Immigrati, è barbarie

L’immigrazione clandestina è un problema oggettivamente grave e non facilmente risolvibile. Lasciamo in sospeso, per il momento, fastidiosi interrogativi etici. Che tuttavia un paese che si vuole civile non può dimenticarsi di affrontare: a cominciare da quel diritto d’asilo già presente nelle pagine della Bibbia, libro a cui tanti si richiamano senza porsi l’incomodo di leggerla davvero, e sancito dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e da convenzioni firmate anche dal nostro paese.

Limitiamoci alla gestione del problema. In Italia la percentuale di clandestini è più alta perché è più facile vivere clandestinamente, grazie al peso maggiore dell’economia in nero. Il primo problema è lì: e precede l’immigrazione, non la segue. Troppo facile, anche se elettoralmente comodo, scaricarlo sull’ultimo anello della catena.

Detto questo, c’è un evidente problema pratico. Che fare dei clandestini? Lasciarli sbarcare, si dice, non si può più. Ammesso per realpolitik e non concesso in termini di principio. Dietro di loro c’è del resto un ignobile traffico, che è giusto voler stroncare, alla pari del traffico di droga e di armi. Qualcosa, quindi, bisogna fare. Ma siamo sicuri che l’unico modo per risolvere il problema sia il respingimento al limite delle acque territoriali?

Immaginiamo si trattasse di casa nostra: saremmo noi a doverci mettere col fucile in spalla a cacciare gli intrusi dal nostro pianerottolo. O ad assoldare delle guardie per farlo in nome nostro. Ci accorgeremmo allora, forse, che cominciare dalla fine non è per nulla il metodo migliore. E che ha delle conseguenze su di noi, prima ancora che sugli altri. Ci cambia, ci sporca, prima ancora di cambiare loro.

Proviamo a fare un passo in avanti, allora: non farli salpare, con la collaborazione dei paesi di transito? Già più ragionevole e meno drammatico. Ma può la nostra coscienza individuale e la nostra civiltà giuridica accontentarsi di lasciarli in balia delle sevizie, dei ladrocini e degli stupri delle guardie di frontiera libiche o d’altrove? Possiamo far finta di non vedere? No, non possiamo. E’ come nascondere la sporcizia sotto il tappeto, in modo da non vederla. Puzza comunque, prima o poi. E prima o poi qualche telecamera arriverà da quelle parti, a raccontarci che siamo stati noi, a darci un pezzo di specchio in mano per riflettere.

Potremmo allora fare un altro passo in avanti: andare a gestire noi, magari con uno sforzo internazionale ed europeo, quei campi, visto che la nostra è anche una frontiera europea, di cui non possiamo farci carico da soli. Sarebbe già meglio: garantirebbe più efficacia, migliori condizioni e maggior rispetto dei diritti minimi delle persone. Certo, costerebbe: ma lavorare sulle cause, nel lungo periodo, è sempre più efficace e meno costoso che gestirsi le conseguenze senza poter fare null’altro che parare i colpi.

Ma questo ci costringerebbe a comprendere che dovremmo fare un ulteriore passo in avanti, ed andarci ad occupare di quei paesi e di quei problemi, in modo da non farli partire. La soluzione del problema non sta nella chiusura, delle frontiere e delle coscienze, ma in una loro maggiore apertura: solo, in altro modo.

In fondo, a parole, persino la Lega e la falsa coscienza di molti di noi l’ha detto spesso: aiutiamoli a casa loro. Peccato non si sia mai visto nessuno avanzare una proposta di legge per destinare anche un solo miserrimo euro a questo scopo. E ancor meno sforzi per capire i fenomeni, e azioni per rispondervi. Elettoralmente non paga.

E allora prepariamoci a mettere altri sacchi di sabbia alla porta, e a predisporre i nostri fucili, rimpinguando nel frattempo le nostre scorte. Non l’arrivo dei barbari, ma il nostro imbarbarimento, è già cominciato.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 14 maggio 2009, p. 1-5

Obama e l’islam

obama

Per il mondo arabo e islamico, l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato ad al-Arabiya è più che una boccata d’ossigeno: è il segnale di cambiamento e di svolta politica più ampio che ci si potesse aspettare dagli Stati Uniti d’America. La svolta culturale non potrebbe essere più netta. Intanto, sul piano simbolico: per il fatto di aver scelto un network televisivo arabo per la sua prima intervista internazionale, il cui impatto si sapeva sarebbe stato globale. Ma anche sul piano lessicale. Che “il linguaggio che dobbiamo usare è il linguaggio del rispetto” non è qualcosa che arabi e musulmani siano abituati a sentirsi dire, dagli Stati Uniti.

Stefano Allievi insegna sociologia all’Università di Padova ed è autore di diversi libri sull’Islam, tra cui “Le trappole dell’immaginario: Islam e Occidente” (Forum Edizioni 2007).
Non è l’Ich bin ein Berliner! kennedyano, ma nelle sue conseguenze politiche potrebbe assomigliarci. Dall’Europa infatti non ce ne accorgiamo, ma per un mondo arabo e un mondo islamico stanchi, disillusi ed esasperati da una lunga storia di umiliazioni e sconfitte culminata in questi giorni a Gaza, l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato ad al-Arabiya è più che una boccata d’ossigeno: è il segnale di cambiamento e di svolta politica più ampio che ci si potesse aspettare dagli Stati Uniti d’America. Il compito inoltre era più difficile: se Kennedy infatti parlava a un’Europa, e in particolare a una Germania, prima colpite e sconfitte ma allora alleate e in attesa quasi messianica del verbo e del concretissimo aiuto americano, che già si era ampiamente manifestato, Obama ha parlato invece a un mondo islamico sempre meno filoamericano, sempre più critico, in cui serpeggiano rancori sempre meno sopiti, esplosi nell’era di Bush (che dell’islam non ha capito nulla) e dalle sue politiche alimentati.
Le parole prefigurano una svolta quasi a centottanta gradi: le azioni, lo vedremo. Ma già il fatto che Obama chieda di essere giudicato “non dalle mie parole ma dalle mie azioni, e dalle azioni della mia amministrazione” è l’indicazione che un piano d’azione c’è già, e probabilmente sarà illustrato in dettaglio nel già attesissimo discorso da una capitale islamica, preannunciato entro i primi cento giorni di mandato. Le linee guida tuttavia le conosciamo già: fine dell’unilateralismo arrogante (e, per quel che riguarda il mondo islamico, ostentatamente pro-israeliano), chiusura di Guantanamo, ritiro dall’Iraq, impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, persino un diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran, nel quadro di una politica che programmaticamente prevede anche di parlare con i propri nemici, anziché limitarsi a demonizzarli. Certo, è stato ribadito che Israele resta un alleato di riferimento, e sarebbe stato sorprendente il contrario: ma, anche qui, Obama ha parlato di “forte alleato”, non del più stretto alleato, o del baluardo dell’Occidente in Medio Oriente, come ripetuto in una retorica di anni. E probabilmente l’annullamento del viaggio del ministro israeliano Barak negli Stati Uniti ha più a che fare con una riflessione e un bisogno di prepararsi su questo punto, che non con il soldato ucciso da Hamas in un attentato, negli stessi giorni, usato come giustificazione ufficiale.
La svolta culturale non potrebbe essere più netta. Intanto, sul piano simbolico: per il fatto di aver scelto un network televisivo arabo per la sua prima intervista internazionale, il cui impatto si sapeva sarebbe stato globale. Ma anche sul piano lessicale. Che “il linguaggio che dobbiamo usare è il linguaggio del rispetto” non è qualcosa che arabi e musulmani siano abituati a sentirsi dire, dagli Stati Uniti. Obama stesso si è definito così, nel suo rapporto con arabi e musulmani: “listening, respectful”. Parola riecheggiata insistentemente: “Siamo pronti a iniziare una nuova partnership, basata sul mutuo rispetto e sul mutuo interesse”. “Start by listening instead of start by dictate” è una frase più forte e politicamente più impegnativa, per l’orecchio arabo quasi inverosimile, della sua traduzione italiana. C’entra certamente la sua storia personale e familiare, che nell’intervista Obama ha voluto rievocare e mostra di usare sapientemente anche come mezzo per suscitare empatia. Ma il centro del messaggio riguarda anche chi l’ha eletto, basato com’è su un duplice impegno: dire ai musulmani che “l’America non è il vostro nemico. Qualche volta facciamo degli errori, non siamo così perfetti…”. Ma anche dire agli americani che il mondo islamico è fatto soprattutto di gente normale, che “vuole vivere la sua vita e che i propri figli abbiano una vita migliore”, né più né meno degli americani stessi: lontano anni luce dalla retorica dell’asse del male.
Gli arabi come l’hanno vissuta? C’è chi ha pianto (come per un velo che finalmente cade, più che di gioia vera e propria), chi ha espresso entusiasmo, chi cauta apertura, chi – moltissimi – attendismo. Ma c’è anche chi mostra disincanto o accusa apertamente di doppiogiochismo il presidente americano. Non è un caso che persino sulla pur ufficialissima e moderata emittente televisiva che ha ospitato l’intervista, un buon 15% delle reazioni sia stata negativa. In qualche caso riecheggiando il linguaggio intriso di razzismo, anch’esso tipico di una certa eredità araba, usato dal numero due di al Qaeda, al Zawahiri, in un messaggio pronunciato poco dopo l’elezione di Obama, che lo chiamava “servo negro” (“house slave” traducevano i sottotitoli in inglese dall’arabo “abid al-bayt”). Non sono pochi, del resto, coloro che rimproverano il neo-presidente americano di non essere musulmano come il padre (anche se alla causa islamica ciò non avrebbe reso miglior servizio, dato che non sarebbe mai diventato presidente…).
Anche Hamas ha scelto espressioni fuori dal tempo massimo della storia, per commentare l’intervista: “Per Hamas tra Barack Obama e George W. Bush non c’è alcuna differenza”, ha dichiarato un portavoce del movimento da Beirut, Osama Hamdan, ad al Jazeera. E questo “lo porterà a commettere gli stessi errori di Bush, che ha infiammato la regione invece di portare stabilità”, destinando Obama “ad altri quattro anni di fallimenti in Medio Oriente”. Nella società civile di molti paesi islamici, e arabi in particolare, tuttavia, l’intervista ha senza dubbio suscitato interesse e simpatia, confermando le parole pronunciate da Obama nel suo ormai storico discorso di insediamento, che potevano suonare come una sconfessione del sostegno a leader autocratici, o fintamente democratici, alleati dell’Occidente, alla cui successione, dopo un attaccamento al potere portato al limite della sopravvivenza fisica, si apriranno crisi e rivolgimenti drammatici: “Per il mondo musulmano noi indichiamo una nuova strada, basata sul reciproco interesse e sul mutuo rispetto. A quei leader in giro per il mondo che cercano di fomentare conflitti o scaricano sull’Occidente i mali delle loro società – sappiate che i vostri popoli vi giudicheranno su quello che sapete costruire, non su quello che distruggete. A quelli che arrivano al potere attraverso la corruzione e la disonestà e mettendo a tacere il dissenso, sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che vi tenderemo la mano se sarete pronti ad aprire il vostro pugno”.
E dall’Europa? La ferita palestinese sanguina anche nel corpo europeo della umma islamica. E quindi anche qui non basteranno le parole a rimarginarla. Ma la speranza è palpabile. Anche se i musulmani, soprattutto gli arabi, sono abituati a veder disattese le speranze di cambiamento radicale, sempre annunciate dai nuovi leader (come accaduto in questi anni in Algeria, Marocco, Giordania, Siria) ma mai mantenute. La speranza è tuttavia virtù islamica: e anche, come noto, l’ultima a morire. Vista dall’Italia, poi, la speranza si tinge anche d’altro: dell’attesa, destinata a rimanere per ora senza risposta, che qualcosa cambi anche qui. La speranza che l’ottuso anti-islamismo dell’era Bush, da noi declinato nella sottocultura del fallacismo, dispensato a piene mani perfino da altissimi esponenti di governo, trovi parole più sensate e tonalità più civili: che sembrano, entrambe, terribilmente lontane. Ma Obama non abita ancora da queste parti, il vento di cambiamento che ha portato con sé qui non si percepisce, la sua influenza culturale, in quest’ambito e in questo spicchio di mondo, ancora non si vede.

Allievi S. (2009) Obama e l’islam, in ResetDoc,  http://www.resetdoc.org/IT/Obama-islam-allievi.php mercoledì, 15 aprile 2009

Vincitori&sconfitti. Cosa resta del Fisichella day all’università

MOLTO RUMORE PER NULLA? Sconfitti e vincitori del “Fisichella day” (sic…)

Adesso, dopo la relazione di mons. Fisichella, quello che era considerato da alcuni il sospetto malevolo di un gruppo di docenti prevenuti, è diventato una conferma. Una smilza paginetta, su quattordici, dedicata ai trapianti; le cellule staminali nemmeno nominate. Lo stesso per l’intervento dell’on. Lupi, che ha ignorato gli uni e le altre. Lo stesso per la sterminata serie di saluti, capace di tramortire chiunque, di cui forse solo uno o due era incentrato sui trapianti. Qualcuno ha ancora il coraggio di venirci a raccontare che si è trattato di un convegno accademico su “Etica nella medicina dei trapianti e delle cellule staminali”? Che il vero scopo non era fare una forzatura identitaria all’interno di una operazione schiettamente politica?

Ma l’averlo verificato di persona è una amara conferma. E l’aver avuto ragione nel denunciare ciò che stava accadendo è una triste vittoria, all’interno di una più complessiva sconfitta.

Non credo, quando con i colleghi Curi e Zatti abbiamo denunciato quanto stava accadendo, che avremmo immaginato davvero una tale conclusione: la città blindata pur in assenza di uno scontro sociale reale, e un tale sgomitare di potenti intorno a un alto esponente ecclesiale provvisoriamente assurto al ruolo di icona della libertà di pensiero.

Cominciamo dalla fine. Sarà reato di lesa maestà dire con franchezza che la relazione di mons. Fisichella era, sul piano dei contenuti, una delusione? Qualcuno, forse, avrà potuto trovarci spessore umano e spirituale. E certamente vi erano affermazioni condivisibili e altre meno. Ma, diciamolo con franchezza, lo spessore scientifico era alquanto inconsistente. Non solo perché non ha parlato del tema che gli era stato affidato. Ma perché anche le considerazioni sul rapporto tra scienza e fede sono apparse banali e datate. Per non parlare di alcuni piccoli incidenti, a modo loro illuminanti (non si dice che Dio sta nei dettagli?), come il pronunciare la sola parola difficile del testo, polimero, con l’accento sulla ‘e’ come Calimero: gli sguardi smarriti di alcuni tra il pubblico non hanno osato trasformarsi in sorriso, ma si capiva che avrebbero voluto. E’ stato un degno finale, quindi, da parte di chi officiava la cerimonia, chiamarla ‘lectio magistris’, dimenticando che siamo all’Università.

Detto questo, chi sono gli sconfitti di questa giornata, che qualcuno ha ribattezzato “Fisichella day”? Molti, purtroppo.

Sconfitta la città, inutilmente militarizzata per un pericolo inesistente, a pagare il prezzo di una paranoia senza serio fondamento, assolutamente sproporzionata al rischio reale. Un costo economico, un costo sociale e un costo di immagine assurdo, opportunamente strumentalizzato da qualche potente di turno. Ma che sembra essere diventato parte di un meccanismo comunicativo complesso, su cui varrebbe la pena riflettere – è, questa stessa esibizione di forza, e ancor più questa privatizzazione dello spazio pubblico, un messaggio, e assai significativo.

Sconfitti gli studenti. E su questo qualche considerazione va spesa. Il caso l’abbiamo sollevato noi docenti. Ma il clamore, un certo clamore, l’hanno aggiunto gli studenti. Meglio: alcuni studenti. Meglio ancora: uno solo, coccolato dai media proprio per questo suo ruolo, nemmeno più studente di questa Università, afflitto da un’ansia di protagonismo che si traduce in un linguaggio pirotecnico il cui solo risultato è stato di ritorcersi contro gli studenti tutti. I quali, per lo più, hanno intelligentemente criticato e isolato i pochi piccoli moschettieri del boicottaggio. Ma tanto, chi ne parla, chi ne scrive, chi lo sa? L’opinione che passa è che gli studenti sono facinorosi. Poco importa che da soli abbiano programmato una serie di iniziative di approfondimento su questi temi il cui spessore scientifico è largamente più elevato di quello cui abbiamo assistito il 6 marzo, pur con zero finanziamenti, il supporto di nessuno, e nessuna eco sulla stampa. Ma se l’espressione ‘intelligenza politica’ ha un senso, e la sua mancanza un significato, forse qualcuno dovrebbe riflettere sul risultato che ha ottenuto: sul fatto che quella che avrebbe potuto essere una vittoria – sollevare un problema anche di principio non irrilevante, e discuterne di fronte ad un’arena assai vasta – si sia trasformata in una cocente sconfitta. Va detto, a questo proposito, che una parte del gruppo contestatore, piccola ma reale, ha manifestato intolleranza concettuale nel voler espellere dall’Università una posizione etica religiosamente ispirata: e questo è inaccettabile di principio, moralmente censurabile, e politicamente stupido, perché ha consentito poi ad alcuni, come gli studenti co-organizzatori del ‘convegno’ in cui era ospite Fisichella, di farsi passare per vittime, mentre erano gli artefici iniziali di una modalità di porsi arrogante e prevaricatrice, appoggiata da una fetta consistente di potere cittadino e accademico. L’arroganza e la prevaricazione speculare e, va pur detto, più rozza nel linguaggio e nei metodi di chi ha voluto rispondere con grida sconsiderate ha fatto passare inevitabilmente in secondo piano tutto ciò. Faccio modestamente notare, a contrario, quanto siano state più efficaci ed astute le modalità di contestazione attuate in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico, a cominciare dall’acquisizione della complicità della Hack, che ha potuto far sentire la voce degli studenti dove molti non l’avrebbero voluta sentire, e dove meno di tutti il rappresentante degli studenti aveva parlato a nome loro: quella sì una meritata vittoria comunicativa.

Sconfitta l’Università. Che ha abdicato in questa occasione alla sua missione più alta, cedendo alla protervia egemonica di alcuni, tutti amici degli amici. Non i cattolici. Guai a far passare questo messaggio: cattolici ve ne erano anche tra chi ha criticato le modalità del convegno. Ma una specifica componente cattolica organizzata, che ha un nome e un cognome. Che si è costruita la sua piattaforma di visibilità, presumibilmente anche in vista delle elezioni rettorali, in cui giocherà un ruolo importante, e si è capito per chi. Si può leggere in questa chiave la piccola gaffe del preside della facoltà di medicina, probabilmente il vero vincitore occulto della giornata, che ha chiamato l’onorevole Lupi ‘monsignore’: qualcosa di più di un lapsus. L’Università ha perso perché alcuni, al suo interno, hanno voluto fare una arrogante furbata, e gli è stato permesso, anzi, si è collaborato a realizzarla; ha perso, perché ha perso il controllo della situazione, perché come un apprendista stregone ha messo in moto un meccanismo che non è stata più in grado di controllare; ha perso, perché è stata espropriata di una sua stessa iniziativa, privatizzata dai promotori a proprio uso e consumo, e utilizzata come passerella da tutto ciò che non avrebbe dovuto essere lì dentro; ha perso perché è stata soltanto la sede di un evento e il suo megafono, ma è stata, di fondo, tragicamente assente.

Sconfitti noi, i docenti che hanno sollevato il caso. Che volevano solamente innescare una discussione civile, ma che nel vedersela presa in mano dagli interlocutori più disparati, per i motivi più disparati, in un impressionante gioco di strumentalizzazioni reciproche, hanno scoperto di aver creato loro malgrado un gigantesco spot pubblicitario non solo e non tanto per monsignor Fisichella, quanto per interessi altri e più alti, che poco avevano a che fare con il caso in questione. E non mi riferisco alla Fondazione che ha organizzato il convegno, che di suo fa un onesto mestiere, certo corresponsabile, ma forse strumentalizzata anch’essa da interessi che passavano largamente sopra la sua testa. Paghiamo, evidentemente, un peccato di ingenuità: non pensavamo si sarebbe arrivati a tanto, e non avevamo valutato nel giusto modo le conseguenze del nostro gesto. Paghiamo, probabilmente, un peccato di presunzione intellettuale: il pensare che una libera discussione tra liberi cittadini, gettata nello spazio pubblico, possa rimanere tale, senza rischiare di venire cannibalizzata da altri. Paghiamo, anche, un banale peccato di libertà individuale: voler dire quello che si pensa, da persone che non hanno ruoli di potere e non aspirano ad averne, per motivi che con il potere non hanno nulla a che fare. E’ triste, quindi, pensare di avere avuto ragione ma, alla luce di quanto è successo, dover credere che sarebbe stato forse meglio non sollevare il caso, lasciare che gli interessi di alcuni continuassero a spadroneggiare con la solita protervia, tanto non c’è niente da fare. Non voglio pensarlo e non voglio crederlo. Ma, in questo momento, prevale l’amarezza: la vittoria, apparentemente, è ‘loro’. Una lezione utile, tuttavia, una piccola vittoria, c’è anche per noi: ci siamo accorti che è bastato poco per disturbare il manovratore, molto al di là delle nostre intenzioni. Segno che avevamo colpito nel segno… E che discutere, dopo tutto, può davvero servire a qualcosa.

Sconfitti, in parte, i media. Che sono stati, va pur detto, il mezzo attraverso il quale la discussione si è sviluppata, e in questo senso un formidabile strumento di democrazia. Che hanno svolto un ruolo di trasparenza e di pubblicizzazione fondamentale, mettendo in luce, in alcuni casi, ciò che avrebbe preferito rimanere in un assai più pratico cono d’ombra. E che hanno informato come doveroso degli sviluppi della situazione, mettendosi in ascolto delle diverse voci della città: e di questo va dato loro atto – questa, se vogliamo, è la loro vittoria. Ma che hanno commesso alcuni peccati abituali, che hanno avuto un ruolo nel caso specifico. Perché hanno titillato, per far fermentare la notizia, i malsani desideri di visibilità di alcuni, andandoli a cercare prima ancora che questi cercassero loro. Perché hanno usato talvolta un linguaggio roboante che si è trasformato, come spesso accade, in una profezia che si autorealizza. Perché non hanno informato, con le dovute eccezioni, su alcuni dati di base che sono pur rilevanti (chi rappresenta chi, quanto conta, al di là di quanto forte abbaia). Perché, quando si è arrivati al punto, si sono accontentati dei messaggi provenienti dal ‘centro’ senza cercare contraltari tra le voci di ‘periferia’, che avevano invece ascoltato fino a quel momento. Perché molti giornalisti – e lo sappiamo per esperienza personale, visto che ce lo chiedevano – sapevano che c’erano in ballo importanti questioni elettorali interne all’università, e forse anche alleanze e interessi trasversali, che riguardano la città nel suo complesso e il suo futuro, con grandi interessi economici in gioco, e che sarebbe stato interessante indagare. Ma non uno che ne abbia scritto. Mentre altri, ed è più grave, non se ne sono resi conto. E solo pochi, avendolo avvertito, sono stati tacitati in anticipo dalle reazioni degli interessati.

Sconfitta, mi pare, la Chiesa: silente, probabilmente con buone ragioni, anche perché di fatto essa stessa esautorata, a livello locale, e rappresentata quindi dai suoi principi papalini. Una Chiesa la cui immagine ancora una volta viene associata al potere e ai suoi rappresentanti: che, non a caso, hanno fatto a gara – anche quelli non credenti, come ci stiamo abituando a vedere in questo tempo e in questo paese in cui il tasso di clericalismo è spesso inversamente proporzionale alla fede – a fingere di omaggiarla, stringendosi intorno a monsignore (ah, quella sigla che precedeva il suo nome, quel SER – Sua Eminenza Reverendissima – che non usa nemmeno più altrove, e che in Università, con tristo servilismo, spiccava incongrua ma significativa). Certo, questa strumentalizzazione reciproca giova al suo potere, ed è per questo che viene con successo praticata da entrambe le parti, ma specularmene si trasforma in una controtestimonianza che non fa onore al messaggio che vorrebbe e dovrebbe trasmettere.

Sconfitta, certamente, la politica, quella che si occupa di problemi reali, che cerca di affrontarli e risolverli. Ma vincenti, totalmente vincenti, i politici, invitati e no (e vale anche per i piccoli politici in sedicesimo oppositori dell’iniziativa, che anche loro si sono guadagnati il loro quarto d’ora di celebrità a spese della città): astutamente preoccupati di gestirsi un’immagine di cui poi i giornali parlano, accuratamente lontana dagli interessi che poi maneggiano, dei quali invece cercano di far parlare meno. Non è un caso che in questa vicenda, molti media e tutta la politica d’accordo, il tema sia diventato, alla fine, la libertà di parola di uno, mentre era il suo esatto opposto: il suo monopolio, il suo uso prevaricatore, da parte di pochi.

Un considerazione finale. Raramente abbiamo visto, a livello locale, una così consistente parata trasversale di potenti stringersi intorno a un alto prelato: e mai, credo, in questa Università. Un segno dei tempi, certo. Ma anche qualcosa di più. Guardando quella impressionante sfilata di facce, tutte maschili (non me ne voglia la presidentessa della Fondazione organizzatrice, se non l’annovero tra coloro che in quella sede contavano davvero), mi sono venute alla mente certe grottesche caricature di George Grosz. C’erano tutti: il potere politico – nelle sue varie sfaccettature, purtroppo indistinguibili nonostante la diversità di schieramento – il potere ecclesiastico, il potere baronale. Anche il potere economico, assente nei suoi rappresentanti, ma corposamente rappresentato nei suoi interessi. E una tale potenza di fuoco, un tale unanimismo, una tale volontà di cantare all’unisono, al cittadino comune, che non è uomo di potere e che non spera di diventarlo, non può che suscitare un’amara inquietudine, e produrre un brivido freddo alla schiena.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 21 marzo 2009, p. 29

Convegno con monsignor Fisichella. Era necessario avviare il dibattito

Di questa vicenda si è parlato persino troppo. Ma è un segno, evidentemente, che di discutere c’era bisogno. Vorremmo evitare, tuttavia, almeno la logica degli schieramenti, il richiamo alla censura, il facile gioco dell’anatema reciproco, l’ideologizzazione esasperata.

La lettera aperta che io e i colleghi Curi e Zatti abbiamo scritto voleva essere un segnale e un richiamo. Un richiamo di opportunità e di metodo, e un segnale che all’università non si può e non si deve applicare la logica dell’occupazione del territorio e delle bandiere identitarie.

Da questo punto di vista l’iniziativa del 6 marzo non era impostata, a nostro parere, nella maniera ideale e più consona alla sede. Le stesse motivazioni ribadite dagli organizzatori, che pure di mestiere fanno un encomiabile lavoro, sono risultate assai deboli, nel motivare una scelta blindata e a senso unico. Di più: tale modo di procedere si ritorce contro le ragioni di cui gli stessi relatori sono portatori, che meritano ascolto e rispetto, e che è giusto vengano prese in considerazione e dibattute, anche in università.

Tuttavia, siamo stati chiari fin da subito: “Non intendiamo contestare il diritto di parola di alcuno. L’Università non è un luogo dove esso si nega. Al contrario, è semmai, ed eminentemente, un luogo in cui la parola si analizza, si approfondisce, si discute, dove non si fugge il confronto, ma lo si ricerca programmaticamente”. Quindi, nessuna censura. Nemmeno la richiesta di cambiare programma.

Evocare lo scontro tra laici e cattolici, o addirittura il bavaglio ai cristiani e alla Chiesa, è quindi una impostazione ideologica fuorviante e risibile, una vittimizzazione che nulla ha a che fare con quanto è in gioco in questo momento. Lo scontro non è tra laici e cattolici, ma tra chi vuole il confronto e chi vuole soltanto dire la sua.

Credo sia arduo, nell’unico paese al mondo in cui il giornalista esperto di questioni religiose si chiama vaticanista, e la presenza della Chiesa cattolica nello spazio pubblico, anche sui temi qui evocati, evidentissima, parlare con qualche senso logico e onestà intellettuale di crociate anticattoliche. Semmai, è probabile che l’attitudine alla privatizzazione della verità, visibile da varie sponde, esacerbi gli animi. Ma questa difficoltà attraversa tutte le identità e appartenenze, non solo la Chiesa. Non è un caso che i sondaggi intorno al caso Englaro, per citare l’ultimo e più clamoroso esempio di discussione pubblica sulla bioetica, abbiano concordemente mostrato una forte divaricazione tra le prese di posizione ufficiali della Chiesa cattolica e il pensiero di coloro che avrebbero dovuto da essa sentirsi rappresentati. Così come interventi anche di scienziati di campo laico e di impostazione assolutamente non religiosa abbiano mostrato dubbi, lacerazioni, ed esplicite posizioni in sintonia con quelle rappresentate anche, non solo, dalla Chiesa.

Dunque, nessuno scontro: nemmeno tra accademici e chierici. Su questo, due parole per evitare equivoci interessati: non abbiamo rifiutato alcun confronto. Semplicemente, non avevamo mai chiesto di partecipare a quel dibattito. E’ stato mons. Fisichella, per sua dichiarazione a questo giornale e a me telefonicamente, con un gesto apprezzato, a dichiararsi stupito delle modalità organizzative dell’incontro, mostrandosi disponibile a un dialogo che altri, più realisti del re, temevano. Proprio per questo, cogliendo questa disponibilità, e non praticando logiche di schieramento, i miei colleghi, in una iniziativa in corso di organizzazione, hanno rilanciato: invitando mons. Fisichella, ma in un contesto dialogico vero. Mi pare una lezione di stile: in sintonia con lo spirito e la lettera del nostro appello.

Ancora più arduo e in mala fede evocare un inesistente scontro tra destra e sinistra. Per molti motivi, uno dei quali è che chi scrive ha troppo rispetto per la Chiesa per volerla ascrivere alla destra, che pure vorrebbe anche oggi strumentalizzarla ai propri fini.

Detto questo, siamo in Università, di cui ho una concezione alta: un luogo in cui la discussione critica, il confronto aperto e la ricerca senza pregiudiziali sono la linfa vitale e la stessa ragion d’essere. E in cui la censura è fuori questione. Per questo, a titolo personale, parteciperò, tra il pubblico, all’iniziativa del 6 marzo, ascoltando le voci che lì si esprimeranno. E poi, con maggiore entusiasmo, parteciperò alle iniziative di confronto e di approfondimento che si stanno organizzando: e che altri (studenti, cittadini, associazioni) vorranno organizzare. Credo che l’Università, e la città, avranno tutto da guadagnare da una discussione pubblica e matura. Che siamo lieti sia iniziata.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 3 marzo 2009, pp. 1-12

anche in

“Ecco perché sarò in aula ad ascoltare monsignor Fisichella”, in “Corriere Veneto”, 3 marzo 2009, p. 7

Sull’etica-staminali nessuna esclusiva

Il giorno 6 marzo si svolgerà all’Università di Padova, nella Sala dei Giganti di Palazzo Liviano, un convegno su “Etica nella medicina dei trapianti e delle cellule staminali”. Tema di grande attualità, controverso, sul quale è aperto uno scontro sia nel mondo scientifico che nel paese, e di cui è certamente opportuno informare e discutere.

Sorprende tuttavia l’articolazione dell’incontro: che prevede, dopo i saluti d’uso, solo un’introduzione del Vicepresidente della Camera dei Deputati, on. Maurizio Lupi, esponente di Comunione e Liberazione, e un’unica relazione di Mons. Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia Pro Vita. Nessuna discussione è prevista.
Questa scelta chiusa al dibattito e di parte, del tutto legittima in qualunque altro contesto, in sede universitaria, luogo per eccellenza dell’educazione al pensiero critico, dispiace e sconcerta; perché su temi così importanti, che coinvolgono ragione ed emozione, fede e scienza, e producono un intenso dibattito sociale, si preferisce la ricerca dell’egemonia alla discussione critica.
Non intendiamo contestare il diritto di parola di alcuno. L’Università non è un luogo dove esso si nega. Al contrario, è semmai, ed eminentemente, un luogo in cui la parola si analizza, si approfondisce, si discute, dove non si fugge il confronto, ma lo si ricerca programmaticamente; non è invece il luogo per promuovere l’aggregazione per bandiere identitarie, oggi fin troppo praticata nella società italiana.
Chiediamo quindi che l’Università si faccia promotrice di una discussione franca e aperta su queste tematiche, che tenga conto di tutte le opinioni in campo, senza dare ad alcuno il diritto di definirne in esclusiva i temi e i limiti. Tanto più in questi tempi, in cui su tematiche analoghe e correlate si è acceso un vivo dibattito nella società, e in cui ogni idea di possesso esclusivo della verità, da qualunque parte provenga, divide drammaticamente le coscienze, anche all’interno degli stessi settori da cui proviene.

Prof. Stefano Allievi, sociologo

Prof. Umberto Curi, filosofo

Prof. Paolo Zatti, giurista

Qualche giorno dopo…


Riguardo alla prevista ‘Lettura’  di Mons. Fisichella abbiamo sollevato  una questione  che non riguarda le persone né le opinioni,  ma solo il metodo propagandistico, programmaticamente chiuso al confronto, estraneo allo spirito del dibattito universitario e particolarmente inopportuno nel momento in cui la questione bioetica vede in atto uno scontro aspro e condotte aggressive  sul piano istituzionale e su quello mediatico, senza risparmiare le persone coinvolte.

Si levano ora all’interno del mondo studentesco voci e  proposte che si caratterizzano per un atteggiamento eguale e contrario, e abbandonando il piano della critica e della discussione mirano ad espellere dall’ambito universitario una posizione etica, negando la base stessa di ogni confronto: il diritto di parola. Esprimiamo il nostro totale dissenso da queste posizioni  e confidiamo che gli studenti sapranno isolarle.  L’Università deve restare lo spazio della libertà di esprimersi e confrontarsi per tutte le opinioni che accettino le basi costituzionali della convivenza; solo l’intolleranza non può e non deve abitarvi”

Stefano Allievi, Umberto Curi, Paolo Zatti

“il Mattino”, 24 febbraio 2009, pag. 1-20

Due pesi e due misure

Il fatto: pregano in piazza, i primi; pregano in piazza, i secondi. Il luogo: davanti al Duomo di Milano, i primi; davanti alla clinica La Quiete di Udine, i secondi. Il motivo: in solidarietà con i loro correligionari di luoghi più sfortunati, i primi; in solidarietà con una ex-ragazza più sfortunata di loro, i secondi. Per che cosa: perché oltre 1300 di essi, di cui un terzo bambini, sono stati massacrati in pochi giorni in una guerra profondamente asimmetrica, i primi; perché una di loro potrebbe passare da una vita dubbia a una morte certa, i secondi. Contro che cosa: la violazione reiterata della legalità internazionale, i primi; l’applicazione di una pur approssimativa legalità nazionale, i secondi. Il giudizio: sono considerati estremisti e fondamentalisti, i primi; sono considerati difensori della vita, i secondi. Le reazioni: una campagna di stampa durissima nei confronti dei primi; la mera registrazione della notizia nei confronti dei secondi.

Si battono contro una morte certa, già avvenuta e di massa, i primi; si battono contro una morte opinabile, forse a venire, forse già avvenuta, i secondi. Sono solo una piccola parte della pubblica opinione che dicono di rappresentare, i primi; sono solo una piccola parte della pubblica opinione che dicono di rappresentare, i secondi. Chiamano assassini coloro contro cui si battono (uno stato potente e in questo momento aggressivo), i primi; chiamano assassini coloro contro cui si battono (un padre, un giudice, coloro che li sostengono), i secondi. C’è chi si è scusato pubblicamente per le azioni e le parole dei propri correligionari, tra i primi; non c’è chi abbia fatto altrettanto, tra i secondi. Sono una minoranza rumorosa, i primi; sono una minoranza rumorosa, i secondi. Non rappresentano la propria pubblica opinione, i primi; non rappresentano la propria pubblica opinione, stando ad autorevoli sondaggi, nemmeno i secondi. Eppure credono di avere la verità in tasca, i primi; eppure credono di avere la verità in tasca, i secondi. Godono in genere di pessima stampa, i primi; godono in genere di larga e ottima stampa, i secondi. Sono quindi condannati dalla pubblica opinione, i primi; non sono quindi condannati dalla pubblica opinione, i secondi. Si dice che strumentalizzano la preghiera in pubblico, i primi; non si dice che strumentalizzano la preghiera in pubblico, i secondi. Per cui ci si scandalizza e si vuole impedire che la ripetano, i primi; per cui non ci si scandalizza e non si vuole impedire che la ripetano, i secondi. Dimenticavo: sono musulmani, i primi; sono cattolici, i secondi.

Per quel che vale, non condivido metodo, toni e messaggio tanto dei primi quanto dei secondi, anche se posso comprendere alcune ragioni di entrambi. Non mi schiero quindi né con gli uni né con gli altri.

Come nei giochi della Settimana Enigmistica: trovate le somiglianze e le differenze tra le due figure. E poi datevene la spiegazione che preferite.

Stefano Allievi

Due pesi e due misure, in “Il Manifesto”, 7 febbraio 2009, p. 3

Omosessualità. Mi sorprende il ‘distacco’ delle donne

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gazzettino

Allievi S. (2009), Omosessualità. Mi sorprende il ‘distacco’ delle donne, in “Il Gazzettino”, 27 gennaio 2009, p.11, intervista di Annamaria Bacchin I S

Il diavolo e l’acquavite

Volgere il male in bene, il diavolo in acqua santa (o magari in acqua della vita, ovvero in acquavite), è prerogativa del sacro. Possiamo dimostrarlo con un breve apologo enoico.

Per un qualche errore di dosaggio nei fermenti, accadeva che alcune bottiglie del vino bianco di una certa regione della Francia si stappassero all’improvviso: questo vino, chiamato “diable”, perché indiavolato, ‘saltatappo’, a causa di questo errore di fermentazione doveva essere buttato.

Ma un monaco benedettino (appartenente cioè a quell’ordine a cui dobbiamo, insieme ai cistercensi, se la viticoltura è sopravvissuta alla caduta dell’Impero Romano e alle invasioni barbariche, grazie alla tradizione vitivinicola che custodirono e tennero viva all’interno dei conventi) ebbe l’illuminazione di lasciare fermentare appositamente una seconda volta, ma in bottiglie ben spesse e con i tappi di sughero accuratamente legati, quel vino destinato usualmente a più tranquilli approdi.

Dobbiamo a quell’oscuro e per molti santo monaco, tale Dom Pérignon, il cui nome è ora giustamente giunto a fama imperitura, la geniale creazione di quello che è oggi il vino più famoso del mondo: lo Champagne, dal nome di quella regione di Francia le cui vigne, secondo alcuni paleontologi sicuramente francesi e sciovinisti, sarebbero le più antiche al mondo.

Grazie agli sforzi certamente illuminati (è banale dirlo: dallo spirito…) di quest’uomo di preghiera, il “diable”, pur conservando la sua energia e il suo gas, è vinto e sottoposto all’ordine del mondo e al dominio dell’uomo, per la sua gioia e la letizia dei suoi commensali.

A proteggerne il prezioso frutto aiuterà anche San Vincenzo, diacono spagnolo martirizzato nel 304, divenuto in Francia il patrono dei vignaioli (e dei bevitori, immaginiamo), pare, a causa del gioco di parole cui si presta il suo nome, che sarebbe piaciuto a un cabalista: Vincent, cioè vin-sans-eau.

Allievi S., (2008), Il diavolo e l’acquavite, in “Servitium”, n.177, pp.105-106

Del vino e dell’islam

Il vino, le bevande inebrianti, per estensione tutto ciò che altera la coscienza, e quindi anche le droghe, è come noto vietato da un precetto coranico.

Ma, come altrettanto noto ai frequentatori del mondo musulmano, così come dei musulmani immigrati, si tratta del meno rispettato dei divieti alimentari. Vive, più o meno, la stessa sorte del divieto dei rapporti prematrimoniali nel mondo cattolico. Ma si tratta di un peccato evidentemente più frequente e ripetuto…

Il problema, in realtà, è innanzitutto nelle origini, ovvero nel precetto. Che, incessantemente ripetuto dai guardiani dell’ortodossia, e perciò considerato una sunna, ovvero una tradizione inderogabile, è in realtà assai più ambiguo anche nella sua genesi, nella sua origine e nelle sue successive modificazioni.

Il vino viene presentato in alcune pagine del Corano come frutto buono e inebriante che diventa addirittura segno per chi sa ragionare e riconoscere il divino sulla terra. La sua prima menzione, nell’ordine della rivelazione (come noto, il testo del Corano è riportato non in ordine cronologico, ma con un criterio di lunghezza, dalla sura più lunga alla più breve – come le lettere di Paolo, per capirci; seguiamo qui la classificazione cronologica classica della vulgata di re Fu’ad, come riportata nella traduzione del Bausani, e ne riportiamo l’ordine): “Pure dai frutti dei palmeti e delle vigne ricavate bevanda inebriante e cibo eccellente. Ecco un segno per coloro che capiscono” (sura 16,67; abbiamo scelto qui la traduzione dell’Ucoii: probabilmente non la più filologica, ma certamente la più diffusa tra i musulmani in Italia, e quindi anche, dal nostro punto di vista, la più inattacabile). Le successive sure meccane che parlano di vino, lo descrivono come uno dei premi di cui godranno i giusti in paradiso: “Provvederemo loro i frutti e le carni che desidereranno. Si scambieranno un calice immune da vanità o peccato” (52,22-23; più esplicito Bausani: “E si passeranno a vicenda dei calici d’un vino che non farà nascer discorsi sciocchi, o eccitazion di peccato”). E ancora: “I giusti saranno nella delizia, [appoggiati] su alti divani guarderanno. Sui loro volti vedrai il riflesso della Delizia. Berranno un nettare puro, suggellato con suggello di muschio – che vi aspirino coloro che ne sono degni” (83,22-26; anche qui più esplicito Bausani, che al v. 25 traduce: “saranno abbeverati di vino squisito”). Fin qui, le sure meccane, rivelate quando Muhammad era la guida di una comunità minoritaria e anche mal vista, una religione tra tante in quella città politeista e plurale sul piano religioso che era La Mecca al tempo del Profeta.

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Globalizzazione e culture della salute. Corpi migranti e società plurale.

AfricaeMeditteraneo
ALLIEVI S. (2008). Globalizzazione e culture della salute. Corpi migranti e società plurale. AFRICA E MEDITERRANEO. vol. 2 (64), pp. 8-13 ISSN: 1121-8495.