Sul burqini: significato di una polemica
La questione potrebbe essere rubricata tra le polemiche estive, per definizione inutili e vacue, se non fosse per le importanti questioni di principio che implica. Parliamo del cosiddetto burqini, un abito da bagno che alcune donne musulmane indossano al mare o in piscina, e che in alcune località francesi – speriamo senza solerti imitatori nostrani – comincia a essere vietato qua e là.
Intanto: cos’è? Prodotto con stoffe simili a quelle dei costumi da bagno – e come questi andando dal nero monacale ai colori più sgargianti e fluo – è composto da un pantalone più o meno attillato, e da una sorta di casacca che copre anche il capo: ma non, ovviamente, il volto. La parola in questo senso inganna: il termine è stato coniato con intento ironico, a partire dai contrapposti burqa e bikini. Ma non ha nulla a che fare né con l’uno né con l’altro.
Le sue ragioni sono legate a un’idea di pudore piuttosto diffusa in culture non occidentali (e anche occidentali non mainstream: non mediaticamente dominanti, diciamo), ma la lettura che ne viene fatta è inevitabilmente associata all’islam, e quindi soffre di una sovrasemantizzazione – un eccesso di significato – che in sé non ha. Per la donna che lo indossa significa spesso sentirsi libera di andare in spiaggia e di praticare un’attività fisica come il nuoto, cosa che altrimenti non farebbe. Per chi lo porta, al contrario di come lo intendiamo noi, è uno strumento e un’occasione di maggiore libertà, quindi. Potrebbe farne a meno? Sì. Significa adeguarsi a una tradizione religiosa? Sì. Potrà non piacerci, ed è lecito rubricarlo tra le cose che proprio non capiamo, scuotendo la testa, ma ha un qualche senso proibirlo? Crediamo nessuno. Ancora oggi sulle spiagge italiane – nel sud e nelle isole – può capitare di vedere famiglie in cui sono compresenti le tre generazioni, in cui le figlie sono magari in topless, le mamme in bikini, e le nonne vestite di nero dal foulard al gonnellone, calze e sandali inclusi: perché ogni generazione si è abituata a modo suo, e nessuna stigmatizza l’altra. Se vedessimo una suora in spiaggia, nessuno la multerebbe per offesa a un presunto comune valore di riferimento (quale poi, esattamente?). E a fronte di un turista di teutonica provenienza che, timoroso delle scottature o magari con problemi di esposizione al sole (un albino, ad esempio), porta pantaloni e maglia a maniche lunghe, e berretto in testa, nessuno direbbe di tornare a casa sua. Non solo: se a portare una tuta da gara sono degli atleti olimpici in cerca di performance migliori, o naturalmente dei sub, nessuno avrebbe ovviamente niente da dire. Come non lo avremmo, ammettiamolo, nemmeno se a introdurre un costume che copre fascinosamente da capo a piedi il corpo delle donne – o magari degli uomini – fosse una qualche firma internazionale della moda.
Non è la cosa in sé, quindi, a fare problema: ma il significato che le diamo. In questo caso, di oppressione della donna. E lo sarebbe effettivamente, se fosse un obbligo, un’imposizione. In qualche caso può esserlo: ma tra adulti uno stato che non si voglia illiberale lascia tali questioni alla libera contrattazione dei coniugi – altrimenti è stato etico, di cui abbiamo già conosciuto i guasti. Ma laddove è una libera scelta delle donne – e ne conosciamo? Perché il problema è lì. Potrà anche non piacerci, possiamo non capirne le motivazioni (certo discutibili, come tutto), possiamo preferire la bellezza del corpo felicemente scoperto e aperto al sole e al vento, ma il problema è semplicemente cosa uno – o una – ha voglia di fare e preferisce. Vuole coprirsi? Problemi suoi, purché rispetti le leggi. Vuole scoprirsi? Problemi suoi, purché rispetti le leggi. Vogliamo fare delle leggi ad hoc solo per chi si copre, e solo per alcuni di essi? Allora forse il problema ce l’abbiamo noi. E l’infedeltà ai principi che dichiariamo di riverire saremmo noi a praticarla.
Certo, ci si è messo anche il primo ministro francese Valls a legittimare le discutibili ordinanze di quattro sindaci quattro di località balneari francesi. Ma vale la pena ricordare che quella francese è a sua volta un’eccezione, non a caso senza imitatori (non c’è un solo paese al mondo dove la questione sia così sensibile, e l’idea di laicità così ingombrantemente ideologica).
Tra i valori che l’occidente ci ha insegnato e trasmesso, c’è anche l’idea di libertà, e di rispetto di quella altrui, incluso nella banale conseguenza che ognuno può vestirsi come vuole: a seconda di quel che preferisce e dell’ambiente che frequenta o del suo credo. Una società sempre più plurale può consentire una spazio di manovra e di libertà per tutti. Possiamo non capire certe scelte (il velo islamico – che copre i capelli ma non il viso – o quello di una monaca: o il turbante per i sikh maschi praticanti, magari): ma possiamo consentirle senza farcene turbare. Per fedeltà ai nostri principi, non a quelli altrui. E perché abbiamo problemi più seri a cui pensare…
Burkini, quei no illiberali, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 19 agosto 2016, editoriale, p. 1