Il costo sociale e familiare del lavoro di cura. La dura vita dei caregiver

I caregiver sono le persone che in famiglia si occupano di altre persone – bambini, malati, anziani, disabili, in generale persone non autosufficienti – e se ne prendono cura (ci sono poi quelli professionali, salariati, che esulano dal nostro discorso). Questa figura riguarda tutti, ma notoriamente coinvolge soprattutto le donne. Secondo uno studio recente della Cisl veneta sono caregiver un pensionato su due e un lavoratore su tre: sei su dieci si occupano di un genitore anziano, uno su dieci si fa carico di due persone. Più della metà ha dovuto lasciare il lavoro o lo studio, per dedicarsi a chi ne aveva bisogno. Il tema degli anziani non autosufficienti è quello più serio e grave, perché si tratta di una popolazione in velocissima crescita. Che ci costringe a parlare anche di soldi, cosa che troppo spesso si evita per eccesso di pudore. E di giustizia sociale. Inclusa quella generazionale.

La generazione attuale di anziani è quella storicamente più privilegiata. Ha lavorato sodo, certo, ma ha vissuto il boom economico, le conquiste del welfare, l’aumento della spesa per le pensioni (anche perché ha beneficiato del metodo retributivo, che commisurava la pensione al salario degli ultimi anni, anziché ai contributi versati nel corso della propria vita lavorativa). Nessuna generazione, né precedente né successiva, ha avuto tali tutele. Inoltre beneficia delle conquiste medico-sanitarie, e dunque di un aumento straordinario della durata della vita (che tuttavia non è proporzionale alla durata della vita in buona salute). Le generazioni successive, in particolare, sono quelle che, oltre a sostenere il debito accumulato per garantire quelle precedenti, oltre ad avere salari proporzionalmente più bassi, a entrare più tardi nel mercato del lavoro, a maturare pensioni mediamente inferiori a quelle dei propri genitori (perché, appunto, nel frattempo si è passati al sistema contributivo), se ne devono prendere cura per molto più tempo. E allora, sì, è un problema di giustizia generazionale. Perché la cura dei più anziani va a scapito dei loro figli – che la pagano in termini di perdita di lavoro, di reddito, di salute fisica e mentale, di prospettive di vita – e persino dei loro nipoti. Non sono poche le famiglie costrette a scegliere tra far studiare i propri figli (o far vivere loro una vita decente, anche solo pagarsi delle vacanze o qualche elemento di ben-essere in più) o prendersi cura dei propri genitori, pagare badanti, o strutture per anziani, o subire convivenze sempre più faticose e spesso senza via d’uscita, senza speranza che non sia (diciamolo, visto che molti lo pensano senza avere il coraggio di verbalizzarlo, e con terribili sensi di colpa) la morte del proprio genitore o congiunto.

Nessuno vuole abbandonare o ‘scaricare’ gli anziani, ci mancherebbe (lo siamo o lo saremo anche noi, e ne siamo consapevoli). Ed è bellissimo che da noi si coltivi un modello familiare e di cura stretto, amorevole, affettivamente denso. Ma non è giusto caricare le famiglie, che già fanno sacrifici quotidiani inenarrabili, anche di un dilemma morale insostenibile. C’è un tema di giustizia generazionale, dicevamo: di trasferimenti da una generazione all’altra (che tocca la questione dei cosiddetti diritti acquisiti, almeno delle categorie maggiormente privilegiate: dai politici ai magistrati ai giornalisti). Ma non è solo, e nemmeno soprattutto, questo: anche perché non ha alcun senso dare la ‘colpa’ alle generazioni precedenti – le cui pensioni, peraltro, spesso non sono nemmeno sufficienti a pagare le strutture o le badanti che di loro si occupano. La società ci consente di vivere più a lungo, ed è un bene. Che sia la società, non (solo) le famiglie, ad occuparsene. E anche a discutere pubblicamente quali sono i limiti di questo sostegno. Che si tratti di permanenza nelle case di cura, o del ‘modello badanti’: che quasi non esiste in altri contesti, e scarica sulla famiglia tutto il peso della cura (non solo economico: anche pratico, temporale, relazionale, persino spaziale, e financo morale).

Soprattutto, c’è un gigantesco problema di spostamento di risorse dalle rendite (che siano finanziarie, immobiliari, perché no, anche politiche) – per definizione, parassitarie, piaccia o meno – al lavoro: e il lavoro di cura ne è parte integrante, anche se quello svolto in famiglia non è salariato. Dovrebbe essere pagato in altro modo: in forme di sostegno e soprattutto in servizi, efficienti e universalmente garantiti, o garantiti almeno alle fasce più povere e meno tutelate. È questo che manca. E questa mancanza fa orrore. Descrive una società in cui l’invecchiare più a lungo – per cui crea le condizioni – diventa una condanna. Caricata sulle spalle dei diretti interessati e sulle generazioni successive.

 

Il grande prezzo della cura, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 23 marzo 2025, editoriale, pp.1-5

Una certa idea di Veneto. Il cinema di Carlo Mazzacurati

Circola in questi giorni nelle sale cinematografiche del Veneto un film-documentario, di Mario Canale e Enzo Monteleone, su “Carlo Mazzacurati. Una certa idea di cinema”, presentato all’ultimo festival di Venezia, a dieci anni dalla morte. È un’occasione preziosa, non solo per ricordare un grande regista: se esiste un cinema veneto, che oggi ha i suoi validi eredi, e anche un’immagine del Veneto nel cinema, lo si deve in gran parte a lui e ai suoi film, da “Notte italiana”, il film d’esordio, prodotto da Nanni Moretti, a “Il prete bello”, tratto dal romanzo di Parise, da “Il toro” (Leone d’argento a Venezia), a “La lingua del santo”, da “La giusta distanza” fino a “La sedia della felicità”. Per non parlare dei documentari, tutti tesi a valorizzare il meglio della storia e della cultura veneta: i ritratti di Rigoni Stern, Meneghello e Zanzotto, con Marco Paolini, il documentario “Sei Venezia” e quello dedicato al Cuamm e ai suoi Medici con l’Africa. In linguaggio politico le si chiamerebbero le eccellenze venete, se non fosse che per la politica le eccellenze venete si riducono all’enogastronomia e al mondo dell’impresa, o, più che alla conoscenza dei patrimoni dell’Unesco, alla possibilità di dichiararli tali.

L’occasione è preziosa, tuttavia, per interrogarsi sul Veneto stesso, su come è cambiato. Esiste ancora il Veneto cantato da Mazzacurati? Quella provincia sonnacchiosa ma profonda, quei paesaggi monotoni ma potentemente lirici, quella carica umana ricca di sfumature anche se spesso perdente rispetto al mondo della grande città, in cui tutto accade e si consuma, mentre nella provincia si viene solo consumati. Un mondo, anche, curioso della novità e del cambiamento, capace di produrlo, di attraversarlo, e di approfittarne, spesso senza capirlo veramente: è impressionante vedere come Mazzacurati abbia letto non solo la trasformazione culturale e antropologica dei suoi personaggi, la devastazione quasi inconsapevole del suo ambiente e del suo territorio, ma anche, con grande tempismo, la delocalizzazione che è stata tanta parte del miracolo economico del Nordest, il mondo delle migrazioni, la pluralizzazione culturale. È una domanda rilevante e per niente nostalgica, questa, da porsi: ci serve per capire chi siamo e dove stiamo andando. E se il tipo antropologico che oggi abita questo lembo di terra, rimasto marginale nonostante le qualità e capacità dei suoi attori, ha ancora la stessa dignità, la stessa profondità di sentimenti, la stessa cultura diffusa, e tocca le stesse note di umanità. E la sensazione è che forse no. Non perché manchi l’umanità un po’ dolente e un po’ divertita, disperata e pasticciona ma ricca di sentimenti e di pietas raccontata nei suoi film: anche se, certamente, la sua nicchia ecologica si rimpicciolisce di anno in anno. Ma perché manca chi sappia immedesimarsi in essa e cantarne l’epopea profondamente popolare. Il che non è solo frutto del caso, ma segno di una trasformazione profonda, drammatica, irreversibile.

Il Veneto deve tantissimo a personaggi come Mazzacurati: a sua insaputa, verrebbe da dire, tanto sono dimenticati, o non abbastanza ricordati. Non a caso a celebrarlo, nel film, c’è il meglio della cinematografia italiana che ha lavorato con lui: Stefano Accorsi, Antonio Albanese, Giuseppe Battiston, Fabrizio Bentivoglio, Roberto Citran, Paola Cortellesi, Valentina Lodovini, Valerio Mastandrea, Marco Messeri, Nanni Moretti (per il quale Mazzacurati ha fatto pure l’attore), Silvio Orlando, Marco Paolini, Isabella Ragonese, Maya Sansa (ma tra le sue collaborazioni ci sono anche Gabriele Salvatores e Daniele Luchetti, e attori come Abatantuono). A ricordarci che anche la provincia, se raccontata con amore e introspezione, può dire qualcosa del mondo più largo che si sta disegnando altrove.

 

Una certa idea di Veneto, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 5 marzo 2025, editoriale, pp. 1-7

Trasformare i centri in Albania in CPR. Ma è così che si combatte l’irregolarità?

I centri per migranti in Albania funzioneranno: la premier l’aveva promesso. Ma riadattati ad altro scopo: grazie a un cambio di destinazione d’uso, per così dire. Dopo le molteplici bocciature della magistratura, il progetto di fermare i migranti lungo la strada, o appena sbarcati, dirottandoli in Albania, ha prodotto per il governo solo costi sproporzionati e scottature sul piano politico. E il sostegno dell’Europa è assai meno granitico di quanto si racconti: von der Leyen ha sì detto all’Italia di andare avanti, ma si è ben guardata dal proporre misure simili a livello di Unione, e gli altri paesi non sembrano per ora seguire il nostro paese sull’idea di esternalizzare le funzioni legate al respingimento dei richiedenti asilo e al rimpatrio dei migranti irregolari, che pure seduce molti, non solo nel centro-destra europeo.

L’ultima trovata per non far fallire il progetto nel suo complesso, assumendosi il costo politico di dover ammettere di fronte all’opinione pubblica di essersi sbagliati dall’inizio, sembra essere quella di trasformare i campi (le prigioni, di fatto) in Albania in Centri per il rimpatrio. Quelli dove stanno i migranti irregolari già individuati sul territorio italiano, in attesa di rimandarli fisicamente nel loro paese d’origine. Il problema è che anche i CPR sono una specie di terra di nessuno, che prima o poi andrà affrontata, nei suoi aspetti giuridici, e non solo. In essi sono presenti persone che non hanno commesso altro reato che quello di immigrazione clandestina: eppure le loro condizioni sono spesso peggiori di quelle delle carceri, dove stanno persone che hanno ricevuto una reale condanna, per reati ben più gravi. Non solo, i migranti in questione, spesso quasi senza tutela giuridica, pur senza alcuna condanna penale specifica, sono reclusi sine die, in strutture sovente affidate a privati senza alcuna competenza specifica. Esternalizzare questa funzione all’estero, in Albania, oltre a produrre ancora meno tutele, ne aumenterebbe i costi. L’unico vero vantaggio, esclusivamente cosmetico e politico, è che si darebbe un senso, riempiendole, a strutture per ora vuote e dispendiosissime.

La domanda vera però è la seguente: davvero tutto ciò serve a qualcosa? Certo, il problema della deterrenza rispetto agli arrivi irregolari (la ratio originaria dietro alla costruzione dei centri) è reale: tutti vorremmo che entrassero solo immigrati regolari (salvo che esiste la questione dei richiedenti asilo, che non possono esserlo per definizione). E anche quello dei rimpatri degli irregolari deve essere posto: lo stato deve avere il diritto di controllare chi entra, e anche il potere di rimandare indietro chi è sgradito – il tema del controllo dei confini è serio, e ancora troppo negletto nel mondo progressista. Il problema è che non si fa così. E che per farlo non occorre violare leggi e convenzioni, né calpestare la dignità umana (anche se sappiamo che a buona parte della pubblica opinione di ciò non importa nulla, come non importa nulla delle condizioni delle carceri), e nemmeno inventarsi provvedimenti extra-ordinari in luoghi extra-territoriali. Bisogna, invece, rovesciare le priorità della politica. Non vogliamo immigrati irregolari? L’unico modo è costruire canali regolari di ingresso: così come se vogliamo debellare l’analfabetismo l’unico modo è investire in scuole, non punire gli analfabeti. Il problema è che – stupefacentemente – continuano a non esserci, o a coprire solo una parte minima degli arrivi, e diciamo pure del fabbisogno della nostra economia e della nostra società. Mancano (o ci sono, ma non contengono le clausole fondamentali) accordi con i paesi d’origine e di transito che per prima cosa offrano flussi regolari di ingresso (tot mila l’anno per paese, ad esempio): la sola vera motivazione (anche perché gli emigranti garantiscono preziosissime rimesse) per cui i paesi interessati potrebbero essere motivati a collaborare nel trattenere i flussi irregolari e accettare i rimpatri. E come noto i click day sono una politica fallimentare, da tutti denunciata come tale, a partire dai diretti interessati (cioè i datori di lavoro, tra cui ci sono anche le famiglie), che continua a essere ripetuta solo per quella che Tolstoj chiamava la forza più grande della storia: l’inerzia – politica e burocratica.

Non è, tuttavia, solo questione di controllo dei confini. L’altro modo con cui si combatte l’irregolarità è con la regolarizzazione: quasi sempre più vantaggiosa e meno costosa dell’espulsione, anche perché dietro ci sono datori di lavoro e lavoratori motivatissimi. Noi siamo invece dentro a un sistema che non solo non regolarizza, ma produce irregolarità: per via legislativa (legge Bossi Fini, che lega il soggiorno al lavoro, per cui perdendo il secondo, anche solo temporaneamente, si perde il primo – en passant, persino Fini dice da anni che andrebbe cambiata) e amministrativa, come sa chiunque abbia passato anche solo un paio d’ore in un ufficio stranieri di una qualsiasi questura, e visto i motivi per cui non si rinnovano i permessi di soggiorno.

L’altra cosa da fare sarebbe favorire politiche di integrazione, a cominciare dalla lingua. Mentre i decreti Piantedosi hanno persino abolito l’insegnamento dell’italiano tra le spese rimborsabili nei CAS, i Centri di accoglienza straordinari, oltre ad aver sostanzialmente smantellato i SAI, gestiti dai comuni, così che ciò che era straordinario è diventato, nei numeri, ordinario. Ma questo sarebbe un discorso che merita un’attenzione specifica.

 

Centri per il rimpatrio, la cosmesi politica costa ed è controproducente, in “il Quotidiano del Sud”, 12 febbraio 2025, pp.

Trump, i dazi, i migranti e i muri

Forse è un bene questa assurda guerra dei dazi. Pre-industriale e pre-capitalistica, verrebbe da dire pre-civile, persino primitiva, nel merito. Arrogante e bullizzante nei modi. È un bene, perché è uno specchio che ci fa vedere quello che siamo diventati. E tanto più in quanto, nella forma scelta dagli Stati Uniti e da Trump (“la più stupida guerra commerciale della storia”, l’ha definita il Wall Street Journal, quotidiano dell’establishment che il presidente americano l’ha visto con simpatia), la giudichiamo, a ragione, assurda e controproducente per loro, oltre che dannosa per i nostri interessi. Mentre non è altro che una accurata descrizione delle nostre pulsioni profonde e al contempo quotidiane, che tuttavia non giudichiamo allo stesso modo: nei confronti delle quali, anzi, siamo incredibilmente autoindulgenti. E non fa che mostrare, in economia, quello che sempre più spesso diciamo – e, peggio: facciamo – nella società. Non quella degli altri: la nostra. Trump siamo noi. I dazi sono sempre più spesso il nostro modo di ragionare. In ambito sociale, culturale, politico.

Perché? Perché la logica dei dazi è esattamente la stessa che applichiamo ai muri nei confronti dei migranti – l’unica differenza rispetto ai dazi è che si tratta di un nemico anche interno (un capro espiatorio, si sarebbe detto in altri tempi), non solo esterno, e i muri non sono solo quelli materiali, alle frontiere, ma anche quelli nelle coscienze, nei ragionamenti e nelle politiche (discriminatorie) adottate. È la medesima che è alla base della chiusura aprioristica nei confronti di culture e religioni che non conosciamo, ma ci permettiamo di giudicare con stupefacente superficialità. È anche la stessa che applichiamo alle persone diverse da noi per opinione politica, orientamento di genere, ma anche lingua, colore della pelle, e persino vestiario. È ancora la medesima che ci fa dire che quello che conta è solo la nostra nazione, o la nostra regione, o il nostro comune, e chissenefrega degli altri: prima noi, chiunque sia questo noi, a prescindere dal fatto che sia più meritevole di altri – ciò che viene dato per scontato, senza bisogno di prova. Infine, è quella che ci spinge a farci solo i nostri interessi, a sparire dallo spazio pubblico e non interessarci alla cosa pubblica e ai beni comuni, non votando nemmeno più, o partecipando solo per garantire i nostri interessi e quelli della nostra bolla, della nostra lobby, classe, ceto, categoria o professione.

Trump ha solo il merito di riassumerli tutti insieme e rivendicarli platealmente, questi comportamenti. Ma non è l’unico. Trump rappresenta, per così dire, lo spirito dei tempi, e lo fa benissimo. Al punto che forse, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Perché alle volte, anche alle società, come accade alle persone, serve un sonoro schiaffo – ideale, morale, valoriale, oltre che, come in questo caso, economico e politico – per ritrovare il senso di realtà, per accorgersi che al centro del mondo non ci siamo solo noi, che a furia di contemplare solo il proprio ombelico si perde legame sociale, che l’egoismo non salva nemmeno gli individui (o gli stati: lo vedremo presto anche negli Stati Uniti), figuriamoci le società, che la chiusura nostra produce la chiusura altrui. Che i muri, insomma, che siano materiali o immateriali, sotto forma di filo spinato o di dazi, o anche solo di opinioni, chiudono fuori – o si illudono di farlo – le nostre paure, ma finiscono per chiuderci dentro, a combattere i nostri stessi fantasmi, con sempre meno capacità e risorse, perché abbiamo appunto solo le nostre. È già successo, nella storia, e può succedere ancora, perché il vaccino contro l’imbecillità umana non è stato ancora inventato, e non lo sarà mai, e comunque ci saranno sempre dei no-vax che si rifiuteranno di assumerlo. Anzi, le nostre difese (immunitarie?) si sono, in questi anni, indebolite. Per cui, o ci svegliamo, ci guardiamo allo specchio, ci rendiamo conto di quanto siamo imbruttiti, e ne traiamo delle conseguenze, adottando delle contromisure, o ne pagheremo il prezzo.

 

I migranti, i dazi e i muri, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 5 febbraio 2025, editoriale, pp. 1-6

La Giornata della Memoria più difficile

Quella di quest’anno sarà la giornata della memoria più difficile da celebrare, da quando è stata istituita dalle Nazioni Unite nel 2005, per ricordare le vittime dell’Olocausto. La ragione è evidente. La risposta al terribile attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, a freddo, contro vittime innocenti che avevano la sola colpa di essere ebrei, in un crescendo mostruoso, che ha assunto i toni della rappresaglia, ha portato ai massacri e alle sistematiche distruzioni compiute da Israele a Gaza, in gran parte contro vittime altrettanto incolpevoli. Alla tabula rasa compiuta a Gaza vanno aggiunte le continue e organizzate violazioni dei diritti dei palestinesi in Cisgiordania, l’allargamento dei fronti di guerra al Libano, alla Siria e all’Iran, il comportamento provocatorio del premier Netanyahu in quella stessa ONU che la giornata della memoria l’aveva istituita, e di cui Israele ha violato sistematicamente le risoluzioni, il fastidio generalizzato per l’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo per nascondere o rintuzzare le legittime accuse al governo di Israele. Tutte cose che hanno reso impopolare il sostegno e la solidarietà agli ebrei come vittime dell’Olocausto: che pure non ha perso nulla, invece, della sua rilevanza, dato che gli atti di antisemitismo – orribili proprio perché sono rivolti contro gli ebrei in quanto tali – sono essi pure in aumento un po’ ovunque, e destano preoccupazione crescente.
L’anno scorso la situazione non era ancora così grave. All’epoca della giornata della memoria la ferita brutale del 7 ottobre era ancora troppo fresca, e la solidarietà a Israele ancora non scalfita dall’entità di una strage di umanità di cui non si comprendevano ancora le dimensioni, e che oggi percepiamo invece, senza più scuse, in tutta la sua inaccettabile enormità. Ma già lo scorso anno c’erano state accuse e controaccuse, provocazioni, assenze significative, strumentalizzazioni.
Oggi la tentazione di lasciar perdere, di non occuparsene, di non discutere, è ancora più forte. Come lo è l’imbarazzo di chi pure vorrebbe manifestare il proprio ricordo solidale agli ebrei come vittime dell’Olocausto, riconoscendo la legittimità dello stato di Israele che di quelle persecuzioni è in qualche modo la conseguenza, ma non accettando e legittimamente criticando le indifendibili azioni del suo attuale governo. Imbarazzo evidente anche nelle strategie adottate già lo scorso anno da parte di chi rifiutava e rifiuta l’idea che si possa anche solo accennare all’attualità, quasi fosse un reato di lesa memoria. Come se si potesse espungere la realtà dalla rappresentazione, il tempo presente dalla storia, la sensitività alla violenza recente dal ricordo della violenza passata.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, scappare dalla scomodità del reale. L’atteggiamento più corretto è invece quello di assumere il conflitto, di entrarci dentro, di parlarne, di confrontarsi: da parte di tutte le parti in causa. Non confondendo i piani con storicamente inaccettabili equiparazioni storiche tra la Germania della soluzione finale e la guerra a Gaza, per esempio. Ma accettando di mettere in luce le ragioni – e i torti – di tutti: fatica senza la quale non si capirà mai l’escalation di violenze che ha portato alla situazione attuale, e dunque non si potranno eradicarne le cause. Ecco, sarebbe bello se gli interlocutori di questo processo (che sono tanti, che siamo tutti) fossero capaci di accettare la presenza di verità diverse, di ricostruzioni storiche non coincidenti, per assumerle come un dato irriducibile: ebrei della diaspora e palestinesi rifugiati, simpatizzanti dello stato di Israele e sostenitori della causa palestinese – superando dinamiche polemiche che impediscono di essere entrambe le cose, come invece dovrebbe essere ragionevolmente possibile.
Il che presuppone di uscire dall’infantilismo delle logiche da tifo calcistico – per cui i ‘nostri’ hanno sempre ragione, a prescindere, e ‘loro’ hanno sempre torto (una logica disumanizzante, che toglie profondità persino all’invocazione delle sofferenze, che finisce per suonare artificiosa e strumentale, come quando ognuno mostra le foto di bambini sofferenti solo se sono dei ‘suoi’) – per abbracciare un metodo diverso, più giusto ma anche, semplicemente, più umano. Quello di accettare la complessità degli sguardi incrociati. E quindi assumere, da parte di tutti, la capacità e il coraggio di chiedere scusa per i delitti compiuti dai ‘propri’, invece di difenderli a ogni costo. Di fare autocritica: pubblica. Con le parole e con i gesti. Quanto sarebbe bello se in questa giornata della memoria, da qualunque parte noi stiamo, fossimo capaci di una frase di comprensione, di una lacrima di immedesimazione nel dolore altrui. E, magari, di costruire insieme un progetto di cooperazione, dunque di solidarietà, dunque concretamente di disarmo, dunque di ri-costruzione, a favore delle vittime, solo perché tali, e in nome loro.

Perché sarà la Giornata più difficile, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 gennaio 2025, editoriale, pp.1-6

La remigrazione non esiste. Gli inapplicabili slogan delle destre europee

La remigrazione non esiste. È solo una parola vuota: uno slogan da lanciare per guadagnare voti, sapendo in partenza che è inapplicabile. E che, se si applicasse, avrebbe un altro nome: deportazione. Un po’ come dire che si è contro le tasse, sapendo in partenza che, una volta al governo, non le si potranno diminuire, e forse si farà il contrario (con quel quid di discriminazione in più, perché può toccare solo alcuni e non altri). Un film già visto, ma che si ripeterà ancora.
Il concetto, lanciato dall’ultradestra germanofona, ma che possiamo essere sicuri sarà ripreso anche da noi, vuol dire questo: incentivare, e nel caso spingere, gli immigrati già presenti in Europa, a tornare indietro. Un concetto simile, senza la paura di usare esplicitamente la parola deportazione, lo ha evocato anche Trump negli Stati Uniti: e almeno ha l’onestà di dichiararlo, senza l’ipocrisia politically correct, normalmente attribuita alle sinistre, delle destre europee. Anche se poi nemmeno lui lo farà: non nella maniera e nei numeri ipotizzati, almeno. Sono i suoi stessi grandi elettori, che di quella manodopera hanno bisogno, a non volerlo: e gliel’hanno già detto.
Del resto, non ci sono precedenti storici che abbiano funzionato. Abbiamo avuto remigrazioni (ma li abbiamo sempre chiamati ritorni, senza bisogno di inventarci una nuova parola per un vecchio concetto), nel caso di persone che hanno dovuto emigrare forzosamente, a seguito di una catastrofe naturale, una persecuzione collettiva, o una guerra. Ma anche questo è un fenomeno che interessa solo una parte della popolazione emigrata. Per dire, nei primi mesi dalla loro partenza forzata, la maggior parte degli ucraini sfollata in Europa, se la guerra fosse finita, sarebbe senz’altro rientrata. Man mano che passa il tempo, accadrà sempre meno: perché le persone si inseriscono, si integrano, gli adulti lavorano, i bambini vanno a scuola e imparano una nuova lingua, i giovani si innamorano (delle persone e delle culture in mezzo a cui vivono) e si mischiano.
Nel caso delle migrazioni volontarie, invece, non ha proprio senso ipotizzarla. Se una persona ha investito anni e risorse cospicue per costruirsi un progetto di vita altrove, è impensabile che voglia prendere un volo nella direzione opposta, e tornare a casa: anche perché ‘casa’, nel frattempo, è diventata il paese di elezione. Può essere spinta, obbligata? No, c’è un’intera civiltà giuridica a impedirlo: gli esecutivi ci potranno provare, e i poteri giudiziari lo impediranno – non perché fanno politica, ma perché di mestiere rispettano le costituzioni, a differenza dei politici, che hanno spesso la tentazione di non farlo. Una persona può essere solo incentivata a andare via, a rientrare. E la cosa può funzionare (abbiamo avuto precedenti e leggi ad hoc già da decenni, in Francia e altrove: e ci sono ONG che lo fanno tuttora di mestiere, col supporto anche dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, con progetti di accompagnamento mirati): ma solo in piccoli numeri, con un qualche esborso economico, più o meno rilevante, e una certa organizzazione. Di solito, con coloro – e ci sono – che hanno fallito il loro progetto migratorio, e quindi possono essere interessati al rientro. Ma soprattutto, la remigrazione non ha senso ipotizzarla per interesse stesso dei paesi in cui se ne parla: economico e demografico (e anche geopolitico e diplomatico). Chi più chi meno (noi di più), tutti i paesi europei sono di fronte a un fabbisogno di manodopera gigantesco: sarebbe autolesionista investire denaro pubblico per espellere anziché per integrare.
Perché allora lo si fa, o almeno lo si promette, e qualche segnale simbolico lo si darà? Perché partiti che richiedono il consenso rivendicando battaglie identitarie (e, diciamolo, senza ipocrisie, francamente e onestamente razziste: e come tali, possiamo dirlo?, odiose) contro gli immigrati in quanto tali (o almeno quelli di uno specifico colore o religione), devono poi dare in pasto al loro elettorato qualche capro espiatorio, pena la perdita del consenso medesimo la volta successiva. E la remigrazione, come l’esternalizzazione delle frontiere (leggi, centri in Albania, che costeranno più di quello che producono senza risolvere un solo problema, e forse creandone), o come il blocco navale spesso evocato ma mai applicato da nessuno (e un motivo c’è: non funzionerebbe, sarebbe costosissimo e pure controproducente), è un buon modo di farlo. Anzi, di dirlo.

Remigrazione, l’inapplicabile scelta simbolo delle destre, in “Il Quotidiano del Sud”, 14 gennaio 2025, pp. 1-7

“Prima i veneti”. Ma, esattamente: perché?

Il problema dell’insieme di leggi regionali chiamate “Prima i veneti” – quelle che danno la priorità ai residenti nella regione da un certo numero di anni per un certo numero di graduatorie, a cominciare dagli alloggi popolari, ma coinvolgendo anche altri servizi di welfare – variamente approvate negli anni scorsi, è la loro apparente ragionevolezza: il loro sembrare, di primo acchito, di buonsenso. È questo l’argomento con il quale il presidente della regione, Zaia, le ha peraltro sempre difese: anche se il motivo politico forte per cui erano state approvate era quello di dare un segnale all’opinione pubblica anti-immigrati. Quella a cui era stato chiesto il voto precisamente per questo motivo, e a cui occorreva offrire in pasto un qualche risultato.
Che la ragionevolezza sia solo apparente, lo conferma il fatto che la Corte Costituzionale abbia bocciato il criterio territoriale, relativamente all’accesso alle graduatorie, già lo scorso anno. Ora il tribunale di Padova, per ragioni diverse, ha contestato anche il vantaggio dato nelle graduatorie stesse: non la possibilità di accedere, più grave, ma la posizione acquisita, i punti in più ottenuti, in sostanza.
Va detto che, più che per i numeri di persone coinvolte, tanto le leggi approvate, quanto le sentenze che ne minano la validità, hanno un valore simbolico importante, ma anche una ricaduta politica non irrilevante. Intanto, per l’impatto avuto, e per il segnale dato, non solo agli immigrati. Anzi, soprattutto agli italiani, tanto che all’epoca i primi a protestare furono i poliziotti provenienti da altre regioni. Mandati a lavorare in Veneto per proteggere i veneti, e perché pochi veneti fanno questo mestiere: ma impediti di ottenere gli stessi benefici rivolti ai veneti che proteggevano. In effetti, la ratio di questi provvedimenti è discutibile, e controdeduttiva. Nella pratica, perché mai un carabiniere di Avetrano, un muratore di Desio, un pizzaiolo di Latina, o un ricercatore di Ferrara, dovrebbero volere venire a vivere in una regione dove gli dicono che non sono benvenuti già a partire dalla normativa che li discrimina, e dove a parità di salario godranno di minori servizi rispetto agli autoctoni? È un segnale attrattivo o respingente? Certo, il sottinteso della legge era legato all’immigrazione dall’estero: ma è forse diverso per un operaio del Bangladesh, una badante moldava, un lavoratore dei campi indiano, un edile rumeno, un’infermiera peruviana o un ricercatore inglese? E infatti è il principio in sé (odioso, possiamo dirlo?) che è in questione: che, per nobilitarlo, potremmo chiamare burocraticamente principio di residenzialità, ma che nella realtà agisce come un principio di selezione per corporativismo localistico. E che, oltre tutto, è in essenza antimeritocratico: non ottieni un servizio perché sei migliore di altri, o semplicemente perché a parità di condizione con gli altri ne hai diritto, ma semplicemente perché sei “di qui”, e pure se hai minore titolo.
Un altro modo di capire la solo illusoria ragionevolezza e il discutibile buon senso della norma, è di immaginarla applicata a parti invertite. Se a subirne le conseguenze fossero i veneti che vanno a vivere e lavorare in un’altra regione o in un altro paese. C’è, lo sappiamo, una tentazione sciovinista anche altrove: e tuttavia la sua logica, perdente per tutti, è un po’ quella dei dazi. Il primo che li decide si sente più furbo degli altri e ha un temporaneo apparente vantaggio. Se li adottano tutti, il risultato sarà che le merci saranno più costose, l’economia meno sviluppata, e la vita più scomoda, per tutti: non a caso la costruzione europea nasce precisamente sul principio opposto – stessi diritti e pari opportunità per tutti. Alla fine, conviene di più che non differenziare e discriminare. Anche economicamente.
Oggi poi tali norme appaiono tafazziane (il riferimento è a un noto personaggio comico che passava il tempo a darsi bottigliate sugli zebedei), e quindi autolesioniste. Il Veneto, dato il suo drammatico andamento demografico, ha bisogno di attrarre persone, lavoratori, famiglie. Non è proprio il caso di insistere su normative che hanno l’effetto di risultare respingenti, né di ricorrere contro sentenze che le contrastano. È esattamente il contrario, quello che dovremmo fare. E sarebbe ora che la politica cominciasse a rendersene conto.

L’errore del “Prima i veneti”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-7

Seconde generazioni, tra baby gang e integrazione

Le chiamiamo seconde generazioni. Ma non sono immigrati: in grande maggioranza, sono nati qui (quasi un milione, su un milione e 300mila). Sono le prime generazioni di neo-autoctoni: figli di immigrati, nati in Italia, ma per lo più non cittadini italiani, perché siamo il paese con la legge sulla cittadinanza più restrittiva d’Europa. Quindi non hanno gli stessi diritti dei nostri figli. Portatori di problematiche sociali? Sì, anche. Come storicamente sono stati alcuni esponenti delle seconde generazioni di immigrati negli Stati Uniti (vi ricordate “West Side Story”?), inclusi i figli di emigranti italiani (vi ricordate “C’era una volta in America” di Sergio Leone?), e come lo sono stati transitoriamente i figli di immigrati dal Sud (vi ricordate i discorsi che si facevano nel Nord negli anni ’60?). Con un tasso di delinquenza un po’ superiore alla media, normalmente riassorbito nel giro di una generazione. Un problema, quindi, certo: da affrontare e risolvere. Ma lontano dall’allarme sistematicamente costruito da intere trasmissioni televisive sulle baby gang, impacchettate con il preciso scopo di mettere paura alle generazioni più anziane, costruendo il fenomeno anziché descrivendolo. Certo che c’è (anche) la delinquenza. Certo che c’è allarme sociale. Su cui c’è da fare luce e da lavorare. Possibilmente, per risolvere il problema, non per additare un capro espiatorio. Anche perché, come al solito, si sente il rumore dell’albero che cade, non quello della foresta che cresce: la grandissima maggioranza di giovani che non delinquono, e che non meritano di essere infilati a forza in una categoria che non li descrive. E poi perché non basta indicare chi: bisogna domandarsi perché. E questo si fa di rado.
Hanno gli stessi problemi di senso e di comportamento dei giovani italiani, ma in percentuali maggiori. Perché sono immigrati? Perché vivono diversamente da noi? O perché li consideriamo diversi dagli altri? Vediamo. Secondo l’Istat vive in povertà assoluta il 35,6% delle famiglie straniere (dato in crescita), contro il 6,4% delle famiglie italiane (dato stabile). Vivendo in percentuali maggiori in famiglie povere, hanno gli stessi obiettivi ma molte meno possibilità di raggiungerli dei giovani autoctoni. Nei loro quartieri il tasso di abbandono scolastico e di disoccupazione è superiore alla media. Aggiungeteci l’irregolarità di alcuni, in particolare dei minori stranieri non accompagnati (un fenomeno che in passato non esisteva proprio, le cui ragioni sono complesse), le umiliazioni costanti di molti, una xenofobia diffusa e neanche tanto mascherata, che si riflette nelle condizioni di lavoro e di vita (la percentuale di nero è maggiore, e i salari più bassi, nei settori in cui sono maggiormente presenti gli immigrati, producendo un dualismo nel mercato del lavoro ormai accettato da quasi tutti noi). Tutto ciò non giustifica nulla. Ma c’entra qualcosa, con l’emarginazione e la delinquenza? Decidete voi. Nel caso, vuol dire che forse il problema non è essere diversi: ma non essere percepiti come uguali, e non sentirsi tali. Anche se la lingua che parlano, l’eredità culturale che apprendono a scuola, quella che si inventano nella vita sociale, la musica che ascoltano, quella che producono (alcuni con grande successo), è la stessa dei loro compagni e compagne autoctoni. Ma qualcosa evidentemente non funziona, se solo nel 40% dei casi si sentono italiani (e il 30% non sa rispondere). La domanda è: lo pensano loro, o è l’immagine che gli restituiamo noi? E quanto questa immagine incide sulla percezione di essere fuori anziché dentro la società, outsider e non insider? Così come ci dice qualcosa che il 59% dei ragazzi con background migratorio delle scuole superiori (contro il 42% dei figli di italiani) vorrebbe vivere all’estero: e molto più le ragazze, il 66%. Evidentemente vivono con più disagio la presenza in Italia: il quadro di un’integrazione mal riuscita. Ma l’integrazione è come il matrimonio: funziona se la vogliono entrambi i partner. Siamo sicuri che la colpa stia tutta da una parte sola?
Le soluzioni sono sempre quelle: integrazione, scolarizzazione, lavoro, valorizzazione. Ma per arrivarci occorre un lavoro specialistico, serio, di accompagnamento. Che ci conviene. Come per tutti i problemi, il costo sociale è maggiore se non lo affrontiamo all’inizio del suo manifestarsi.

La seconda generazione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2024, editoriale, pp. 1-3

Se la Siria parla anche di noi

La Siria ci riguarda. Perché parla di noi. In questo tormentato angolo di Medio Oriente stanno accadendo avvenimenti epocali, che costituiscono una di quelle svolte cruciali che la storia ogni tanto si concede. Dopo oltre mezzo secolo cade, finalmente, una dittatura sanguinaria, tramandata di padre in figlio. Hafiz al-Assad è stato al potere dal 1970 al 2000, anno della sua morte, mentre il figlio Bashir gli è succeduto fino alla caduta, avvenuta nei giorni scorsi: più per una inevitabile erosione interna che per l’attacco dall’esterno. In totale, 54 anni (per capirci, quasi il triplo della durata del fascismo) di autoritarismo, violenze di stato, torture, repressione, scontri armati interni, guerre. Per giunta, in nome di nessun principio, che non fosse la mera conservazione di un potere assoluto, personale, nepotista, clientelare: e largamente aiutato, a fasi alterne, da diverse potenze, occidentali e non. In nome del dogma di una mal concepita stabilità dell’area, e perché si autodefiniva un potere laico, ispirato al partito Ba’ath, oppositore dei partiti religiosi.
La caduta di un dittatore come Assad dovrebbe essere un momento di gioia per tutti i democratici. E semmai potrebbe essere occasione di autocoscienza, anche rispetto alle nostre responsabilità e ai nostri errori. Perché per far cadere questa orrida caricatura del potere abbiamo dovuto aspettare gli islamisti, e i curdi? Perché noi non abbiamo dato loro una mano? Dove eravamo? Da quale altra parte guardavamo, per far finta di non vedere? Sarebbe, inoltre, il momento alto della consapevolezza, anche solo per mantenere la nostra sfera di influenza nell’area, mobilitando la diplomazia internazionale, preparando un piano di transizione, pianificando la ricostruzione e la pacificazione interna. Quale ruolo giocare? Quanto spendere, e come? Con chi allearsi? Invece no. Le cancellerie occidentali – il nostro governo incluso – hanno pensato, come prima misura (e simbolicamente è inquietante), solo e esclusivamente a bloccare l’esame delle richieste di asilo provenienti da cittadini siriani: o addirittura, come in Germania e altrove, hanno proposto di rispedire i siriani a casa loro. Proprio ora! Proprio ora che l’instabilità si manifesterà in tutte le sue forme, come in ogni dopoguerra. Proprio ora che si consumeranno le faide interne e le vendette personali. Proprio ora che i collaboratori del regime dovranno scappare (e non tutti sono corrotti approfittatori: alcuni sono persone qualsiasi, che non avevano alternative all’obbedienza). Proprio ora che le minoranze, etniche e religiose, rischiano grosso. Proprio ora, insomma, il nostro atteggiamento, invece di essere all’altezza dei tempi e delle sfide, e dei princìpi in cui dichiariamo di credere, è di chiusura, ingeneroso, meschinamente pensato ad uso degli slogan della politica interna, infimo dal punto di vista valoriale, persino tatticamente suicida dal punto di vista dei nostri interessi. Non stupisca se altrove, fuori dall’Occidente, ci considerano persone e governi dalla doppia morale, e non credono più nei valori di cui diciamo di essere portatori, senza praticarli, e nemmeno fare finta.
Non sappiamo come andrà a finire in Siria. Non sappiamo se il regime di Assad sarà sostituito da uno migliore o da uno ancora peggiore. Sappiamo già, però, che con il nostro gesto di chiusura, simbolicamente inguardabile, ci siamo giocati il nostro possibile ruolo e la nostra dignità. Per spiegare quanto sia indegno proviamo a immaginare lo scenario peggiore: l’instaurazione di un regime islamista che colpisce anche le minoranze religiose cristiane (qualche esempio minore di polizia morale si è già visto: donne a cui è stato chiesto di indossare l’hijab, le scuole cristiane che potrebbero dover cancellare le loro classi miste). Ecco, stanti le regole che ci siamo dati, noi diremo a queste persone che dovessero, nel caso, scappare in gran fretta, che no, non li vogliamo, nemmeno esamineremo le loro richieste di asilo. Che stiano a casa loro: noi siamo impegnati nel preparare il Natale in cui entrambi, loro e noi, diciamo di credere.

Se la Siria parla anche di noi. Regimi e diritti, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 17 dicembre 2024, editoriale, pp.1-3

Dei delitti e delle pene. La nostra idea di giustizia – Del caso Turetta e d’altro

È un bene che si sia aperta la discussione sulla condanna di Filippo Turetta, sull’utilità dell’ergastolo, sui limiti della difesa. È un bene, perché quello della giustizia e della pena è un tema cruciale per la convivenza civile, ma pur essendo tra i più discussi è anche tra quelli meno ragionati nei suoi fondamentali, nelle sue implicazioni, nella sua efficacia, anche. Tutti piangiamo le vittime, tutti vorremmo la condanna dei colpevoli, tutti chiediamo giustizia. Ma in concreto, cosa significa?
L’idea di giustizia, certo, ha a che fare con la violazione delle norme, e la punizione del colpevole. La giustizia è fondativa perché la violazione della norma, se non punita, mette in crisi la fiducia nella società, la sua stabilità, la sua stessa esistenza. Ecco perché l’ordine va ripristinato, anche ritualmente (non a caso il processo è esso stesso un rituale, una sacra rappresentazione, con i suoi sacerdoti, i paramenti, i comandamenti, i giuramenti…). Ma basta, tutto questo? E basta la galera per risolvere il problema? Temiamo di no. Perché c’è un ordine civile, sociale, e un ordine morale, che non a caso, all’origine, si sovrapponevano: è per questo che il carcere si chiama anche penitenziario (dove si fa penitenza, non solo dove si sconta la pena, la condanna), e quello minorile correzionale (dove c’è la possibilità di correggersi, di cambiare), e pena significa sia dolore che castigo. E tuttavia della funzione morale c’è sempre meno traccia. Il carcere (che vuol dire recinto) dove mettiamo il prigioniero (da prehensus: preso, chiuso) svolge pochissimo la funzione rieducativa che pure prevederebbe l’articolo 27 della Costituzione: e sempre più ha una mera, seppure ovviamente necessaria e imprescindibile, funzione repressiva, non di rado vendicativa (come quando ripetiamo la frase “chiudiamoli in cella e buttiamo via la chiave”). Con il risultato che i tassi di recidiva sono elevatissimi, e a seconda dei reati possono arrivare a due terzi dei detenuti: il che significa che il carcere finisce per non servire a null’altro che a svolgere una funzione immobilizzativa – un mero parcheggio umano. Ma è paradossale: se la scuola producesse due terzi di bocciati, ci interrogheremmo su come è organizzata, a cosa serve, se svolge correttamente la sua funzione. Perché il carcere no? Forse perché abbiamo ridotto la giustizia a mero tecnicismo, in cui solo dei terzi non coinvolti (giudici, avvocati) agiscono, e le persone direttamente interessate (il colpevole, la vittima, i familiari) non svolgono alcun ruolo, e quasi non hanno diritto di parola: con il risultato che diventa più difficile la riflessione autentica, e la stessa presa di coscienza del male che si è fatto, con le evidenti conseguenze in termini di ripetizione del medesimo.
Certo, ci sono ottime ragioni perché sia così: la giustizia è un bene che va garantito a tutti. E non ci sono facili ricette per modificare la situazione. Ma una riflessione collettiva forse andrebbe fatta. Ripensando le forme della giustizia, gli spazi possibili di mediazione, il ruolo delle pene alternative, la necessità di un lavoro rieducativo vero (per il quale si spende invece, in proporzione ai costi totali, pochissimo), i suoi costi rispetto ai suoi benefici, anche. Toccando pure la questione spinosa dei limiti stessi della pena. Lo abbiamo fatto in passato con l’abolizione della pena di morte. Forse, nella medesima ottica, si può ragionare rispetto all’idea stessa di ergastolo, di “fine pena: mai”. Certo, conosciamo la difficoltà di affrontare questi ragionamenti, il bisogno immediato e profondo che abbiamo di ripristino dell’ordine, il diritto a vedere riconosciuto simbolicamente e praticamente il torto fatto, il diritto/dovere di veder pagare per il male compiuto, il risarcimento dovuto alle vittime e alla società tutta, le cui norme di convivenza sono state violate. Senza tutto questo la società non esisterebbe, e dunque si tratta di un bene prezioso, che va salvaguardato. Ma proprio per questo abbiamo bisogno di interrogarci sulle sue forme e in definitiva sulla sua efficacia, nel breve e nel lungo termine. Anche, forse soprattutto, per questioni di principio, alte, morali, fondative.

La nostra idea di giustizia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 novembre 2024, editoriale, pp. 1-5