Perché è ragionevole il limite ai mandati

Luca Zaia gode di tassi di consenso stratosferici: di approvazione trasversale, di immarcescibile e persino crescente popolarità, in fasce assai diverse di popolazione, per età, livello di istruzione, genere, professione.

Non ne diamo un giudizio politico. Non è quello che ci interessa, in questa sede. Lo constatiamo, e basta. È un animale politico di rara abilità e longevità. E vorrà dire qualcosa se il suo consenso personale trascende la sua parte politica, e pesca abbondantemente anche in quella avversaria.

Ma è sufficiente, questo, a giustificare un altro mandato come governatore, e un altro ancora? Vale per lui, come per gli altri governatori, per i sindaci, per gli assessori, e per le altre cariche apicali della politica che prevedono il limite dei due mandati (che poi, nel caso specifico, si tratterebbe del quarto mandato, e non del terzo, visto che governa da prima che entrasse in vigore la norma sui due mandati: è presidente della regione ininterrottamente dal 2010, ed è stato suo vice-presidente dal 2005, se escludiamo una breve parentesi come ministro).

Chi sostiene l’abolizione del limite dei mandati ha un argomento forte: il consenso, la volontà popolare (se pure espressa da un numero sempre minore di elettori: oggi basta la metà più uno dei consensi di meno della metà degli elettori a vincere – e il trend di partecipazione continua a calare, cambiando di molto il significato dell’espressione “volontà popolare”, riducendola di fatto a un suo simulacro). E un altro ancora: perché solo loro? Perché non anche i parlamentari, o i consiglieri comunali, provinciali e regionali? L’obiezione ha senso: seppure chi governa ha un potere molto maggiore di chi si limita a rappresentare. E comunque varrebbe la pena ragionare sul fatto di introdurre il limite anche per gli altri, come alcuni partiti hanno fatto volontariamente. Si dice che così non si formano professionalità politiche adeguate: ma non abbiamo alcuna controprova che, se ci fosse stato maggiore ricambio, le cose sarebbero andate peggio. Mentre abbiamo molti indizi che, con i professionisti della politica, i signori delle tessere, le consorterie permanenti, le rendite di posizione, le ‘ditte’ di vario tipo, le cose siano comunque andate molto male.

Il fatto è che sapere di avere una scadenza, per quanto lontana, obbliga i partiti, e gli stessi leader, a far crescere un ceto politico di ricambio, fresco e innovatore, capace e professionale. Mentre in assenza di limiti le elite tendono ad autoperpetuarsi, e hanno tutto l’interesse non solo a non favorire, ma a ostacolare e impedire attivamente l’emergere di figure politiche concorrenti. Creando un danno enorme: almeno se crediamo che la concorrenza abbia un valore e la meritocrazia un senso, anche al di fuori del mercato e dell’economia.

Piaccia o non piaccia, un monarca, per quanto costituzionale, porta con sé i soliti noti, gli amici e i consiglieri fidati, le cordate e le clientele abituali, i garanti dell’ordine costituito: le proprie corti e i propri cortigiani. Mai figure, come si dice oggi, disruptive, innovative; quasi mai un cambiamento di visione; e mai processi che possano mettere in questioni gli obiettivi raggiunti, o esprimere un giudizio critico sul passato. E questo molto al di là della volontà dei singoli. Del resto, è quello che si è visto in regione anche dopo le ultime elezioni: le continuità, le inerzie (la forza più grande della storia, diceva Tolstoj) hanno prevalso nettamente sulle discontinuità – basta guardare alle nomine e agli assessori. Squadra che vince non si cambia, si dice: il problema è intendersi sul concetto di vittoria – alle elezioni o nella competizione globale? È un aspetto, non secondario, della legge ferrea delle oligarchie di cui parlava uno studioso italiano, Roberto Michels, già all’inizio del secolo scorso. Un leader, inoltre, può pure sembrare eterno e immortale (il potere dà questa illusione), ma invecchia anche lui. E come tutte le persone che invecchiano finisce per vivere più di abitudini che di cambiamenti, per essere più legato al passato, alla nostalgia del buon tempo andato (che peraltro non tornerà mai più: il Nordest è cambiato completamente, dai fasti del suo modello alle difficoltà attuali) che al futuro con i suoi rischi e le sue opportunità, su cui bisogna saper scommettere.

Tra chi punta sulla continuità – che forse è mero continuismo – c’è chi teme il vuoto di potere. Ma il vuoto di potere non esiste. Semmai esiste il potere del vuoto. Che è quello che la politica mostra aspirando a perpetuare sé stessa, anziché aprirsi a un nuovo modo di pensarsi e di pensare la società.

 

Il potere che cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2023, editoriale, p.1

Immigrati: l’inflazione di provvedimenti emergenziali crea più problemi di quanti ne risolve

Cosa ci inventiamo oggi di nuovo sull’immigrazione? Sembra che funzioni così, la faticosa elaborazione di politiche sul tema. Per stratificazioni cumulative, anche in rapidissima successione. Una volta sono le ONG, subito dopo il decreto flussi (unica decisione che va nel senso di un’apertura: tutte le altre sono improntate a una logica suicida di chiusura totale), un’altra volta il raddoppio dei centri per il rimpatrio e l’allungamento dei tempi di detenzione nei medesimi, per poi rilanciare con un pagamento per non andarci (il prezzo della libertà?), e infine con discutibili iniziative sui minori, inframmezzando il tutto con uno scontro con la Francia sui respingimenti a Ventimiglia, e un altro con la Germania perché dà dei soldi a Sant’Egidio o a qualche ONG cui si imputa la responsabilità di salvare delle vite umane, sottoponendoci all’umiliante figuraccia di sentirci ricordare che è quanto fa anche la nostra guardia costiera. Tutte decisioni estemporanee sull’onda di una presunta emergenza, che dura ormai da anni se non decenni. Ma niente che venga deciso tutto insieme, lo stesso giorno, in nome di una riflessione complessiva, di un riassetto globale delle politiche. Oggi qui, domani là, con il contributo di tutti i ministeri: in prima linea ovviamente quello dell’interno, conditi però da una frase choc sulla sostituzione etnica rilanciata da quello dell’agricoltura, una polemica proveniente dalla difesa, un’altra che coinvolge gli esteri, per non parlare del ministro delle infrastrutture, che commenta a tutto campo spargendo parole in libertà su complotti e atti di guerra (per fortuna poco ascoltate nelle cancellerie straniere) anche se le tematiche non sono di sua competenza, con la premier che invece di fare sintesi dà la sensazione di volersi ritagliare un proprio ruolo diretto, come visto con la Tunisia o nella lettera al suo omologo tedesco. Una gara, praticamente. Un brainstorming permanente.

Tutto ciò non può che alimentare un iperattivismo inevitabilmente accompagnato da un crescente livello di improvvisazione, non di rado di irrazionalità, alimentato da una ossessione ideologica che viene da lontano, e da qualche eccesso di furore verbale: nell’assenza di una vera strategia e di azioni di prospettiva. Se ne è accorta persino la/il presidente del consiglio, che se non altro ammette che sull’immigrazione il governo non sta raggiungendo i risultati sperati. E si capisce, dato che l’obiettivo era e resta quello di combattere l’immigrazione, considerandola un problema in sé, anziché regolamentarla, gestirla, interpretandola come l’opportunità che invece rappresenta, per le imprese alla ricerca di manodopera, per una previdenza che altrimenti salterebbe prima del previsto, per una demografia che ci sta già penalizzando enormemente, ma i cui effetti saranno ancora più devastanti e impoverenti nel medio e lungo termine.

Si preferisce, anche adesso che si è al governo e non più all’opposizione, combattere una battaglia che mette a repentaglio i rapporti con i nostri alleati francesi e tedeschi (che, peraltro, paradossalmente, ricevono annualmente più richiedenti asilo di noi, che ci lamentiamo degli sbarchi) e produce isolamento (oltre che qualche probabile bocciatura) in Europa, pur di strizzare l’occhio all’elettorato interno. Inducendo peraltro a provvedimenti che sembrano animati, anziché dalla razionalità, da puro cattivismo, che è categoria politica e culturale assai più tangibile e diffusa del vituperato buonismo di cui tanto si è parlato in passato. Ne sono stati esempi le circolari per  spedire le navi delle ONG in porti lontani o impedire loro di fare più salvataggi nel corso della stessa missione (salvo smentirsi e chiedere il loro aiuto nei momenti di pressione maggiore). E ne sono dimostrazioni recentissime la decisione di portare a 18 mesi la permanenza nei CPR (che, se sono davvero centri per il rimpatrio, dovrebbero avere interesse a diminuire i tempi, anziché allungarli – mentre se diventano centri di detenzione di persone che non hanno commesso reati finiscono per essere semplicemente illegali), o la singolare proposta, mai avanzata né discussa prima, di inventarsi una cauzione da 4.938 euro da far pagare agli immigrati provenienti dai cosiddetti “paesi sicuri”, che dovrebbero fornire una fidejussione (siamo curiosi di vedere come, nella pratica, visto che anche per un italiano ottenere una polizza fidejussoria presuppone dichiarazione dei redditi, proprietà, un lavoro fisso, e banalmente un indirizzo di residenza). Per finire con l’inversione dell’onere della prova per dimostrarsi minorenni, l’inserimento dei suddetti in centri per adulti, e il raddoppio per decreto dei posti disponibili in strutture già oggi al limite della vivibilità.

Forse sarebbe più utile, invece di agire in preda a una spinta compulsiva all’(improvvis)azione, sostenuta da incontinenza verbale e motivata dai pregiudizi del passato, fermarsi un attimo, ragionare a freddo, pacatamente, magari ascoltando qualche voce esperta, copiando qualche esperienza riuscita altrove, e fare persino lo sforzo, maggioranza e opposizione, di fare delle proposte sostenibili, ragionevoli, pacate, non a scopo polemico, che guardino alle prossime generazioni anziché alle prossime elezioni (europee). Tanto, né da una parte né dall’altra, c’è davvero interesse a incancrenire il problema: prima o poi bisognerà offrire delle soluzioni. Che non si ottengono continuando a mettere l’uno contro l’altro, il cittadino contro l’immigrato, la destra contro la sinistra, il nostro paese contro gli altri. Solo quando capiremo questo, usciremo dall’emergenza permanente. E cominceremo a fare buon uso dell’immigrazione.

 

I migranti e le nuove invenzioni, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 settembre 2023, editoriale, p. 1

Mattarella, i migranti e l’Europa

Meno male che Mattarella c’è. Con la consueta chiarezza, in un momento in cui tutti parlano dello stesso argomento – l’immigrazione – con piglio ideologico, paventando inesistenti complotti con propaganda altisonante, rilanciando con nomi nuovi vecchie e già fallimentari ricette, il presidente della repubblica interviene invece in maniera diretta, con linguaggio esplicito, dicendo pane al pane, e lasciando perdere il companatico di slogan che arzigogola la nostra vita politica, rendendola sterile e incapace di decisioni vere. I fenomeni si governano, e i problemi si risolvono, solo se si capiscono, e se si cerca onestamente di spiegarli alla pubblica opinione. E solo se si vuole davvero cercare di risolverli, anziché cercare di dimostrare inesistenti coerenze con le proprie posizioni del passato. Ecco spiegato perché altri non hanno lo stesso atteggiamento di Mattarella, né lo stesso linguaggio.

Pensiamo ad alcune chiarissime parole del presidente: “le regole di Dublino sono preistoria. Voler regolare il fenomeno migratorio facendo riferimento agli Accordi di Dublino è come dire ‘realizziamo la comunicazione in Europa con le carrozze a cavalli’ (…) È proprio una cosa fuori dalla realtà”. Gli accordi di Dublino sono quelli che dicono che dei migranti che sbarcano in Europa, e che si dicono richiedenti asilo, si deve occupare il paese di primo ingresso. Quindi i paesi alle frontiere dell’Europa, e quindi l’Italia in particolare, dato che la rotta del Mediterraneo centrale è quella oggi più frequentata. È una follia in sé, perché queste persone vogliono arrivare in Europa, non in Italia. Questo spiega i movimenti secondari, ovvero i tentativi, spesso riusciti, di andare oltre frontiera (ciò che spiega, al contrario di quanto dice la propaganda del governo, perché paesi come Germania e Francia, ma anche Spagna e Austria, accolgano più richiedenti asilo dell’Italia). Ma produce anche un effetto perverso: perché i molti di cui si può ricostruire che sono prima passati dall’Italia, dovrebbero essere rispediti qui. E siamo stati noi a smettere di riprenderceli, per esempio dalla Germania, ben prima che Germania e Francia decidessero allora di interrompere le redistribuzioni volontarie, che peraltro riguardano numeri molto più piccoli.

Tutto ciò spiega bene come, se davvero l’immigrazione è problema europeo, e lo è, servano soluzioni europee: gli stati nazionali non fanno infatti che rimpallarsi e scaricarsi reciprocamente sulle spalle il problema. Ciò che non è nemmeno nel loro interesse, dato che di immigrazione in Europa abbiamo bisogno (nel nostro interesse) – nell’ordine di 2-3 milioni di persone l’anno, mica bruscolini – e dunque è meglio gestirla e organizzarla che subirla. Il problema è che sono gli stati, che si lamentano della poca azione o dell’impotenza dell’Europa, a tenersi strette le competenze sul tema, con il risultato, irrazionale per noi e doloroso per i migranti, che vediamo.

Dovrebbe essere l’Europa (ma potrebbe farli – con meno forza – anche un singolo paese) a fare accordi di ingresso di migranti regolari, che oggi non ci sono. È proprio l’inesistenza di questi accordi a spiegare, da sola, perché arrivino irregolarmente (e se si capisse questo si sarebbe già sulla via della soluzione del problema). Ma è anche ciò che spiega perché abbiamo un numero di richiedenti asilo abnorme: proprio perché non vogliamo ammettere di aver bisogno di migranti economici, e li costringiamo quindi a dirsi rifugiati. Non lo facessimo, i numeri di richiedenti asilo si ridurrebbero drasticamente: e sarebbe anche più facile mettere in campo una riforma degli accordi di Dublino, dando ai diretti interessati la libertà di circolazione in Europa, e rendendo dunque più facile e meno costosa la loro stessa integrazione, dato che spesso hanno parenti, familiari, amici e comunità che possono sostenerli e aiutarli nei paesi in cui c’è anche più possibilità di lavoro. Ma per fare questo, citando ancora Mattarella, “occorre studiare, definire, porre in campo delle soluzioni nuove, coraggiose e non superficiali”. “Soluzioni naturalmente europee”, dice ancora il capo dello stato. Praticamente il contrario di quello che si continua a fare: tanto più a ridosso di elezioni europee in cui il tema migratorio sarà ancora una volta più comodo per cercare un facile consenso, privo tuttavia di soluzioni, che non per essere affrontato con serietà: cosa dalla quale guadagnerebbero le società, ma non i partiti che le rappresentano.

 

La vera soluzione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 settembre 2023, editoriale, p. 1

Accordi con la Tunisia e politiche migratorie: cosa (non) cambia

Dell’accordo sui migranti tra Italia e Tunisia, il tratto positivo principale – e quello che infatti viene proposto all’opinione pubblica con più convinzione dai rispettivi governi – è che ci sia stato. Per il resto, cambierà poco o nulla. Il che, se non altro, evita che si cambi in peggio. Ma non è davvero un risultato per cui sbracciarsi dall’entusiasmo.

Bene che l’accordo ci sia stato. Bene che abbia coinvolto l’Unione Europea ai suoi massimi livelli. Simbolicamente, per l’Italia, significa l’ingresso ufficiale nel club che conta, per così dire, e la fine di quella che qualcuno, all’opposizione, considera tuttora la presunta impresentabilità della destra. Questa impresentabilità non c’è o è stata ampiamente superata a pieni voti, e non possiamo che gioirne: le due occasioni recenti di contatto tra Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni (la visita in occasione dell’alluvione in Emilia-Romagna e la presenza congiunta in Tunisia) sono lì a testimoniarlo. Ma, per il resto, quanto avvenuto ricorda un po’ la perfida battuta di Kissinger rivolta ai governanti italiani quando si recavano negli Stati Uniti: per i quali sembrava che il risultato fosse ottenuto al momento della discesa della scaletta dell’aereo.

Bene, benissimo, infatti, la cooperazione economica. Ma assai ridotta nell’entità e tragicamente tardiva. La Tunisia è stata il paese che ha fatto da innesco per tutte le primavere arabe, portando all’abbattimento del regime di Ben Ali, dopo vent’anni di potere assoluto sotto la protezione dell’occidente. Ed è stata uno straordinario esempio di successo di transizione democratica, ottenuta in nome di quelli che l’Europa considera i suoi principi fondativi: fu approvata una nuova costituzione, alle elezioni vinsero gli islamisti, ma poi ci furono nuove elezioni, e persero, senza che nessuno abbia messo in questione la legittimità del processo elettorale. Ma la colpa storica dell’Europa – una macchia da cui è difficile ripulirsi – è stata di non aiutarla, questa difficile transizione (si doveva promuovere allora, un serio piano Marshall europeo). Con il risultato che poi è venuta la crisi economica, il terrorismo dell’Isis, il crollo del turismo – completatosi nel periodo della pandemia – e dunque dell’economia: e oggi trattiamo con un autocrate antidemocratico che, per mantenere il consenso interno, ha fatto degli immigrati il proprio capro espiatorio (non diversamente dai partiti che hanno vinto le elezioni in Italia, per certi versi, ma con la radicale differenza che qui – nonostante le grida di qualcuno – la democrazia c’è ancora, e i risultati elettorali ne sono precisamente il frutto).

Bene, dunque, dicevamo, l’aiuto economico, bene gli accordi sull’energia e per l’interscambio di studenti nell’ambito dei programmi Erasmus (speriamo che poi le nostre ambasciate e consolati non continuino nella prassi di rendere il loro ingresso in Italia una corsa a ostacoli, con il risultato che ne beneficiano solo altri paesi europei). Male invece subordinare gli aiuti alle ricette, già fallimentari altrove, del Fondo Monetario Internazionale. E male, malissimo, chiudere tutt’e due gli occhi e anche le orecchie e la bocca, e non pronunciare parola sul tipo di regime che si sta incoraggiando. In Tunisia la democrazia è sospesa dal 2021, il governo è stato dimissionato, il parlamento è stato sciolto, l’indipendenza della magistratura è stata sospesa (abolendo l’equivalente del Consiglio Superiore della Magistratura), è impedita l’attività dei partiti (alle ultime elezioni hanno potuto partecipare solo dei candidati senza sigle, con il risultato che la partecipazione al voto si è ridotta a meno di un decimo del corpo elettorale), e l’espressione di qualsiasi forma di dissenso è vietata. C’è solo l’esecutivo. Il presidente Kaïs Saïed, in sostanza. Che pure gode di consenso popolare – la sua proposta di nuova costituzione, peraltro più islamista della precedente (ma su questo sembra che nessuno abbia niente da dire), ha ottenuto una maggioranza plebiscitaria, seppure con solo un terzo di elettori recatisi alle urne – grazie alla condanna morale delle cricche corrotte e del familismo e famelicismo dei partiti.

Infine: male per le politiche migratorie, che avrebbero dovuto essere la parte principale degli accordi. Si parla come sempre della fine del processo e mai dell’inizio. Si chiede la collaborazione della Tunisia per il controllo delle partenze irregolari e per i rimpatri (collaborazione già autorevolmente smentita, peraltro) ma non si offre nulla in termini di flussi di ingresso regolari, di cui pure abbiamo urgentissimo bisogno e che potremmo contribuire a formare, con reciproco vantaggio. Con il risultato paradossale che in assenza di lavoratori regolari, non potremo lamentarci di avere, da quel paese, quasi solo irregolari, e tra essi, devianti.

L’esternalizzazione delle frontiere ha già fallito – ed è anzi diventata un’arma di migrazione di massa in mano ai paesi coinvolti – quando è stata applicata in Turchia su richiesta della Germania. Non c’è una ragione al mondo per cui debba funzionare in Tunisia su richiesta dell’Italia. Il che mostra, ancora una volta, quanto il dibattito politico sia indietro rispetto alla realtà.

 

I migranti e il nodo Tunisia. Cosa (non) cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2023, editoriale, p.1

25 aprile: le parole per dirlo

Il 25 aprile continua ad essere percepito da alcuni come una data e una festa “divisiva”. Eppure è dalla Liberazione dal nazifascismo che nasce logicamente la Repubblica, che festeggiamo il 2 giugno. E in cui tutti, salvo forse i Savoia, ci riconosciamo.

Quest’anno c’è una differenza, però. Al governo non c’è chi l’ha sempre considerata come una “sua” festa, un motivo d’orgoglio e una rivendicazione di identità. C’è proprio chi, o anche chi, l’ha considerata – pure con polemiche recenti sul ruolo dei partigiani, o ambigui tentativi di ridurla alle sue pagine oscure (dalle foibe ai conflitti tra fazioni o alle vendette personali: che ci sono state, ma non ne inquinano il messaggio e il risultato) – divisiva e non inclusiva. Quale occasione migliore, allora, per i discendenti politici di chi all’epoca è stato sconfitto, ma ora gode dei vantaggi del regime repubblicano costruito dopo quello totalitario, e della legittimità democratica conquistata grazie ai suoi meccanismi elettorali (che il fascismo non consentiva), per fare un passo avanti, per andare oltre, per mostrare definitivamente di essere statisti, di essere al governo di tutti e per tutti, e non solo di una parte che si sente ancora – per giunta a torto – minoranza e vittima incompresa?

Certo, il 25 aprile ci mostra la vittoria di una parte d’Italia. Qualcuno direbbe la sua parte migliore. Certamente non solo la sua parte vincente: quella che come noto scrive la storia. Perché è molto di più: è la parte che ha dato luogo al tutto – i padri e le madri della Repubblica, della democrazia, e della costituzione che di questi valori si è fatta garante trasformandoli in mezzi. Grazie a quella vittoria, combattuta dagli alleati e da una parte minoritaria della meglio gioventù italiana (i partigiani di varia tendenza, diversi e divisi tra loro ma tutti accomunati dal desiderio di sconfiggere il fascismo), e sostenuta da molti di più, oggi siamo il paese che siamo. Con terribili difetti, è vero: ma democratico, e libero. Con una costituzione avanzata e civile, capace di evolvere e di includere diversità che il fascismo avrebbe considerato inaccettabili e avrebbe combattuto. Un paese in cui sono garantiti i diritti di tutti. Anche delle minoranze. Anche di chi, se allora avesse vinto, non li avrebbe garantiti a tutti, li avrebbe esplicitamente conculcati ad alcuni, e limitati a molti, come già aveva fatto, trasformandoli in privilegi di pochi.

C’è un modo di uscire dal meccanismo delle retoriche contrapposte, e pronunciare parole non banali, in qualche modo significative, oggi? Forse sì. Celebrando il 25 aprile, come giusto. Ricordando e raccontando chi ha combattuto e si è sacrificato nella resistenza, affrontando il nemico, che era nemico dell’Italia e degli italiani, non solo degli antifascisti: aveva tolto loro le libertà e li aveva portati in guerra, perseguitando e sterminando una parte di loro, gli ebrei, oltre gli oppositori politici. Un regime indifendibile sotto tutti i punti di vista, con gli occhi di oggi. Ma anche riconoscendo che molti hanno servito il loro paese, o hanno creduto di farlo, in altro modo. Il 25 aprile è padre del 2 giugno, ma anche figlio dell’8 settembre. Il giorno in cui molti si sono trovati di fronte a un bivio, hanno dovuto scegliere, e hanno scelto. Chi andando in montagna a combattere come partigiano. Chi cercando di dare una mano continuando a fare il proprio lavoro di prima: il contadino, l’operaio, l’impiegato di una istituzione, il carabiniere – schierandosi silenziosamente, nel fare più che nel dire. Chi scappando, invece: in esilio, rifiutandosi di contrapporre italiano a italiano, o semplicemente sfollato altrove, rifiutandosi di obbedire ad una autorità non più riconosciuta, ma incapace di assumere altro ruolo. E poi, sì, c’è stato chi ha creduto di dover rimanere fedele alla patria aderendo a una sua caricatura, la Repubblica di Salò. Il volto peggiore del fascismo: un regime in declino che portava con sé i valori antidemocratici e sopraffattori del precedente, aggravandoli, con il sostegno di una potenza totalitaria straniera, i nazisti. Ma in cui tuttavia qualcuno si riconobbe per ideale, e non ha senso negarlo oggi.

Mi sento titolato per dirlo. Io non c’ero. Ma mia madre il 25 aprile si trovava in galera, a San Vittore, con destinazione già prenotata in Germania, in quanto sorella e collaboratrice di un combattente partigiano. Mio zio era comandante di stato maggiore delle brigate Garibaldi. Un militare, un soldato che dopo l’8 settembre aveva scelto di continuare a combattere, ma dall’altra parte: un partigiano liberale, in contrapposizione continua con il suo commissario politico comunista. Ucciso il 26 aprile: da un tedesco, come scritto nei libri di storia. Da partigiani di orientamento diverso dal suo, come pure capitava in quei giorni, come si è tramandato nelle zone dove ha combattuto – fino ad oggi, come ho potuto verificare anche personalmente. Ecco, quella vita, e quella morte, mi hanno sempre spinto a cercare di uscire dalla retorica, dalla visuale a senso unico, dalla contrapposizione manichea tra buoni e cattivi, dove i buoni sarebbero stati tutti da una parte sola. Non è così, non è stato così. La resistenza ha le sue pagine buie, alcune orribili. Così come ci sono state figure positive, che è giusto ricordare, altrove. E in mezzo molti, eroi e anti-eroi della quotidianità. Martiri e banditi. E persone qualsiasi.

Sarebbe un passo avanti se riuscissimo a riconoscerlo, tutti. Che la ragione politica stava essenzialmente da una parte, pur con i suoi torti (al suo interno c’erano anche sostenitori di un totalitarismo diverso, inaccettabile con gli occhi di oggi nonostante incarnasse per molti dei valori nobili e positivi). Mentre altre ragioni, e altri torti, stavano anche altrove, e ovunque. E sarebbe semplicemente onesto se da parte del governo, e del capo del governo prima di chiunque altro, venissero finalmente parole chiare su questo. Un riconoscimento esplicito che quel 25 aprile ha aperto al mondo di oggi, e il mondo di oggi è molto meglio di quello di prima del 25 aprile. Basterebbe questo. E aiuterebbe il mondo a cui Giorgia Meloni e altri (incluso l’incauto La Russa) appartengono a uscire da un complesso di minorità che non ha più ragione d’essere, acquisendo una legittimità culturale (quella politica gliel’hanno data le elezioni) che ancora non ha, perché ancora ambiguamente ammicca ad un passato che dovrebbe imparare a superare. Nel nome della libertà, della democrazia, e della repubblica: che non hanno colore. Chi oggi governa avrebbe tutto da guadagnarne. Sfuggendo a un’accusa che da parte di molti è solo strumentale, polemica: ma di fatto sostenuta da intollerabili e inaccettabili ambiguità. E aiutando il paese ad andare oltre. Facendo esplicitamente propri i valori fondanti della nostra convivenza civile. E facendo in modo che siano i valori di tutti, nessuno escluso.

 

25 aprile: le parole per dirlo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere di Verona”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 25 aprile 2023, editoriale, p.1

Autonomia e LEP: si comincia (non bene)

Il CLEP, o Comitato per i LEP (quello che dovrebbe decidere sui livelli essenziali delle prestazioni, un meccanismo fondamentale per far partire l’autonomia), è stato appena nominato. Sarà composto da 61 membri, coordinati da Sabino Cassese, che conosce come pochi la macchina dello stato. Poiché qualcuno ha definito il comitato come la Costituente dell’autonomia differenziata, ovvero l’organo che dovrebbe determinarne le linee guida e la fattibilità reale, ci piacerebbe poter auspicare che i lavori siano brevi: in un anno e sette mesi i costituenti (che erano 556: ma la Commissione per la costituzione, che materialmente scrisse il testo base per la discussione, era composta di soli 75 membri, e impiegò appena sei mesi a svolgere il suo lavoro) partorirono un’intera costituzione che serviva a inventare una repubblica di sana pianta. Per definire i LEP, in teoria, di tempo dovrebbe bastarne assai meno. Il realismo, tuttavia, ci spinge a qualche pessimismo in più.

Al di là dei tempi previsti o prevedibili (si auspica un anno, ma vedremo), ci sono altri aspetti che colpiscono, nella composizione del comitato. Il primo è la suddivisione professionale. Non solo la forte presenza, ma addirittura la dominanza praticamente monopolistica di giuristi a vario titolo: come se fosse solo una questione di norme, e di come scriverle. Manca quasi completamente, non me ne vogliano i colleghi, il mondo reale: tre o quattro economisti, un demografo e un matematico decisamente non lo esauriscono. E gli esperti di sanità, di scuola, di lavoro, di formazione professionale, d’arte, di cultura, gli intellettuali, le scienze umane (ma anche le discipline scientifiche hard), l’impresa, l’agricoltura, l’artigianato, il commercio, gli esperti di squilibri territoriali, insomma, tutto quello di cui l’autonomia si dovrebbe occupare, dove sono? Vero che si tratta di definire i livelli essenziali di prestazione: ma vero anche che dovrebbero riferirsi a un contenuto su cui bisognerebbe ragionare nel concreto.

L’altra cosa che balza all’occhio del lettore appena avvertito, è l’equilibrio (o meglio, il totale squilibrio) di genere. Di 61 membri, solo 7 sono donne (più una coordinatrice). Il dieci per cento o poco più. Se si pensa che nella commissione dei 75 le donne erano 5, non pare si siano fatti passi avanti significativi dai tempi della Costituente: la percentuale è quasi uguale (vero, nell’assemblea lo squilibrio era maggiore: 21 donne su 556).

Perché ci sembra, questa, una notizia, e non buona? In altri tempi, dopo tutto, sarebbe passata sotto silenzio. Ecco, direi proprio per questo: perché sono cambiati i tempi. Ma la politica non se ne rende conto. E il non accorgersi del problema (anzi, il non capire che è un problema) mostra un ritardo culturale sostanziale.

C’è una miopia profonda dietro al mancato rispetto della parità di genere: che già in un paese appena (più) civile provocherebbe un’indignata reazione. E non per la necessità di tutelare una qualche forma di quote che mi rifiuto di chiamare ancora rosa (manco le femmine si vestissero ancora di rosa e i maschi d’azzurro, superata l’età del fiocco da appendere fuori casa per segnalare la nuova nascita – e forse dovremmo aggiornarci anche su quello). Non è solo un segnale (l’ennesimo, certo) di mancata presa in considerazione, se non di disprezzo, dell’altra metà del mondo. E, no, non è un problema di forma, ma di contenuto. Non (solo) di metodo, ma di merito. La composizione di genere del comitato è clamorosamente sbagliata nella sostanza, oltre a essere antistorica e segnalare un incredibile scollamento dalla realtà del ceto politico. È sbagliata nel merito dell’autonomia, proprio: per capirne le urgenze, le gerarchie, la complessità. Scuola, infanzia, servizi sociali, salute, per citarne solo alcuni: possiamo immaginare questi problemi, oggi, senza comprenderne la dimensione di genere, familiare, di suddivisione dei ruoli? Possiamo davvero immaginare di definire i requisiti di base, e la persistenza degli squilibri, senza un punto di vista femminile?

Solo giuristi maschi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 28 marzo 2023, editoriale p.1

L’autonomia non è per domani. Forse, per dopodomani.

Difficilmente l’autonomia sarà approvata nel primo consiglio dei ministri del nuovo governo, figlio del risultato elettorale prossimo venturo. Al contrario, è destinata ad allontanarsi nel tempo, anche se sarà solo uno slittamento provvisorio. Non perché non sia un obiettivo politico in sé: lo è e lo rimane, e le regioni interessate sapranno fare le dovute pressioni, a cominciare dal Veneto. Ma perché sarà inevitabilmente subordinata ad altri obiettivi politici, o meglio bilanciata con essi.

Con l’attuale governo tecnico, sostenuto da una amplissima maggioranza politica, l’autonomia differenziata era raggiungibile. La cosiddetta bozza Gelmini era già stata considerata accettabile dalle regioni interessate, e il sostegno partitico era trasversale, dunque l’approvazione sicura, perché sostenuta da tutti i partiti della maggioranza, Movimento 5 Stelle incluso. Ora non è più così. L’annunciato trionfo elettorale del centrodestra, al cui interno ci sono i partiti che più hanno a cuore l’obiettivo dell’autonomia, paradossalmente ne allontanerà almeno temporaneamente l’approvazione: per una dinamica legata agli equilibri interni alla coalizione, più che per il ruolo delle opposizioni. Non per le ragioni evocate in passato: le differenze tra una Lega autonomista e Fratelli d’Italia centralista. Di fatto non è più così: sia perché la Lega è diventata negli anni partito nazionale e non più solo territoriale, sia perché si annuncia per Fratelli d’Italia un plebiscito elettorale anche nelle regioni del nord che l’autonomia l’hanno sempre richiesta, come il Veneto, e quindi sarà una bandiera sostenuta anche da questo partito. Ma semplicemente perché Fratelli d’Italia in particolare (che, stando ai sondaggi, sarà di gran lunga il partito maggiore, e del governo otterrà la premiership) vuole arrivare ad approvare anche il presidenzialismo: e le due riforme – entrambe importanti ed entrambe di notevole impatto costituzionale – avranno bisogno della costruzione di delicati e complessi bilanciamenti, che richiederanno tempo e sapienza giuridica per essere approvati.

Non solo: poiché il governo non sarà più tecnico e in qualche modo di unità nazionale, i partiti che resteranno all’opposizione avranno meno interesse a giocare un ruolo costruttivo. Anche perché se sull’autonomia il Partito Democratico aveva assunto un indirizzo sostanzialmente favorevole (ricordiamo che l’autonomia differenziata è richiesta anche dall’Emilia-Romagna, governata dal PD), sul presidenzialismo le questioni saranno molto più complesse, e l’opposizione maggiore. Senza contare che il M5S, che nell’ambito del governo Draghi – che sosteneva – avrebbe votato a favore, in futuro, poiché la sua sopravvivenza sarà dovuta soprattutto al voto di protesta del Sud, è probabile che si sfili.

Non si tratta dunque di un abbandono del progetto, anche perché l’autonomia è nel programma elettorale della coalizione che verosimilmente governerà l’Italia dopo le elezioni, e oltre ai partiti maggiori la sostiene anche Forza Italia. Le regioni che la vogliono attiveranno inoltre le attività di lobbying necessarie. Ma di un rinvio temporaneo inevitabilmente sì. Ed è bene saperlo, per non alimentare aspettative che rischierebbero di essere disilluse. L’autonomia in qualche modo si farà: ormai è nella logica delle cose. Semplicemente, non sarà per domani. Probabilmente, per dopodomani.

L’istinto gregario: il terribile conformismo della politica

In quello che molti hanno definito il tradimento del Nord (la fiducia tolta dalle forze politiche che pretendono di rappresentare il territorio a un presidente del consiglio che tutte, ma proprio tutte, le categorie economiche e professionali, e moltissime articolazioni sociali del medesimo territorio – e d’altrove – volevano fortissimamente che rimanesse al governo) c’è un aspetto che non sottolinea nessuno: che è umano, prima che politico.

Colpisce, delle vicende di questi giorni, la caratura del ceto politico: composto quasi senza eccezioni di yesmen e yeswomen (Sciascia li avrebbe definiti ominicchi, o più probabilmente quaquaraqua) che, pur non essendo d’accordo con quella scelta, non spendono una parola contro di essa, e anzi la giustificano a posteriori (mentendo sapendo di mentire), oltre ad averla obbedientemente votata. Sembra quasi che la politica produca un’antropologia propria: un tipo umano che è sostanzialmente l’opposto di quello che, almeno a parole, la maggior parte di noi (e di loro) vorrebbe essere, e vorrebbe che i propri figli diventassero.

Nessuno (o quasi) di noi – o di quelli tra noi che hanno un minimo di strumenti cognitivi (che non necessariamente hanno a che fare con il livello di istruzione: è un sapere, anzi una sapienza, che molti possiedono come dote naturale) – educherebbe i propri figli all’obbedienza cieca, pronta e assoluta. Passiamo anni (e leggiamo libri, e facciamo corsi per genitori, e consultiamo psicologi) per imparare a farne degli individui adulti, autonomi, indipendenti, critici. E probabilmente raccontiamo di esserlo noi stessi, e cerchiamo di esserlo, nella nostra vita familiare e lavorativa, nelle nostre scelte, nei limiti del possibile. Ma quando si entra in politica, questo valore, questa virtù, sparisce. Improvvisamente sappiamo solo “obbedir tacendo” (e persino, in qualche caso, “tacendo morir”: se non altro di vergogna), delegando tutto al capo, che decide in maniera solitaria, e adeguandoci. Senza porci nemmeno la domanda se è giusto così, o che figura ci facciamo davanti al mondo, e magari anche davanti ai nostri figli.

È un dato trasversale, che non riguarda solo alcune forze politiche (semmai è ironico se chi non pratica l’autonomia di pensiero richiede invece autonomia per il proprio territorio: poiché c’è sempre un rapporto tra mezzi e fini, non adeguare i propri comportamenti ai valori che si rivendicano è un indicatore per capire se sono solo strumentali, o meno). Ma in questi giorni l’abbiamo visto all’opera in varie forze politiche, e in passato, a seconda delle questioni, più o meno in tutte. È un elemento, dunque, costitutivo della politica. Che tuttavia dovrebbe farci riflettere, e innescare qualche domanda in più: sul senso di una politica vissuta in questo modo. Non c’è disciplina di partito che tenga, in circostanze particolarmente gravi (l’abbiamo imparato a nostre spese nei periodi di dittatura: persino in casi estremi, che sfidano la propria coscienza, è spesso possibile dire il proprio sì o il proprio no, obbedire a un ordine o a una legge ingiusta o rifiutarsi di farlo). Eppure la manifestazione del dissenso (si può almeno dire la propria, in dissenso con la linea del partito, ma poi votare, appunto, per disciplina di partito) è merce sempre più rara. E quello che sorprende, appunto, non è tanto che accada: ma che venga accettato come normale, e che anche i militanti e gli elettori rivotino poi le stesse persone. Quasi che avessimo riconosciuto in loro l’istinto gregario che è anche in noi.

Un grande economista, Albert Hirschman, negli anni ’70 scrisse un saggio fondamentale, in cui mostrava le logiche dei due comportamenti dissenzienti fondamentali: la “voice” e la “exit”. La prima consente di articolare meglio il proprio pensiero, spiegare le proprie ragioni, indicare dove sta l’errore. La seconda è la presa d’atto che non ci si ritrova più nelle ragioni delle scelte fatte (o più banalmente che il prodotto non piace più), e si va via (o si sceglie un altro prodotto). Bene, nella vicenda della fiducia al governo di “voice” non se ne è praticamente sentita: i leader hanno fatto le loro scelte in solitaria, e molto in fretta (che, come noto, è sempre cattiva consigliera). Mentre si sono visti alcuni esempi di “exit” a posteriori: che tuttavia fanno eccezione (e se ne parla) precisamente perché sono rari.

 

Un ceto politico composto da yesmen, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” e “Corriere di Verona”, 24 luglio 2022, editoriale, p.1

Liste civiche contro partiti. Come cambiano i modelli organizzativi della politica

Civismo contro partiti. Potremmo leggere anche così l’esito di quest’ultima tornata elettorale. Un fenomeno certo non nuovo, ma in continua crescita e con nuovi e sempre più importanti protagonisti.

Le sfide elettorali comunali sono quasi sempre tra candidati civici, anche nelle grandi città. Alcuni di essi arrivano addirittura a snobbare del tutto i partiti, rifiutando perfino di incontrare in pubblico i leader nazionali venuti a sostenere le loro liste (come ha fatto Tommasi a Verona). E sempre più spesso le liste che ottengono più successo sono quelle personali dei candidati (cioè civiche, o travestite in modo da sembrarlo). Anche a livello regionale. L’esempio di maggiore successo è probabilmente quello di Luca Zaia. Certo, membro di un partito, leghista fino al midollo. Ma capace di non sembrarlo, accreditandosi in maniera personalistica, costruendo liste che hanno stracciato anche quelle del suo stesso partito di appartenenza: con un successo tale da rendere l’esperimento difficilmente ripetibile con altrettanta fortuna, e rendere improba perfino la ricerca di un successore.

Si possono elencare molte ragioni interne alla politica stessa per spiegare il crollo di consenso dei partiti. La fine dei partiti di massa, i numeri drammaticamente calanti di iscritti (e la progressiva incapacità di motivarli o tutelarli), la modesta caratura delle leadership, i processi di personalizzazione e disintermediazione che hanno schiacciato il consenso sui e sulle leader (oggi è quasi impensabile un partito, anche minuscolo, senza il nome del leader sul simbolo, quasi quanto sarebbe stato sacrilego nella prima repubblica immaginare quello di Berlinguer o di Moro sulla falce e martello o sullo scudo crociato).

Ma ci sono ragioni anche sociologiche che hanno influenzato queste dinamiche, ben al di là del crollo di fiducia nei partiti stessi. Il nostro orizzonte temporale è radicalmente cambiato, e oggi si proietta sull’oggi molto più che sul domani: in un processo di presentificazione degli orizzonti che non può non avere effetti sulla capacità di impegnarsi per obiettivi di più lungo termine. Tutto è più breve e cambia più velocemente: le mode come le opinioni. E contestualmente diminuisce la durata temporale di tutto: dei progetti e degli impegni, come dei matrimoni o delle scelte di fede. I processi di mobilità ci fanno cambiare sempre più spesso lavoro e latitudini, e dunque anche reti di relazione. E ci siamo abituati a farlo senza drammi apparenti. Non essendoci più né il posto né il matrimonio fisso (oltre la metà finisce in divorzio), figuriamoci se potevano rimanere fisse le appartenenze politiche.

I partiti, naturalmente, non sono morti. E non solo perché la costituzione tuttora affida a loro, e solo a loro, il ruolo dell’intermediazione tra lo stato e gli individui. Solo l’esistenza di organizzazioni dagli orizzonti lunghi può sedimentare la cornice valoriale in cui inserire le politiche contingenti, e solo istituzioni stabili possono consentire di trasmetterle creando un quadro dirigente diffuso, disponendo di uffici studi e scuole di partito, su cui tuttavia la maggior parte dei partiti in Italia ha rinunciato a investire (e quindi tanto vale la civica…). Ma per sopravvivere devono cambiare natura. Per rappresentare la società hanno bisogno di relazioni con l’esterno, precisamente perché non hanno più la società al loro interno: il dramma è che fanno fatica a farlo, al punto che la società, non sentendosi rappresentata, sta smettendo di partecipare ai rituali della politica (da qui l’astensionismo, e il civismo come alternativa funzionale). Oggi il consenso è volubile (basta pensare alla rapidità di parabole recenti, dal M5S a Renzi), e la partecipazione magari entusiasta, ma più sregolata e veloce, e per natura meno duratura. Per questo i partiti debbono anche diventare – e non c’è niente di male a trarne le conseguenze – delle specie di autobus: certo, con una vaga idea della direzione da intraprendere, ma capaci di far salire le persone anche solo per qualche fermata, finché di loro interesse, e cambiando conducente al bisogno, secondo capacità intercettate volta per volta.

 

I candidati civici e i partiti-autobus, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 15 giugno 20221, editoriale, p.1

Immigrati: la comoda svolta della Lega

La Lega, per bocca di un suo autorevole esponente, il ministro del turismo, apre all’ingresso di lavoratori immigrati per impiegarli nel settore, in profonda sofferenza per carenza di manodopera. La questione è cruciale. Meno lavoratori non significa solo maggior carico di lavoro per chi c’è: significa un servizio qualitativamente peggiore, e quindi turisti che la volta successiva sceglieranno altre mete, con un calo di reputazione, oltre che con un significativo danno economico, che avrà ripercussioni anche negli anni successivi.

Certo, il settore del turismo deve fare un ragionamento, e un’autocritica, sui salari e le condizioni di lavoro che offre, molto diseguali, e talvolta da capitalismo selvaggio. Tuttavia la manodopera mancherà comunque. Per problemi demografici di lungo periodo: il calo della forza lavoro autoctona è drammatico, e insieme alla ripresa delle emigrazioni (di italiani, ma anche di seconde generazioni, figli di immigrati nati qui, che con la cittadinanza e la libera circolazione se ne vanno altrove, dove evidentemente ritengono di essere trattati meglio) produce un cocktail esplosivo, anche per altri settori.

È naturalmente un bene che anche la Lega, che conta nel settore turistico-alberghiero una parte del suo elettorato, si sia accorta del problema. Né deve scandalizzare che lo faccia solo per interesse del settore coinvolto: se non altro gli interessi hanno una concretissima solidità che le emozioni, e anche i princìpi, decisamente più evanescenti, non hanno. Quello che un po’ stupisce (o meglio non stupisce, ma è politicamente poco decente) è che lo faccia senza sentire il bisogno di un minimo di autocritica rispetto a un trentennio di campagne ideologiche anti-immigrati, tradottesi in scelte istituzionali conseguenti e appassionatamente sostenute (come le leggi “prima i veneti”, e altre, che avevano lo scopo di rendere più difficile la vita agli immigrati stessi), che hanno portato un concretissimo dividendo elettorale alla Lega e al centro-destra, danneggiando tuttavia la comprensione della realtà della cittadinanza tutta (il meccanismo del capro espiatorio in politica funziona bene, e chi lo usa lo sa benissimo, e pur sapendo che non corrisponde alla realtà, lo usa lo stesso perché conviene).

Non basta dire che la svolta è necessaria perché la manodopera ora serve. Serviva anche prima. Ma al contempo gli immigrati non sono solo forza lavoro, ma persone. Il modello veneto si fonda saldamente sull’immigrazione. Gli immigrati costituiscono le percentuali più alte di manodopera tra i lavoratori della concia e del cuoio, seguono i tecnici di produzione alimentare, muratori e carpentieri, addetti ai magazzini merci, conduttori di macchine, operai delle pulizie, braccianti, operai del legno e del mobile, personale non qualificato nel turismo (che, come si vede, viene dopo molti altri settori), assemblatori di prodotti industriali e addetti all’agro-industria, saldatori e carpentieri, conduttori di mezzi pesanti, addetti ai servizi di pulizia e alla raccolta dei rifiuti, camerieri, manovali edili, professioni non qualificate dell’industria. E poi c’è naturalmente il piccolo esercito di colf e badanti.

Poiché politicamente si tratta di un’abiura vera e propria, visto che la Lega, fino a ieri, ha fatto di quella contro gli immigrati una battaglia di principio, varrebbe la pena portare il ragionamento un po’ più a fondo. Anche perché quello di cui parliamo è il Veneto di oggi e ancor più di domani.

La presenza complessiva di immigrati è del 9,9%, un residente su dieci (ma in alcuni comuni si avvicina a uno su cinque). Rappresentano l’11,8% degli occupati, tre volte gli italiani tra i lavoratori manuali, e il doppio tra i lavoratori manuali specializzati. Oltre un bambino su cinque è nato da genitori stranieri, e costituiscono il 14,1% dei ragazzi nelle scuole del Veneto (ma per il 71,1% sono nati in Italia). Mentre i matrimoni misti sono oltre il 15% del totale. Altro che emergenza turismo, dunque: è una nuova società, quella che si sta costruendo, molto diversa da quella raccontata per anni dalla politica, per comprendere la quale è necessario più di qualche passo avanti, innanzitutto culturale – per capire davvero in che direzione stiamo andando.

 

Immigrati, il cambio di rotta, in  “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 maggio 2022, editoriale, p. 1