dopo (mentre la traduzione più nota e importante per la cultura europea sarà stampata a Padova nel 1698 a cura di padre Ludovico Marracci). Dobbiamo vergognarci, di questa eredità, o al contrario vantarcene? E ci sarebbe stata, se gli attori di questi processi avessero avuto la mentalità di chi non vorrebbe nemmeno far visitare una moschea? O non sarà questa la stessa radice culturale che fa rispondere molti italiani, a domanda se sarebbero disposti a utilizzare i numeri arabi, che loro no, mai, che sarebbe una vergogna, una inaccettabile sottomissione a una cultura nemica? (per sicurezza, ci teniamo a precisare che i numeri arabi sono quelli che usiamo d’abitudine …).

Persino il Mussolini cui si richiamano altri locali nemici verbali dell’islam definiva l’Italia, in un discorso del 1928, come “amica del mondo islamico e conscia delle sue funzioni di grande Potenza mussulmana”; aggiungendo nel 1938, dopo aver ricevuto in dono in Libia la ‘spada dell’islam’, a proposito delle popolazioni dell’italico impero, di voler assicurare “la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto delle leggi del Profeta” e “dimostrare la sua simpatia ai Musulmani e all’Islam del mondo intero”.

Ecco, ci sembra che le reazioni odierne di ottusa chiusura di fronte a un fatto banale siano quelle che fanno andare il Veneto sulle pagine nazionali per i motivi sbagliati. Magari è il caso di rendersene conto.

 

Bimbi e religioni. L’abc della vita sociale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Il costo sociale e familiare del lavoro di cura. La dura vita dei caregiver

I caregiver sono le persone che in famiglia si occupano di altre persone – bambini, malati, anziani, disabili, in generale persone non autosufficienti – e se ne prendono cura (ci sono poi quelli professionali, salariati, che esulano dal nostro discorso). Questa figura riguarda tutti, ma notoriamente coinvolge soprattutto le donne. Secondo uno studio recente della Cisl veneta sono caregiver un pensionato su due e un lavoratore su tre: sei su dieci si occupano di un genitore anziano, uno su dieci si fa carico di due persone. Più della metà ha dovuto lasciare il lavoro o lo studio, per dedicarsi a chi ne aveva bisogno. Il tema degli anziani non autosufficienti è quello più serio e grave, perché si tratta di una popolazione in velocissima crescita. Che ci costringe a parlare anche di soldi, cosa che troppo spesso si evita per eccesso di pudore. E di giustizia sociale. Inclusa quella generazionale.

La generazione attuale di anziani è quella storicamente più privilegiata. Ha lavorato sodo, certo, ma ha vissuto il boom economico, le conquiste del welfare, l’aumento della spesa per le pensioni (anche perché ha beneficiato del metodo retributivo, che commisurava la pensione al salario degli ultimi anni, anziché ai contributi versati nel corso della propria vita lavorativa). Nessuna generazione, né precedente né successiva, ha avuto tali tutele. Inoltre beneficia delle conquiste medico-sanitarie, e dunque di un aumento straordinario della durata della vita (che tuttavia non è proporzionale alla durata della vita in buona salute). Le generazioni successive, in particolare, sono quelle che, oltre a sostenere il debito accumulato per garantire quelle precedenti, oltre ad avere salari proporzionalmente più bassi, a entrare più tardi nel mercato del lavoro, a maturare pensioni mediamente inferiori a quelle dei propri genitori (perché, appunto, nel frattempo si è passati al sistema contributivo), se ne devono prendere cura per molto più tempo. E allora, sì, è un problema di giustizia generazionale. Perché la cura dei più anziani va a scapito dei loro figli – che la pagano in termini di perdita di lavoro, di reddito, di salute fisica e mentale, di prospettive di vita – e persino dei loro nipoti. Non sono poche le famiglie costrette a scegliere tra far studiare i propri figli (o far vivere loro una vita decente, anche solo pagarsi delle vacanze o qualche elemento di ben-essere in più) o prendersi cura dei propri genitori, pagare badanti, o strutture per anziani, o subire convivenze sempre più faticose e spesso senza via d’uscita, senza speranza che non sia (diciamolo, visto che molti lo pensano senza avere il coraggio di verbalizzarlo, e con terribili sensi di colpa) la morte del proprio genitore o congiunto.

Nessuno vuole abbandonare o ‘scaricare’ gli anziani, ci mancherebbe (lo siamo o lo saremo anche noi, e ne siamo consapevoli). Ed è bellissimo che da noi si coltivi un modello familiare e di cura stretto, amorevole, affettivamente denso. Ma non è giusto caricare le famiglie, che già fanno sacrifici quotidiani inenarrabili, anche di un dilemma morale insostenibile. C’è un tema di giustizia generazionale, dicevamo: di trasferimenti da una generazione all’altra (che tocca la questione dei cosiddetti diritti acquisiti, almeno delle categorie maggiormente privilegiate: dai politici ai magistrati ai giornalisti). Ma non è solo, e nemmeno soprattutto, questo: anche perché non ha alcun senso dare la ‘colpa’ alle generazioni precedenti – le cui pensioni, peraltro, spesso non sono nemmeno sufficienti a pagare le strutture o le badanti che di loro si occupano. La società ci consente di vivere più a lungo, ed è un bene. Che sia la società, non (solo) le famiglie, ad occuparsene. E anche a discutere pubblicamente quali sono i limiti di questo sostegno. Che si tratti di permanenza nelle case di cura, o del ‘modello badanti’: che quasi non esiste in altri contesti, e scarica sulla famiglia tutto il peso della cura (non solo economico: anche pratico, temporale, relazionale, persino spaziale, e financo morale).

Soprattutto, c’è un gigantesco problema di spostamento di risorse dalle rendite (che siano finanziarie, immobiliari, perché no, anche politiche) – per definizione, parassitarie, piaccia o meno – al lavoro: e il lavoro di cura ne è parte integrante, anche se quello svolto in famiglia non è salariato. Dovrebbe essere pagato in altro modo: in forme di sostegno e soprattutto in servizi, efficienti e universalmente garantiti, o garantiti almeno alle fasce più povere e meno tutelate. È questo che manca. E questa mancanza fa orrore. Descrive una società in cui l’invecchiare più a lungo – per cui crea le condizioni – diventa una condanna. Caricata sulle spalle dei diretti interessati e sulle generazioni successive.

 

Il grande prezzo della cura, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 marzo 2025, editoriale, pp.1-5

Il niqab a Monfalcone: tra diritti, tradizione e repressione. Aprire il dibattito senza chiudere gli occhi

Monfalcone torna alla ribalta della cronaca, per un problema che è bene ci poniamo tutti noi. Il caso è quello delle studentesse del Bangladesh che vestono il niqab, una forma di velo islamico che copre anche il viso, lasciando visibili solo gli occhi: e che vengono quindi identificate all’ingresso dell’istituto scolastico che frequentano.

Premessa: il velo islamico di cui parliamo normalmente è l’higiab – sostanzialmente un foulard, che copre solo i capelli. E che non può fare problema, proprio perché non ha altre implicazioni, fa parte della nostra cultura tradizionale, ed è assimilabile alla copertura del capo adottata dalle suore (o dai sikh): il suo uso rientra nella libertà di vestirsi di ciascuno. Il niqab invece copre anche, come abbiamo detto, il viso. E qui il problema c’è.

I dirigenti scolastici fanno quello che possono, in assenza di una normativa, e nel rispetto dell’autonomia loro garantita, per assicurare la continuità scolastica delle ragazze, identificandole e facendole entrare con il niqab: il rischio, altrimenti, è che non vadano più a scuola. Ma una normativa occorre. Perché occorre educare anche le comunità, e noi stessi. La questione della visibilità del volto è seria non, come si dice, per questioni di sicurezza (ci sono anche quelle, ma non è per quello che si solleva il problema), ma perché nella cultura europea e occidentale, storicamente, è attraverso i volti che si crea la relazione: viviamo di apertura, non di chiusura – e abbiamo avuto occasione di rifletterci sopra proprio nel periodo in cui tutti siamo stati obbligati a portare una mascherina, e ne abbiamo subìto le implicazioni, anche emotive e relazionali. Tra l’altro, non è neanche questione di rispetto di tradizioni altrui. Fino a ieri, il niqab era presente solo in piccole aree del Golfo, e poco altro. E ci sono paesi islamici dove l’higiab è maggioritariamente diffuso, ma il niqab è addirittura vietato per legge. Esattamente come è vietato in alcuni paesi europei. Lo stesso Bangladesh ignorava l’uso del niqab fino a qualche decennio fa: non è tradizione, ma innovazione. La sua recente diffusione tra le popolazioni islamiche anche in luoghi dove non c’è mai stato, in Asia, in Africa o nei Balcani (e in Europa occidentale), è dovuta infatti al manifestarsi di correnti religiose particolarmente conservatrici, sostenute dal denaro e dalle istituzioni educative proprio dei paesi del Golfo, incidentalmente nostri alleati: chi va là a studiare l’islam (e sono moltissimi, grazie ai fondi a disposizione, al prestigio dei luoghi santi di Mecca e Medina, e ai molti incentivi offerti), spesso torna introducendo e talvolta imponendo una usanza prima inesistente, e non islamica, di per sé. Ecco perché bisognerebbe intavolare una discussione seria sul tema, insieme e non contro le comunità islamiche: parlando con loro, non a proposito di loro e contro di loro. Per averle studiate e frequentate abbastanza a lungo, mi azzardo ad affermare che se si facesse un referendum, la maggioranza dei musulmani, e una travolgente maggioranza delle musulmane, sarebbe a favore dell’higiab, ma contro il niqab. E un serio dibattito sul suo eventuale divieto potrebbe essere un modo per aiutare chi è contro a poterlo dire ad alta voce: cosa non facile, perché significa, mettersi contro un pezzo della propria comunità. Soprattutto, anche chi non lo usa e non lo vuole, difende il diritto di altre a portarlo, se percepisce che il problema è sollevato solo in chiave polemica, anti-islamica, magari da parte di chi si attiva anche per chiudere (spesso violando la legge oltre che i principi costituzionali) pure le moschee. Il problema è che le strumentalizzazioni ci sono, e invece di aiutare a risolvere il problema lo aggravano. Se la battaglia contro il niqab la agitano i soliti noti che non perdono occasione per continuare le proprie battaglie discriminatorie anti-immigrati e anti-musulmani, alimentando un facile consenso che effettivamente porta visibilità e fortuna elettorale, non andiamo lontano. A costoro vorremmo solo rispondere che c’è una differenza tra l’agitare i problemi per affrontarli e risolverli, o farlo per lucrare un facile consenso mettendo i propri elettori contro gli immigrati, che nel caso in questione sono un terzo della popolazione di Monfalcone (gioco facile anche perché i primi votano, i secondi in maggioranza no, e quindi conculcare i loro diritti è un’operazione a rischio zero). Bisogna uscire da questa dinamica. Ma non avere paura di sollevare temi che possono anche essere scomodi, ma che è necessario affrontare. Proprio per evitare polemiche future. E soprattutto per mettere le basi di un patto sociale solido e condiviso, anche in una società culturalmente e religiosamente sempre più plurale.

 

Il velo e la regola che manca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 febbraio 2025, editoriale, pp. 1-5

Il Medio Oriente e l’Europa

Un’intervista a La difesa del popolo sull’atteggiamento europeo rispetto al Medio Oriente. Di seguito il link (e un grazie a Germana Urbani): Intervista Difesa del popolo

I cattolici e l’autonomia. Cosa c’entra la fede?

Il carteggio tra il presidente della regione Veneto Zaia e il presidente della conferenza episcopale monsignor Zuppi si presta a qualche considerazione, oltre che sul merito dell’autonomia, sul ruolo della chiesa e dei cattolici in politica. Cominciamo da quest’ultimo punto.

Contano ancora i cattolici nella politica italiana? Molto poco, nel senso dell’orientamento dell’opinione pubblica e del comportamento in cabina elettorale. Un voto cattolico, spostabile secondo gli umori della chiesa, non esiste sostanzialmente più, tanto che non esiste più nemmeno un partito cattolico, come era, fin dal nome, la Democrazia Cristiana. La sua eredità la pretendono in molti, un po’ a sinistra e molto a destra, dove si fa a gara a esibire e dichiarare un cattolicesimo non necessariamente praticato: non diciamo nelle camere da letto e nella formazione delle famiglie (ormai su questo punto lo scollamento è totale e nemmeno più nascosto), ma anche nelle scelte di orientamento valoriale in ambito pubblico. E non ci riferiamo solo a grandi temi sociali, come la solidarietà, il contenimento delle diseguaglianze, l’attenzione ai più poveri (non nominiamo nemmeno gli immigrati), ma anche a indicatori più generici, come evitare la menzogna (che del resto è parte integrante della pratica politica, a qualunque latitudine) o la disonestà (gli ‘atti impuri’ della pubblica amministrazione, per così dire). La chiesa non orienta più il voto anche perché è diminuito di molto il suo pubblico, la sua audience. I cattolici, anche se si ostinano a non accorgersene, o fanno finta, sono una minoranza, nel paese: sempre meno rilevante (i praticanti vanno da un terzo scarso della popolazione nei piccoli paesi a meno di un decimo nelle grandi città, in crollo verticale tra le generazioni più giovani). Ma soprattutto sono divisi al loro interno tanto quanto i non credenti, e il loro voto lo decidono sulla base di considerazioni che maturano altrove che non in parrocchia: nel foro interiore della coscienza (incluso i pregiudizi che ciascuno di noi cova), nel proprio portafoglio, o in vaghe idee in cui ha un ruolo più il telegiornale che la lettura dei vangeli (attività non particolarmente praticata, anche dai praticanti, come dimostrato da molte ricerche).

Quello che è vero in termini analitici non è però vero in ambito pubblico. La chiesa non solo si interroga su moltissimi temi, facendo in questo nient’altro che il suo dovere: ma le sue considerazioni vengono usate nel dibattito pubblico, dalla politica e dai partiti, come pezze d’appoggio per le proprie posizioni. E così è tutto un tirare per la giacchetta, o per la tonaca, tale o talaltra frase del papa, o appunto della conferenza episcopale. Solo che si tratta di una mera strumentalizzazione senza alcun radicamento effettivo. E fa più tristezza che scandalo vedere politici che dell’opinione dei vescovi semplicemente si disinteressano nella normalità della loro vita, usarle eccitati se danno ragione (o sembrano anche solo lontanamente farlo) alle proprie posizioni. Come se questo contasse ancora. E così vediamo le stesse persone (diciamo, per comodità, di sinistra) che aborrono le posizioni della chiesa sull’omosessualità o sull’aborto, incensarla quando si parla di autonomia. E le stesse persone (diciamo, per comodità, di destra) che aborrono le posizioni della chiesa sugli immigrati, incensarla quando si parla di genere, o di difesa di una famiglia tradizionale che non praticano nemmeno loro.

Sull’autonomia siamo alla stessa impasse. La conferenza episcopale prende una posizione dura contro di essa, utile come opinione, ma poco fondabile evangelicamente (basti pensare all’autonomismo e al federalismo quasi militanti di don Sturzo, fondatore del Partito Popolare, che sapeva coniugarsi con una buona dose di meridionalismo). La sinistra esulta e usa l’argomento per sostenere la propria proposta di referendum contro l’autonomia, e i cattolici di sinistra esaltano le dure posizioni, condite di molta retorica, di mons. Savino, vice di Zuppi e vescovo di Cassano all’Jonio (gli stessi cattolici di sinistra, e la stessa sinistra, che bollavano le posizioni di mons. Ruini come ingerenze). Mentre Zaia prende carta e penna e reagisce, spostando il ragionamento dai principi ai contenuti pratici, proponendo un tavolo tecnico. Dimenticando tuttavia che in Veneto l’autonomia è stata usata precisamente come arma retorica per decenni. E, soprattutto, sente il bisogno, pur avendo posizioni sideralmente distanti da quelle ecclesiali su temi come omosessualità o fine vita, quando si tratta di autonomia, di rispondere da presidente e autonomista ma anche ‘da cattolico’. Non si sa mai.

 

La chiesa tirata per la giacca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 settembre 2024, editoriale, pp. 1-5

Israele e Palestina, due pesi e due misure. Troppi silenzi sulle stragi

Lo scorso 7 ottobre una azione terroristica inaudita, pianificata da Hamas, ha portato all’uccisione di 1200 israeliani, tutti civili, tutte vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, e al rapimento di 250 ostaggi. Sono passati 300 giorni, da allora. E la risposta israeliana a questo orrendo massacro ha portato fino ad ora all’uccisione di forse 40.000 (quarantamila!) palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, moltissime dei quali bambini. Una strage sproporzionata, una rappresaglia indiscriminata, violentissima. A cui si aggiunge la crisi umanitaria, certificata anche dalle Nazioni Unite – e spesso intenzionalmente indotta – dovuta ai milioni di sfollati, all’impossibilità di offrire cure mediche, alla difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, di acqua, di medicinali, di energia elettrica. A cui vanno aggiunti gli abusi di soldati e coloni illegali nei territori palestinesi, e un avventurismo politico senza exit strategy, che sta allargando il conflitto in Cisgiordania, in Yemen, in Iran, in Libano, con atti mirati che superano di gran lunga la gravità dei danni provocati dai razzi lanciati su Israele dai suoi nemici. Tutto questo riguarda anche noi: occidentali, europei, italiani. Per le sue conseguenze pratiche (tra cui il probabile arrivo di migliaia di nuovi profughi palestinesi alle nostre frontiere) e politiche: il sostegno acritico al governo israeliano ci isola di fronte al resto del mondo, tanto è inguardabile, per occhi appena onesti, questa logica dei due pesi e due misure.

Eppure prevale un assordante silenzio. Anche nel Nordest, dove pure ci sono sia alcune tra le comunità ebraiche più importanti, antiche e colte, sia una cospicua presenza immigrata musulmana. Poche manifestazioni, e lasciate in gestione a pochi militanti delle ali estreme dello schieramento politico, che non hanno coinvolto i partiti principali e l’opinione pubblica. E relativamente poche prese di posizione esplicite interne alla stessa comunità ebraica locale: legata per ovvi motivi allo stato di Israele (e giustamente timorosa del fatto che sia in gioco la sua stessa esistenza, cruciale per tutti gli ebrei del mondo), ma che non dovrebbe esserlo al suo governo, che dovrebbe essere legittimo criticare, come fanno peraltro molti ebrei israeliani dall’interno e in situazione assai più difficile. Comunità che ha ricevuto una doverosissima solidarietà dopo il 7 ottobre, mentre quasi nulla ne ha ricevuto la comunità palestinese, pur presente sul territorio, anche con esponenti conosciuti (tra cui imam, ma anche medici, professionisti, imprenditori).

Il confronto viene spontaneo. Quando ci sono stati attentati terroristici in nome dell’islam in Europa (ma anche a proposito dei crimini dello Stato Islamico in Medio Oriente), si chiedeva ai musulmani da noi, che fattualmente non c’entravano niente, che spesso venivano da paesi che non erano quelli coinvolti nel terrorismo, e addirittura a quella nati qui, e quindi europei di nascita e formazione, di dissociarsi da quei fatti orrendi e abnormi. E molti l’hanno fatto spontaneamente, arrivando a “dirsi Charlie” dopo gli attentati perpetrati a Parigi, a Bruxelles e altrove. Forse sarebbe giusto chiedere alle comunità ebraiche di levare una voce critica, che c’è, anche nei confronti del governo israeliano, per i crimini che sta perpetrando. Sarebbe più credibile anche la loro richiesta di sostegno, in questo modo; e più facile per i non ebrei offrirlo (specularmente, anche i musulmani, se fossero maggiormente capaci di critica esplicita nei confronti di Hamas e delle leadership islamiche, sarebbero più credibili e riceverebbero più sostegno – l’onestà intellettuale paga più della partigianeria, su tutti i fronti). Altrove, dagli Stati Uniti a molti paesi europei, gli ebrei per primi, e le pubbliche opinioni, hanno reagito, platealmente. Da noi prevale una certa timidezza, e la difficoltà, della politica in primo luogo, anche solo a indicare nell’attuale governo di Israele (certo non nello stato di Israele o peggio nel popolo israeliano) uno dei maggiori responsabili di questa strage. Perché le vittime sono arabi? Perché sono musulmani (e qui sbagliamo: molti palestinesi non lo sono)? Ecco, forse la semina anti-islamica di questi anni, dai testi di Oriana Fallaci in avanti, ha giocato un ruolo. Ma non basta a spiegare tutto. Forse dobbiamo solo assumere, tutti noi, il banale coraggio di dire quello che pensiamo ad alta voce, poco importa se a qualcuno non piacerà, e se magari è sbagliato. E cominciare a discutere con tutti gli interlocutori. Perché le amicizie sono vere solo quando si è capaci di una discussione franca: se l’amicizia può reggere a un litigio e sopravvivere a una divergenza di opinioni.

Israele e Palestina. Quei silenzi sulle stragi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 2 agosto 2024, editoriale, p. 1-5