Quando il pesce sa di immigrato

Nei giorni scorsi, alla notizia dell’ennesimo barcone di disperati affondato nel Mediterraneo, mi è purtroppo capitato di sentire, anche da parte di quindicenni all’uscita dalla scuola (ma sicuramente è comune sentire assai più diffuso), cori di giubilo che inneggiavano alla tragedia. Come fosse una vittoria. Come fosse umano… Ormai è uno stile culturale, o sottoculturale, diffuso. Ho pensato che fosse necessario provare a dire qualcosa, senza toni scandalizzati o di denuncia, che non servirebbero a nulla. Ma prendendone atto e cercando di rispondere, di far capire qualcosa, con attitudine didattica, e ricominciando dall’abc. Ci ho provato con l’editoriale che segue, che ho mandato ai quotidiani del Nordest con cui abitualmente collaboro. Ma – che strano… – non me l’ha pubblicato nessuno.

Mettiamola in maniera sgradevole ma chiara. Quest’estate rischiamo di mangiare dell’ottimo pesce del Mediterraneo che potrebbe essersi nutrito di carne umana: quella di qualche disperato alla ricerca di un destino migliore. Vogliamo arrivare a questo? Se la risposta è no, dobbiamo ricominciare a farci qualche elementare domanda.

Non ci sono risposte semplici a problemi complessi, e le migrazioni sono uno di questi. Né il foera di ball e la caccia armata al clandestino né le braccia indiscriminatamente aperte sono soluzioni praticabili. Anche se è necessario ricordare che ormai, nel nostro paese, la prima opinione sta prendendo sempre più corpo, e in questi giorni ci è toccato ascoltare inquietanti battute da stadio alla notizia dell’affondamento dell’ennesimo barcone. Come se, davvero, per noi fossero diventati mera carne – o men che quello: cibo per i pesci – e non fossero più uomini, donne, bambini, destini spezzati. Vent’anni di propaganda rozza e di lepidezze volgari sparate da troppi opinion makers hanno prodotto anche questo: una insensibilizzazione progressiva al dolore altrui che ha invelenito il clima e imbarbarito nell’animo i civilizzati di una volta.

Ma allora, che fare? Lasciamo da parte, per ora, le politiche di integrazione all’interno del nostro paese. Limitiamoci all’altra faccia della medaglia: quella delle politiche transnazionali. L’analisi è assai semplice: o facciamo qualcosa, o gruppi sempre più ampi di persone cercheranno un destino migliore in Europa, anche a costo del naufragio. Possiamo fermarli? In parte. E in parte continueremo ad accoglierli, non per amore ma per rispondere ai bisogni reali del nostro mercato del lavoro e ai nostri desideri di consumo senza lavoro, o di maggiore benessere al minor prezzo possibile (questo – se vogliamo chiamare le cose con il loro nome – è il pretendere manodopera a basso costo, in agricoltura, in edilizia, nell’industria, nei servizi alla persona o in casa nostra, come colf e badanti). Si può discutere sulla sostenibilità nel lungo periodo, oltre che sulla saggezza e sulla giustizia di un modello come questo, che in effetti va messo in discussione. Ma prima ancora, una semplice domanda.

Come si può evitare che partano? Evitarlo del tutto non si potrà. Ma diminuire i flussi sì. Come? Con opportunità di sviluppo e maggiore giustizia sociale e civile nei paesi d’origine. Si può fare? Si potrebbe: con maggiore cooperazione allo sviluppo (e a uno sviluppo sostenibile), e sostegno alle democrazie invece che alle dittature. Lo facciamo? Sempre meno. La conseguenza è d’obbligo: meno faremo in questo senso, più migrazioni avremo.

Ecco, se c’è qualcosa che ci insegna l’ennesima tragedia nel Mediterraneo, è che i problemi non si possono continuare a nascondere sotto il tappeto. Prima o poi esplodono. Bisogna quindi fare qualcosa. E prima ancora bisogna pensare a cosa si fa. Saperlo progettare. E pagarne i costi, perché nessuna politica è gratis. Persino la Lega, per contrastare l’immigrazione, ha sempre detto “aiutiamoli a casa loro”. Peccato che in vent’anni non abbia prodotto una sola proposta di legge in questa direzione, o stanziato un solo euro, o fatto un minimo sforzo di riflessione in materia: troppo ossessionata dal locale, non ha tempo di pensare al globale, da cui il locale tuttavia dipende. Fare qualcosa vuol dire destinare, poniamo, il 3% o più delle nostre risorse ad aiutare altri a casa loro. Non ne moriremmo: vorrebbe dire il 3% in meno di pane, di carne, di vestiti, di aggeggi elettronici. Ma ne vivrebbero altri invece di rischiare di morire per venire da noi. E’ il caso di cominciare a rifletterci. O di cominciare a guardare con occhio diverso la frittura mista che ci serviranno al ristorante, quest’estate.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Quando il pesce sa di immigrato, in “Confronti”, n. 11, maggio 2011, p. 5

The War over Mosques

seminar

MANCA INDICE

Introduction

The method of comparison is among the most fruitful when we want to analyze the evolutions of a society, trying to understand which are the more important and really significant variables to take into account.

Nevertheless, when we compare the presence of Muslim minorities in Europe, and the different models of multiculturalism, all considered to be part of a common frame of liberal states, we face serious problems of interpretation.

First of all, because Europe is undoubtedly composed of liberal states: but this common frame of founding principles and references is interpreted very differently in each country (from the constitutional foundations to the politics and policies on immigration and religious pluralism), producing many multiculturalist models, and specific ways of treating, in particular, Muslim communities, also because Muslim minorities are very different in each country (ethnically, socially, culturally, etc.) and between countries.

We will not focus here specifically on the different models of multiculturalism, but it is very clear and evident, when doing empirical research, that there are not only differences depending from one country to another; to complicate further the analysis, differences are also internal to countries, following regional specificities, and also city by city. And, on the contrary, there are often many similarities in the policies of different cities, despite the fact that they belong to different countries, and consequently to different frames of interpretation, to different legislative systems (included different ideas and practices of citizenship), to different traditions of dealing with migrations, with religious minorities, etc.

To quote but an example, it is no more true what is still often repeated: that there is a French republican assimilationist model based on individual integration, a British multiculturalist model based on collective and communitarian recognition, a German model based on refusal of citizenship and the logic of ‘gastarbeiter’, etc. Most models have changed enormously, in some cases accentuating differences, in others commonalities. The laws on citizenship has changed several times in different countries, going towards a more common direction, the influence of European normative frames particularly on rights shows its strength in the same way; on the other hand the politics of several countries has changed dramatically their direction (it is enough to think to the spectacular change in Dutch politics towards migrations and Islam specifically). All these changes show that, given the specific problems in each countries, all of them facing peculiar difficulties and failures, there is an attempt to find new solutions and new directions, mostly searching an answer day by day, without a clear path or model to follow, also due to the rapid changes in the political landscape.

Muslim minorities themselves need to be understood in the plural. There are significant differences in terms of country of origin, in terms of level of integration, in terms of level of institutionalisation, in terms of gender ratio, in terms of previous knowledge of the country (former colonies, common language, knowledge of history and cultural symbols), in terms of passage of generations (most countries are not facing anymore the first generation of migrants, and are already witnessing the second, the third, the fourth…). They represent in any case a new significant presence, also in statistical terms: close to 15 millions Muslims in Western Europe, more than 8 million Muslims in the Balkans and Eastern Europe, for a total of more than 23 millions Muslims who we could call Europeans. To these, to have a really complete picture, we might add the 76.000.000 of Turkey, a country that has applied to join the EU (or at least the over 6.000,000 of its European part) and the 20-25.000.000 of Russia. Clearly a serious change in the European religious landscape.

Liberalism in question. Exceptionalism and the case of mosques in Europe

The liberal thought and practices of Europe are questioned from many points of view, through the Muslims’ presence in Europe. Sometimes, as a consequences of problematic issues posed by Muslims themselves; more often because of affirmations of principles and practices towards Muslims decided by institutions, or debated in the public space by part of the European public opinion. In many countries of Europe the emerging presence of Islam as an internal actor (in religious, social, cultural and political terms), and its entrance and increasing visibility in the public sphere (through collective activism and politics of recognition, but also through mediatization, institutionalization and incorporation), is raising new problems concerning the presence of religion in the public space. To these problems, in many cases, political parties, media, public institutions, governments – at the local, regional and national level – and parliaments tend to give specific and contextual answers, finding specific solutions, even when the issues raised, if correctly interpreted, could be compared and comparable to the issues raised by other religious (and even non religious) groups. We might define this tendency as exceptionalism, that is to say a tendency to see Islam and Muslims as an exceptional rather than standard case, one that does not fall within the cases relating to religious pluralism, and therefore requiring specific bodies, actions and specific targeted reactions, unlike those used for other groups and other religious minorities. Examples of exceptionalism include the forms of representation of Islam in various European countries, which vary from case to case but also differ with respect to the recognized practices of relations between States and religious denominations in general. Other cases concern the approval of laws banning specific dresses (such as various forms of hijab, niqab and burqa: even if often such laws are masked in a way that they do not seem specifically related only to Muslims, even when they are applied only or mainly to them) or buildings (minarets in some regions of Austria – Carinthia and Vorarlberg – and Switzerland), or the introduction of specific questions or conditions when applying for citizenship or other kind of permits.

Forms of exceptionalism from a legal, political and social perspective, are, however, present in many other fields, following a pervasive trend, affecting countries with the widest range of State structures, and that appears to be in a phase of further growth: they even include, in some countries, the language used about Islam and Muslims (and the existence and success of a specific literature), and the creation and increasing impact of political parties for which the presence of Islam and Muslims in Europe is becoming a central point of their agenda.

Sometimes exceptionalism has a ‘positive’ and inclusive instead than a negative and exclusive form (even though theoretically it is equally problematic): allowing specific dress codes or behaviors (for example, in swimming pools for Muslim women), or other similar cases, particularly in the judicial field, concerning family laws.

These politics and policies concerning Islam and Muslims often contradict the principles of non-interference in the internal affairs of religious communities proclaimed and enshrined for other denominations and religious minorities. And their base and conceptual foundation is not equality of treatment or freedom, included religious freedom: exceptionalism seems to be constructed in these cases as a (problematic) third way between a universalistic application of principles and norms and the cultural rejection of a specific actor.

The example of mosques and mosque related conflicts is very clear from this point of view.

Symbolism and territory: mosques as a visible dimension

Mosques represent a way for Islam to leave the private sphere and to officially enter the public sphere. Conflicts about them can rely on ‘real’ or supposedly real reasons, such as a fall in the value of property, fear of increased traffic, parking problems, fear of invasion of public spaces (courtyards, parks, playgrounds), or supposed other social priorities in the area; but more often they are connected to ‘cultural’ reasons such as foreignness of Islam to ‘our’ culture, defence of women’s rights, reciprocity, ‘non-integrability’ and/or incompatibility of Islam with Western/ European/Christian values, etc. While reasons of the first kind may be (but often are not) empirically based, and as such may be constructed discursively, those of the second kind serve to justify a Kulturkampf whose objective is no longer the mosque as such – which becomes a symbol to be targeted – but Islam itself, as a different and foreign religion, ‘alien’ and incompatible with democracy, the West, Liberalism, Christianity or ‘our traditions’, according to the context. Of course, the two sets of reasons often overlap and reinforce each other. Some forms of conflict could actually be interpreted using the tools of ethology and sociobiology, rather than those of anthropology and sociology, still less those of urban planning. Examples include forms of imprinting on an area, such as the spreading of pig urine, or the placing of pigs’ heads or spilling of blood, using primitive proprietary dynamics of privatization, passing through the logics of sacralization and desacralization of space.

As a more general question of mosques, one should also note the spread of a vocabulary that refers to contamination, pollution and precautionary measures (used explicitly, with reference to mosques, by various anti-Islamic groups), as well as the return of the categories of purity and contagion in the cultural and political debate. Further reflection is needed here, recalling the historical precedents of the use of this kind of language and interpretation, and the risk that tragic ghosts of the past may re-appear.

Most conflicts over mosques in Europe include, either primarily or marginally, the question of the minaret, its height, or its very existence. The minaret appears to have become a symbol par excellence of the conflict surrounding Islam, or rather of its visibility in the public space. The case of the Swiss referendum against minarets (November 2009) has been a sensational demonstration of this. This issue was not however only an internal Swiss question, as most observers have preferred to imagine. It is in fact probable that in other areas of Europe, similar referendum would have produced similar results, as many polls have showed.

Having said this, the Swiss referendum made a significant and paradoxical element emerge, which merits further reflection. Few people have noticed the fact, only apparently contradictory, that in three of the four cities where minarets, and their corresponding mosques, really exist, and have existed for a long time, and where the Islamic presence is greatest, the referendum was unsuccessful. While the highest percentage of votes favourable to the referendum was obtained in internal Appenzell, were the Muslim presence is insignificant if not inexistent. Translating into minimal terms and deliberately stating this double tendency in extreme terms, we can synthesize as follows: where there are no minarets, and possibly not even Muslims, fear forces people to banish the first and fear the others; where they exist and are even visible, there is much less fear. This does not mean obviously that the more you know Muslims the more you must like them, or at least not fear them; but it does mean that in these same places where there are natural dynamics of encounter and confrontation, long-term trends of integration are activated, as well as concrete intercultural policies, which have their effects. A fact that is a good indicator of the dynamics of the presence (which is less of a problem) and the processes of visibilization (which are the real problem) of Islam in the European public space.

Rejection of Islam and Islamophobia

The conflicts over mosques and minarets are obviously the result of the more general climate around Islam and attitudes towards Muslims in Europe. They immediately reveal if we are in a situation of normality and so inside a relatively linear process of integration, or on the contrary if there are important signs at least of suspicion and distrust, if not of real Islamophobia. If Islamophobia is the fever, the conflicts over mosques become an excellent thermometer to measure its level.

Now, the fever is not the illness, but a symptom of it, which leads us to inquire into its origins. Explanations can be found at various levels of complexity. A first level is the simple application to mosques of the classic ‘Nimby’ (Not in my back yard) syndrome, which we can summarise as a theoretical acceptance of the principle but not of the place. This level explains a part, but only one part, of the conflicts over mosques: and pertains more to the reasons declared than to the real motivations. More subtle, more problematic to reflect over a more complex mechanism of ‘reactive identities’: identities that are created in reaction and in opposition to another identity – whether this other identity is real or, more often, only an imaginary, culturally constructed one. Characteristic of such identities – which involve both autochthonous populations and immigrant communities – are, among others, the over-determination or over-semanticization of cultural elements.

Minarets, mosques, but also veils and burqas, all begin to seem when we analyse them more in depth, false problems. The real problem is the relationship of Europe with Islam, on one hand; and the relationship that the Muslims have with Europe and the West, on the other (that which they have, and that which we imagine they have).

Mosques and minarets end up by looking more like a discoursive substitute: a transitional object, to say it in psychoanalytic terms. Mosques are the symptom: the illness is Islam, or rather the West’s imaginary of Islam: which, like the Islamic imaginary of the West, appears more and more conflictual. But the phenomenon is more complicate, and does not follow a single direction.

On one side we can observe long-term trends that go in the direction of integration and inclusion: constitutions, the system of jurisdictional safeguards, but also consolidated institutions like schools have a stability and a strength greater than the changing trends of politics. If policies and politics change rapidly, institutions are a guarantee of coherence and duration, or at least slower and more meditated change than the one pushed by public opinions. And despite everything, they work in the direction of integration, the extension of rights, and their consolidation, not in the direction of cultural opposition and social conflict. This process is also taking place on the religious plane. There are strong oppositions between religious communities (even though we have the sensation that those inside the various religions are even stronger, in respect to the way of approaching religious alterity and practising inter-religious relations). But there is also a common religious grammar that ends up by comprehending and recognizing the religious needs of others and their meaning: praying, also in the community, fasting, having clothing codes, an idea of modesty, roles also sexual and gender of reference, the sense of pure and impure…). In this there is the possibility of obtaining recognition and building alliances, and constructing relations of trust and confidence.

On the other hand there is the cultural conflict about Islam, and the debates in the public sphere, and their political instrumentalisation, that often goes in the direction of exclusion, separation, differentiation, selective application of law, targeting Islam in policies but also – what is more problematic – in normative terms. An example that is particularly problematic in terms of principle is the request, often advanced in the case of conflicts about mosques, to involve the local population in a referendum. Like the Swiss national referendum we already mentioned, these requests raise important and problematic issues.

There are two ways of thinking about democracy: one that emphasizes the role of the popular will (traditionally was more the left, but today it is more the right wing that sustain this vision), the other that while recognizing the role of the popular will (as if it could be ignored) remembers that it has to express itself within limits and guarantees that are precise and insuperable.

Any referendum is democratic precisely if and only if it is founded on, and does not place itself against, the democratic principles guaranteed by constitutions. Otherwise it becomes the most illiberal and anti-democratic weapon that exists. Not by chance in many countries there exists a control of constitutional legitimacy before considering if a referendum issue is admissible. On the basis of those principles, referendums to ask citizens if they agree to the building of a mosque are unconstitutional. And to let citizens believe that they have the right to decide on the fundamental rights of other citizens means instilling a very dangerous poison into society as a whole. It is not possible in democracies for the majority to decide on the rights of the minority, because it is precisely on the protection of these rights that democracies are founded. In this sense the agitation of the political entrepreneurs of Islamophobia is purely instrumental; but the problem is that this instrumentalization works.

Conclusions

We described previously mosques and minarets as transitional objects, symbolical of a principal object, which is Islam. This is only the first half of the argument, the most immediate. The second is that Islam is in its turn a transitional object: which represents and signifies the pluralisation of society, and in particular, religious pluralism. Islam has become the discoursive substitute for important changes in society, which are not tied generically to religious pluralism as such: in concrete terms they are called gender roles, clothing codes, family models, parental authority, ideas of modesty, purity, sacredness, as far as the relationship between religion and politics, religion and democracy, religion and state. Subjects that in secularised societies it has become more difficult to discuss (also) in religious terms: and that cultural and religious pluralism are bringing into the limelight.

Islam – rightly or wrongly (other diversities are often much more ‘other’) – has thus become the most extreme example of alterity and the changes that alterity brings to our societies. Islam, because of its symbolic overload and the problematic history that joins it to Europe, because of the striking and formidable aspect of some of its contemporary manifestations (among which obviously the emergence of transnational Islamic fundamentalism and terrorism), but also because of the significant statistical dimension of its presence, is inevitably at the centre of the political and social debate in Europe. And it will be there for a long time.

Some reflections on the Islamic presence in Europe, multiculturalism and cultural conflict, that constitute the starting point of the reflections presented in this article, has been proposed in some of my previous essays, among which Conflicts, Cultures and Religions: Islam in Europe as a Sign and Symbol of Change in European Societies, in “Yearbook on Sociology of Islam”, n.3, pp.18-27, 2006 and Multiculturalism in Italy: The missing model, in A. Silj (ed.), “European Multiculturalism Revisited”, London, Zed Books, 2009, pp. 147-180. On Islam in Europe see Maréchal B., Allievi S., Dassetto F. and Nielsen J.S. (eds.), Muslims in the Enlarged Europe. Religion and Society, Leiden, Brill, 2003; Allievi S. and Nielsen J.S. (eds.), Muslim Networks and Transnational Communities in and across Europe, Leiden, Brill; and more recently Van Bruinessen M. and Allievi S. (eds.), Producing Islamic Knowledge. Transmission and dissemination in Western Europe, London, Routledge, 2010. Specifically on mosques and mosque related issues see Conflicts over Mosques in Europe. Policy issues and trends, 2009, and Allievi S. (ed.), Mosques of Europe. Why a solution has become a problem, 2010, both London, Alliance Publishing Trust / Network of European Foundations.

Allievi S. (2011), The War over Mosques, in “Seminar”, n. 621, maggio 2011, pp. 23-27 www.india-seminar.com

Wojtyla-Ratzinger, icone opposte

A una settimana dalla beatificazione romana di Giovanni Paolo II, il suo successore, Benedetto XVI, viene in visita pastorale nel Nordest. La distanza apparente tra i due eventi non potrebbe essere maggiore, perché diversi, a dispetto della dichiarata continuità e dell’amicizia personale, sono i personaggi che ne sono al centro. Wojtyla era l’icona dell’apertura, dell’impronta ottimista e carica di entusiasmo giovanile: “Non abbiate paura: aprite le porte a Cristo” è stato il messaggio di apertura del suo pontificato. Quello di Ratzinger, se facciamo riferimento agli aspetti più appariscenti e mediatizzati della polemica nei confronti della scienza, del pluralismo culturale, spesso derubricato a mero relativismo etico, delle altre religioni, potrebbe essere sintetizzato con un: “Abbiate paura: chiudete le porte al mondo”, state tra di voi, contemplate le vostre virtù. Ma le cose sono più complesse di quello che sembrano.

Se i due pontefici sono diversi, è perché diversissima è l’epoca che li esprime e che riflettono. Agli albori del pontificato wojtyliano non solo la Chiesa, ma il mondo, e certamente l’Europa, erano in una fase di slancio, di apertura, che avrebbe portato di lì a poco alla caduta del blocco sovietico e a una nuova fase della storia mondiale. Agli albori dell’attuale pontificato tanto l’Europa quanto la Chiesa cattolica vivono una stagione ben diversa.

In questo, forse, l’immagine di papa Ratzinger è più rispondente al Nordest che oggi lo accoglie: assai diverso da quello che nel 1985 accolse papa Wojtyla. Attraversato da una mentalità da fortino assediato più che da armata conquistatrice. Più chiuso su se stesso e impaurito, lontano dall’entusiasmo innovatore e conquistatore di mercati, demograficamente invecchiato, culturalmente spento e nostalgicamente ripiegato sul proprio passato. Incattivito da un benessere appena conquistato e di cui ha già perso la certezza. Familista a parole, ma passato in una generazione dalla famiglia allargata al figlio unico, segno di una diminuita fiducia e speranza nel futuro. Avvilito da istituzioni incapaci, una politica senza slancio, e un degrado morale palpabile e diffuso. Infelice senza ribellione. E dove si è cattolici per forma e tradizione, un po’ meno per sostanza e convinzione. Come accade per il cattolicesimo più visibile e ostentato – a cominciare da quello politico, ma ben presente anche in altri ambiti – di chi fa a gara per dichiararsi paladino della chiesa, con grandi attestazioni pubbliche di cattolicità, spesso inversamente proporzionali alla fede, e senza alcun rapporto con la pratica religiosa, per non parlare dell’etica quotidiana e della deontologia professionale. Un cattolicesimo di pura etichetta, poco esigente sul piano morale e religioso, riducibile a pochi elementi identitari, familiari ma non invasivi, nostalgici ma innocui. Che, va detto, non rende giustizia alla fede di tanta gente del Nordest, di tanti suoi preti, di tanti suoi missionari, di tanti suoi volontari e volontarie, che crede e pratica in silenzio, senza ostentazioni, radicata in una tradizione vissuta e autenticamente popolare, la cui manifestazione è opera e offerta quotidiana.

Quest’ultimo cattolicesimo, silenzioso ma reale, vorrebbe oggi ascoltare da papa Ratzinger parole capaci di ridargli slancio e consapevolezza. E forse proprio questo papa – che all’attenzione ai problemi del mondo sembra privilegiare il ritorno all’essenzialità delle origini, di cui anche i suoi libri su Gesù sono una testimonianza – potrebbe dargli un po’ di nerbo e di fervore evangelico, aiutando il Nordest a ritrovare una spinta e un ruolo che non gli sono affatto estranei, che hanno caratterizzato altre stagioni della sua storia, ma che paiono lontani dal suo orizzonte presente. Se già solo si mostrasse in preghiera, e dicesse parole pesanti, frutto di meditazione e di studio – la cifra stilistica che del resto maggiormente gli appartiene – sarebbe un buon modo di ricordare che preghiera, meditazione e studio sono precondizioni di ogni opera che dia buoni frutti: e che dai frutti concreti di pace, di solidarietà e di giustizia, non dal richiamo verbale alle radici, si riconosce la vitalità dell’albero evangelico.

Stefano Allievi

20 Allievi S. (2011), Wojtyla-Ratzinger, icone opposte, in “Il Mattino”, 6 maggio 2011, p. XV (supplemento speciale “Benvenuto Benedetto”, anche su Nuova e Tribuna)

ANCHE in “Il Piccolo”, 7 maggio 2011, pp. 1-3

Le voci, i volti e le maschere. Travestimenti e autenticità

Comunicazione è parola abusata. Ma proviamo a scriverla in maniera diversa: com-unicazione. Ecco che com-unicare potrebbe significare qualcosa come rendere unico, rendere uno, o essere uno insieme. Naturalmente non è questa l’etimologia della parola, che deriva da cum e munus, svolgere il proprio incarico, il proprio compito, con, insieme ad altri; significato questo, peraltro, ugualmente indicativo, proprio anche di altre derivate dalla parola ‘comune’: comunismo, comunione, comunitario. Ma entrambe costituiscono una interessante approssimazione al tema di questo festival della comunicazione.

La comunicazione di cui si parla è quella dell’era digitale: un’era caratterizzata non solo dall’interconnesione globale e permanente, ma anche da mezzi di comunicazione molto più interattivi di quelli che hanno caratterizzato l’era delle comunicazioni di massa. Più adatti quindi a risuonare nel villaggio globale preconizzato da McLuhan. Oggi, grazie a internet, il mondo lo è davvero un villaggio. E semmai il problema – un altro tragico problema di uguaglianza su scala globale – è che non a tutti l’accesso al villaggio è consentito, come ci testimonia il tema sottovalutato del digital divide.

Come ogni villaggio, anche quello globale è abitato da voci, volti e anche maschere.

Le voci narranti che riempiono i blog e i social network, con un ritorno e un rilievo dell’individuo che non conoscevamo in un passato dominato, per l’appunto, da mezzi di comunicazione ‘di massa’, passivi: un suk virtuale e talvolta cacofonico di incroci, snodi, link, tweet, sms, parole che si muovono veloci anche se talvolta parlano ma non dicono, e soprattutto non si ascoltano.

I volti, che grazie ai nuovi media ritornano in primo piano, visibili e non solo letti o immaginati, parlanti, capaci di dare quel di più che è proprio della comunicazione non verbale, protagonisti di narrazioni individuali e collettive, di grandi epopee e di piccole storie formato you tube, skype, tablet o videofonino.

E le maschere: i nascondimenti, i travestimenti, le menzogne sull’identità consentite dall’uso dei nickname, dall’anonimato di internet, della molteplicità degli indirizzi e-mail, dal gioco degli avatar. Ma anche l’infinita libertà che questo consente di essere fino in fondo se stessi, fino a far vedere, celandone l’identità reale, il sé che si vorrebbe essere e cui si rinuncia ad essere, nel meglio e nel peggio.

Insieme costituiscono alcuni degli elementi di quel ritorno della narrazione che è parte importante del paesaggio delineato dalla rivoluzione digitale. In cui diventa ancora più vero che sumus, ego sum: che siamo innanzitutto e soprattutto perché siamo il prodotto di relazioni che si narrano, e narrandosi si lasciano incontrare. La sconfitta finale di quel cogito, ergo sum che per troppo tempo abbiamo creduto essere la forma per eccellenza dell’innaturale e inumano primato del pensare sull’essere.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Le voci, i volti e le maschere. Travestimenti e autenticità, in “Pagine Aperte. Speciale Settimana della Comunicazione”, n.4, maggio 2011, pp. 10-11

L’idiozia della violenza da hooligans: il caso Aliprandi

L’aggressione nei confronti di Vittorio Aliprandi è un atto violento, stupido, volgare. Niente che possa richiamare alla battaglia, al duello, alla nobiltà della lotta del bene contro il male, ammesso e non concesso che stia da una parte sola: solo un branco di prepotenti contro una vittima inerme, tanti contro uno – vigliacchi, insomma. E meno male che in questo caso la polizia è intervenuta tempestivamente, ha già arrestato alcuni degli aggressori, ed è probabile che prenderà i rimanenti, e i complici, magari. Ne siamo lieti, come quando all’ultimo arrivano i nostri. E li ringraziamo, come ringraziamo i cittadini che sono intervenuti per difendere la vittima e fermare gli aggressori. Ma non basta ancora.

Questi giovani luminari dell’antiglobalizzazione, che si credono più intelligenti e dotati di maggior senso critico e di più alta penetrazione ideologica degli altri perché parlano di politica al centro sociale invece che di calcio al bar, si comportano poi come i peggiori degli ultras: che menano purchessia, come ragione di vita e sola capacità di azione collettiva. Anche questa una forma di tifo: che, come quello calcistico, è una malattia. Da typhos: febbre, offuscamento. E’ questo che sconcerta di più. Che non si sia imparato ancora a fare altro. Che il massimo di coscienza politica che si è in grado di sviluppare sia allo stesso livello di quella del bambino arrabbiato, del fidanzato accecato dalla gelosia o dell’avventore di bar dal coltello facile: ce l’ho con lui, e allora lo picchio. Siamo ancora lì: all’infantilismo più puro, alla filosofia da film di kung fu, al cartone animato giapponese. Con la differenza che almeno, in questi, al pugno rispondo con un pugno perché non ho la fantasia e l’intelligenza di fare altro, ma un pugno almeno l’ho preso, prima di rispondere allo stesso modo. Questi autonominati difensori civici dell’ingiustizia globale, questi hooligan con pretesa di coscienza politica, il pugno non l’hanno nemmeno preso: si arrogano il diritto di darlo, in nome della loro verità.

Certo c’è un clima, in questa Italia, che sconcerta. In cui i rappresentanti delle istituzioni per primi, dal più alto al più infimo, e Aliprandi ne è un esempio, si arrogano essi stessi il diritto di un linguaggio violento, di affermazioni grossolane, di analisi senza fondamento, tanto per dire o per fare, che inveleniscono l’aria politica che respiriamo. Non a caso era appena stato condannato per questo: una buona notizia, che mostra come il male si possa fermare con la legge anziché con la violenza. Ma è un clima più diffuso: che demonizza intere categorie di cittadini, meglio se con pochi diritti, come gli immigrati; o dalla maggioranza dà del brigatista ai giudici, e dall’opposizione dell’assassino a un ministro. Così, tanto per dichiarare. Siamo passati dalla pretesa di incivilire i barbari all’imbarbarimento progressivo dei civili, e non è un progresso. Ma quest’aria che tira – questa sì, un nemico da combattere – non giustifica nulla. Men che meno un atto ulteriore e più grave di inciviltà.

C’è una violenza del sistema, è vero. Che non ha mai giustificato la violenza del singolo o del gruppo, tuttavia. Anche perché non porta a nulla. C’è un legame, tra mezzi e fini. E forse è il caso di cominciare a ricordarcelo. Come diceva il vecchio Gandhi, “il fine sta nei mezzi come l’albero nel seme”. Da mezzi violenti, e da chi semina violenza, cosa ci si aspetta che fiorisca?

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), L’idiozia della violenza da hooligans, in “Il Mattino”, 22 aprile 2011, pp. 1-17

Padova-Formia 10 ore nel caos

L’alta velocità è stata inventata per rendere possibili cose prima impossibili. Come andare e tornare in giornata da Padova a Formia per partecipare a un convegno. Una mazzata: 10 ore di treno. Ma fattibile, specie se ti paghi un bel biglietto in prima classe per stare più comodo e lavorare. Ecco come è finita.

Viaggio di andata. Prima classe in coda: era in testa. Nessun problema: una corsettina alle 6 del mattino fa bene alla salute. Nelle toilette (di prima!) né acqua né carta: giusto, abbasso i privilegi. Le prese per il computer non funzionano in tutto il vagone: ma perché ossessionarsi col lavoro? Mi dedico a un libro. E si arriva a Roma con soli 10 minuti di ritardo: la coincidenza è salva.

Ritorno: biglietteria chiusa a Formia tutto il giorno. Chissà perché visto che lo sciopero inizia alle 21. Ma per noi ticketless non c’è problema. Ritardo 25 minuti dell’Intercity. Il problema c’è: è giusto il tempo per la coincidenza. Ma, con un’altra corsettina, che fa bene anche alla sera, ce la facciamo al pelo. Peccato che il treno delle 18.48 sia soppresso: non si sa perché, visto che lo sciopero inizia alle 21, e altri treni successivi sono regolari. Dopo coda adeguata, veniamo dirottati su un treno notturno per Vienna. Altra corsettina, e via. Naturalmente solo seconda classe, niente prese e addio lavoro. Neanche un carrellino per comprare dell’acqua: meno male che intenerisco un’addetta ai wagon-lits delle ferrovie austriache. E riesco pure a sedermi. Altri sono meno fortunati. Ma alla stazione successiva salgono quattro cinesi regolarmente prenotati: come giusto, cedo loro il posto. Faccio il resto del viaggio in piedi, arrivo alla 1 e mezza, invece che alle 22,39, mettendoci il doppio esatto del tempo previsto. Ma con soli 5 minuti di ritardo. Sono molto consolato: grazie, Ferrovie. Dimenticavo: il tutto per 180 euro, tariffa speciale non rimborsabile. Avessi preso quella normale sarebbero stati 250. Non rimborsabili nemmeno quelli, visto che un treno alla fine l’ho preso.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Padova-Formia 10 ore nel caos – lettera al direttore, in “Il Mattino”, 3 aprile 2011, p. 15

Sommersi dal mare nostrum

L’irrilevanza italiana nel Mediterraneo

Lo chiamavamo mare nostrum. Ma era tanto tempo fa… Oggi è lo specchio dell’irrilevanza italiana.

Da quando è scoppiata la crisi tunisina – un fatto storico che, con un travolgente effetto domino, sta cambiando per sempre il mondo arabo e i rapporti euro-mediterranei, dal Marocco alla Siria – l’Italia è entrata in contraddizione con se stessa. Da un lato la geografia, che ne fa un ponte attraverso il Mediterraneo, e quindi la geo-politica e la storia, che dovrebbe farne un luogo naturale e culturale di incontro tra l’Africa e l’Europa. Dall’altro la realpolitik, che al contrario mostra una volta di più l’inesistenza dell’Italia. Se oggi cancellassimo lo stivale dalla carta geografica del Mediterraneo, dal punto di vista dei rapporti di forza, della capacità strategica e dell’immaginazione politica, non cambierebbe assolutamente nulla. Conterebbero altri paesi: gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, persino la Germania che non ha accettato di far parte della coalizione militare intervenuta in Libia (mentre l’Italia sì: ma poi con la Merkel si discute, con Berlusconi il silente no), e poi la Turchia, alcuni Paesi arabi, l’Iran, Israele…

Come è potuto succedere? Conta la mancanza di cultura politica internazionale, e probabilmente di cultura tout court. L’Italia, che aveva fino al secondo dopoguerra una grande tradizione orientalistica, che vuol dire di studio e riflessione sul mondo arabo e musulmano, non ce l’ha più. Il fascismo, per dire, aveva fondato l’Istituto per l’Oriente, per dare una base solida alle sue imprese coloniali: la repubblica l’ha lasciato morire. La Francia, al contrario, ha creato e potenziato una rete di istituti di ricerca in tutto il Maghreb e il Machrek, dove si formano i giovani accademici delle due sponde ma alle cui informazioni ricorrono anche i diplomatici e i militari transalpini. Gran Bretagna, Francia e Germania hanno inoltre imparato ad usare le elites arabe e gli stessi esuli politici che da loro vivono come referenti, collaboratori, costruttori di relazioni, fonti di informazione e strumenti di azione. Noi, a seguito di una ossessiva campagna di demonizzazione dell’immigrazione tutta, incapace di distinguere ciò che è utile e ciò che non lo è, non sappiamo usare queste risorse, e anzi le umiliamo.

A questo aggiungiamo l’insipienza di chi ha in mano la politica estera del nostro Paese. Che non ne ha azzeccata una: sostenendo Ben Ali quando già era crollato, dando la mano a Mubarak quando già l’avevano abbandonato anche gli americani, proponendo a modello Gheddafi quando già gli inglesi e i francesi stavano trattando con i suoi oppositori e lo stesso mondo arabo l’aveva da tempo scaricato, e andando poi a traino degli alleati senza esserne convinti e senza volerlo, con la consueta mancanza di autonomia e di pensiero strategico.

Il risultato? Che quel Mediterraneo che è la nostra storia e la nostra cultura – che il padanismo culturale ignora e del cui rifiuto non comprende le conseguenze – quel ‘continente liquido’ come lo chiamava lo storico Braudel, sta rapidamente emergendo come luogo strategico globale nello stesso momento in cui l’Italia l’ha culturalmente dimenticato e politicamente non capito, correndo concretamente il rischio di restarne sommersa, trasformando un’occasione storica in una sconfitta epocale.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Sommersi dal mare nostrum, in “Il Piccolo”, 30 marzo 2011, p. 1 (anche in “Il Mattino”, 2 aprile 2011, pp. 1-9)

Caro Causin, dopo il PD lascia anche la Regione

Lettera aperta (con risposte) ad Andrea Causin

Non discuto la tua scelta di uscire dal PD. Le critiche che muovi sono le critiche di molti altri. Anche di molti, con cui probabilmente hai più di qualcosa in comune in termini di elaborazione politica, che scelgono tuttavia di continuare a cercare di cambiare il PD dall’interno: i Chiamparino, i Renzi, i Civati e molti altri, fino a molti iscritti e simpatizzanti, delusi dalla attuale deriva ma non ancora disposti ad abbandonare il campo, convinti che sia, nonostante tutto, ancora riformabile, e necessario.

Condivisibili le tue posizioni critiche sul PD nazionale, e ancora di più su quello veneto, sulla sua poca incisività, sulla debolezza di leadership, sulle difficoltà di elaborazione di una linea politica forte, visibile, caratterizzante e condivisa. Giusto criticare le ambiguità, i tentennamenti, le incapacità, i silenzi, o le troppe parole su argomenti non dirimenti (come le critiche al berlusconismo che non sanno andare al di là di un’indignazione retorica e scontata, e in definitiva irrilevante, incapace di tradursi in proposta politica), e infine una disciplina di partito di alcuni che non è legata al PD, ma alle loro appartenenze precedenti.

Non penso che tu voglia lasciare per offrirti al miglior offerente. Non credo che tu ti sia venduto, e non penso che altri ti vogliano comprare. Non voglio nemmeno pensare ai tuoi destini politici futuri, se ve ne saranno: che sono problema tuo e scelta tua. Non mi interessano le allusioni, le dicerie e le malevolenze, che appartengono allo stile politico di altri.

Posso capire le critiche che fai, e accettare le scelte che ne deduci: purché siano coerenti e conseguenti. Che si scelga di fare battaglia politica interna al partito in cui si è stati eletti, o al suo schieramento, o di abbandonare l’uno e magari anche l’altro. Tutte le scelte sono legittimabili, purché chiare, oneste e conseguenti. E’ per questo che hai il dovere – se non vuoi finire come un Calearo o uno Scilipoti qualsiasi, persone che certamente politicamente disistimi – di abbandonare, insieme al PD, il tuo scranno di consigliere regionale, al quale sei giunto con il sostegno di persone che nel PD si riconoscono.

E’ un qualcosa che devi a te stesso, alla tua dignità personale, ai tuoi mondi di provenienza, a coloro che ti hanno sostenuto alle primarie, perché tu conducessi una battaglia politica interna, e infine a coloro che ti hanno votato all’interno della lista che tu oggi, legittimamente, decidi di lasciare.

E’ vero: anche altri hanno fatto scelte analoghe alla tua e non hanno pagato pegno, rimanendo al loro posto, dal Parlamento al Consiglio regionale. E’ vero, e triste, ma non giustifica le scelte che oggi sei chiamato a fare: in prima persona, di fronte alla tua coscienza. Ma anche, in quanto uomo politico e pubblico, di fronte ai tuoi sostenitori e ai tuoi elettori, e più in generale alla pubblica opinione.

Marca una discontinuità di stile, rivendica una dignità politica, mostrati diverso dai camaleonti di stagione: dimettiti, oltre che dal PD, dal Consiglio regionale. Potrai così mantenere un onore personale – che si riverbera tuttavia anche sui tuoi mondi culturali di provenienza – che sarebbe inevitabilmente e giustamente perduto di fronte ad una scelta differente.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Caro Causin, dopo il PD lascia anche la Regione, in “Il Mattino”, 21 marzo 2011, p. 7 (anche La Nuova Venezia e La Tribuna di Treviso)

Di seguito, il prosieguo dello scambio epistolare, avvenuto via Facebook

Risposta di Andrea Causin

Caro Stefano,

in questi giorni ho ricevuto moltissime lettere, mail e telefonate di sostegno alla mia scelta.

Persone che rivestono ruoli rilevanti nelle categorie, nei corpi intermedi e tantissima gente normale.

Ci sono stati alcuni commenti negativi. Persone che in modo civile non hanno condiviso la mia scelta. Ma ci sono state anche invettive e tentativi di attribuire alla mia scelta motivazioni abbiette o di tornaconto personale (rilanciate da persone pagate dal partito e dal gruppo consiliare regionale).

Con i primi ho accettato un confronto. A queste non ho risposto, né intendo farlo, perché si commentano da sole e rendono ancora più evidente a tutti quale aria si respiri oggi dentro quello che era nato come un partito nuovo, aperto e plurale.

La tua lettera è diversa perché parte dalla condivisione di molte delle ragioni che hanno determinato la mia scelta. Arriva a condividerne l’esito, ma censura, e questo appartiene al rigore e alla qualità straordinaria della tua persona, il fatto che alle dimissioni dal partito e dal gruppo non siano seguite anche quelle dalla carica elettiva di consigliere regionale a cui sarei arrivato, secondo te, con il sostegno del partito che adesso “tradisco”.

Non farò giri di parole e ti risponderò con la stessa tua franchezza:

Non rassegnerò le dimissioni da Consigliere Regionale del Veneto, ma continuerò in modo franco e leale il mio impegno di opposizione e per costruire una alternativa alla destra Veneta, che oggi è interpretata dalla Lega Nord.

Diversamente dai Calearo e Scilipoti, sono stato eletto con le preferenze di migliaia di cittadini che hanno scritto il mio nome sulla scheda elettorale. Molti mi hanno votato perché ero candidato nel PD e tantissimi, mi sento di dire i più, in virtù della conoscenza diretta di un impegno sociale e politico quasi ventennale, che mi vede puntuale, presente e disponibile.

In seconda battuta, diversamente da quanto dici, il mio partito ha fatto di tutto per rendermi la vita difficile. Forse ti è sfuggito che l’unica provincia d’Italia che ha approvato una deroga speciale alla norma statutaria che impediva la ricandidatura a chi aveva già fatto due mandati era Venezia. Permettimi di credere che ciò è avvenuto con lo scopo dichiarato (anche comunicatomi ufficialmente da un autorevole dirigente) di impedire la mia rielezione o quantomeno di renderla improbabile o stentata.

Ho accettato ugualmente la sfida e la voce degli elettori è stata chiarissima: contro ogni previsione sono arrivato primo. Voce chiarissima ma inutile, come ho lungamente spiegato nelle mie analisi.

Ed è anche questa vicenda personale, insieme a molte altre che per rispetto del PD e delle persone che vi militano e ci credono, che mi ha portato ad una sola conclusione: il PD, oggi, non è riformabile dall’interno.

La mia scelta, e tu che sei un osservatore attento lo sai, non è stata individuale, ma segue e interpreta quella di moltissimi che, con le stesse mie speranze, hanno affrontato la sfide elettorali e che da mesi vivono la stessa delusione. Soprattutto nelle regioni del Nord.

La scelta di rimanere in Consiglio Regionale va nella direzione di costruire anche nelle istituzioni una alternativa e una proposta credibile che il PD da solo non riesce più a interpretare.

Con amicizia

Andrea Causin

Consigliere Regionale

Consiglio regionale del Veneto

Gruppo Consiliare Misto

Risposta di Stefano Allievi

caro Andrea,

ti ringrazio, intanto, per aver risposto personalmente. Molti tralasciano di farlo, tanto prima o poi si dimentica tutto.

Come ho scritto, capisco la gran parte delle ragioni del tuo disagio, che sono quelle di molti altri esponenti, militanti, o semplici cittadini simpatizzanti ed elettori (o magari, ormai, ex elettori) del PD.

Il PD nazionale ha i suoi limiti di proposta politica, e direi persino di linguaggio. Il PD veneto, nei suoi vertici, pare imploso, tanto sembra aver accettato di essere condannato all’irrilevanza o, diciamo, a un dignitoso ma poco incisivo destino minoritario. E tuttavia, dentro il PD – persino negli organismi dirigenti, e ancora più a livello locale, in giro per l’Italia, incluso nel Veneto, nelle sopravvissute realtà governate dal PD come nelle molte in cui è spesso la sola opposizione dignitosa – vi è una quantità di energie vive, di spinte modernizzatrici, di profili riformatori, di capacità di iniziativa, di senso delle istituzioni e dello stato, e anche di senso dell’impegno politico come servizio al bene comune, che non è possibile lasciar morire, perché ne pagherebbe il prezzo non solo il PD, ma la convivenza civile e la civiltà della lotta politica nel Paese.

Questo PD ha bisogno di visibilità, di spazio, di rappresentanti che lo ascoltino e se ne facciano interpreti, o meglio ancora che gli lascino spazio, cortesemente lasciando qualche sedia libera dopo averle occupate per un numero più che sufficiente di mandati, e con esiti discutibili, stando ai risultati elettorali, ma mai veramente discussi.

E senza questo PD non c’è alternativa che sia credibile e possibilmente vincente: e che ridia fiato, speranza, dignità e futuro a un Paese che ne ha sempre meno. Alternativa che si costruirà non solo nel PD, certamente: ma difficilmente senza il PD e a prescindere da esso. Per questo, in una logica di sistema e non di appartenenza politica, c’è bisogno, eccome, di riforma – anzi, di più, di rinnovamento e cambiamento radicale – dentro il PD; e, anche, di una opposizione e di un progetto che nasca al di fuori, e che magari si alleino in una prospettiva di percorso condiviso.

Sono quindi rimasto molto deluso dalle reazioni alla tua scelta di lasciare il PD. Da un lato quelle di coloro che lo hanno fatto prima di te, magari subito dopo le elezioni, e dovendo giustificare una posizione incomoda e moralmente problematica, semplicemente ci godono, ma senza alcuna prospettiva e proposta politica reale: come a dire, vedete che non sono il solo? Dall’altro quelle di chi, al vertice del partito, per l’ennesima volta dice: sì, va be’, ma si sapeva, c’erano già segnali, e via così, sopendo e minimizzando, o al contrario insinuando e maledicendo, comunque mai discutendo nel merito, e magari facendo un po’ di sana autocritica, limitandosi alla eterna logica dell’autoriproduzione delle burocrazie. La domanda è: ma reagiranno così anche al 999° che se ne andrà?

Detto questo, c’è un elemento base di moralità politica che per me resta dirimente. Te lo riporto con l’esempio di Nicola Rossi, economista e galantuomo, eletto al Senato nel PD, che formulando delle critiche per qualche verso anche simili alle tue, ha scelto di non condividere più il percorso politico del partito che lo ha eletto. E per questo motivo si è dimesso dal Senato, o almeno ci ha provato, con l’ipocrisia finale del suo partito che insieme ad altri ha respinto le dimissioni. Ecco, credo che gesti come questi siano necessari, e siano più politici di tanti altri. So che sono rari, e in questa legislatura ci sono stati così tanti esempi di salto della quaglia plurimo e carpiato, che fanno splendere ancora di più i casi isolati di dimissioni reali. Mi piacerebbe che ce ne fossero altri. Nello schieramento che ne ha visti di più, che è quello di centro-destra. E in chi ha abbandonato il PD. Questa, a mio parere, dovrebbe essere la normalità politica, il livello base di decenza etica: non l’eccezione. E in altri paesi lo è. E’ giusto che gli individui abbiano libertà di scelta. E’ giusto anche che, per le proprie scelte, paghino il relativo prezzo. Tanto più – e non andrebbe dimenticato mai – quando si è figure pubbliche e di mezzo c’è il denaro del contribuente.

Cordialmente

Stefano Allievi

La nazione mobile. L’identità tra emigranti e immigrati

La nazione mobile. L’identità tra emigranti e immigrati

C’è un’Italia di fatti e un’Italia di parole; una d’azione, l’altra di dormiveglia e di chiacchiere; una dell’officina, l’altra del salotto; una che crea, l’altra che assorbe; una che cammina, l’altra che ingombra”, scriveva Giuseppe Prezzolini nel 1904. E aggiungeva: “I nostri uomini politici non sono vele, né timoni, né zavorra; impicciano, non spingono né dirigono”. Giustino Fortunato, nel 1911, cinquantesimo anniversario dell’unità, aggiungeva che, di queste due Italie, “una è l’Italia europea, l’altra l’Italia africana”.

Lette con gli occhi di oggi, queste frasi alludono all’opposto di quello che sembra. Sembrano dirci che sì, ci sono due Italie: quella che cerca di capire come si evolve il mondo e quella che fa finta di niente, o peggio “fa finta di tutto”, come diceva Ennio Flaiano. Che i politici, in maggioranza, fanno parte della seconda Italia. E che sono loro, insieme ai molti cittadini che si comportano come loro, a costituire “l’Italia africana”: non i meridionali, non gli immigrati. Che, come molti autoctoni settentrionali che si danno da fare, e con cui condividono questi valori, più spesso appartengono – per dirla con Prezzolini – al paese che lavora, non a quello che vive a sbafo; che agisce, non che chiacchiera; che sta in officina, non in salotto.

Come si vede, la divisione non è geografica. In questo senso, l’Italia è una, poiché viviamo sotto lo stesso tetto. Anche se è stato costruito lentamente. Prima aggregando e integrando stati autonomi e differenziati, al seguito di quel manipolo di lombardo-veneti che costituivano il nerbo e la maggioranza dei Mille garibaldini. Poi integrando all’interno, in un’appartenenza comune, popoli che a poco a poco hanno cominciato a riconoscersi uniti, versando lo stesso sangue sulle medesime trincee, nel Risorgimento prima e durante la Grande Guerra poi, passando per le imprese coloniali dell’italico impero, fino al secondo conflitto mondiale e alla Resistenza. E riconoscendosi infine in una medesima lingua: quella dell’eredità letteraria, certo, ma popolarizzata da quei grandi mezzi unificanti che sono stati la scolarizzazione obbligatoria da un lato, e i mezzi di comunicazione di massa dall’altro: dalla radio dei discorsi di Mussolini, alla Rai-Tv.

A questi va aggiunto un altro aspetto, oggi più importante che mai, che riguarda i movimenti delle popolazioni. Gli italiani si sono riconosciuti insieme emigranti, e sono stati trattati come italiani – e male, subendo le discriminazioni correlate a questa identificazione – innanzitutto all’estero: dove Veneti (la regione che in Italia ha prodotto più emigranti) e Siciliani, Piemontesi e Calabresi sono stati accomunati dalla stessa etichetta e, spesso, dallo stesso stigma. Poi è stata la volta delle migrazioni interne, dal Sud al Nord, che hanno mischiato e di molto le popolazioni italiche. E infine – nell’età della globalizzazione – c’è stato l’arrivo delle nuove immigrazioni.

Le emigrazioni (30 milioni di italiani che se ne sono andati in un secolo e mezzo di storia, in gran parte anche rientrati) hanno prodotto una nuova Italia fuori d’Italia: si calcolano in 50-60 milioni, infatti, i discendenti di italiani emigrati che vivono all’estero. E le immigrazioni, che oggi ammontano a quasi 5 milioni (tanti quanti gli italiani all’estero che mantengono cittadinanza e passaporto), ci dicono di nuovi futuri italiani che già vivono fra noi. Di questi oltre tutto quasi un milione sono i figli di immigrati residenti, nati qui, ma che solo in piccola parte hanno per ora acquisito la cittadinanza italiana, a causa della legge in materia più restrittiva d’Europa. E non crediamo sia un bene.

Da un lato infatti ci siamo sbracciati per consentire a persone che vivono altrove da decenni, e che in maggioranza continueranno a viverci, di sentirsi più italiani, votando per chi poi governa noi che stiamo qui. Dall’altro impediamo a chi qui ci è nato e ha studiato di essere pienamente italiano, non favorendo – è il minimo che si possa dire – la loro integrazione, e poi lamentandoci che non sono ben integrati. Dimenticando il monito del cardinal Martini: “è difficile sentirsi figli nella casa dei doveri se si è orfani nella casa dei diritti”.

L’integrazione è questione infatti di diritti e di doveri, di riconoscimento reciproco e di accoglienza, nei due sensi: anche di simboli, culture, religioni diverse (a cominciare dalle diversità interne: linguistiche, ad esempio). Ecco perché c’è – o ci dovrebbe essere – spazio per tutto: per l’italiano lingua comune e per la lingua d’origine (arabo, cinese o veneto che sia), e magari per l’inglese lingua degli scambi con il mondo; per la patria veneta, per la cittadinanza italiana, e per la comune appartenenza europea; per l’italiano cattolico, quello ateo, quello convertito al buddhismo, e per il neo-italiano sikh o musulmano. Per il tricolore e per San Marco, insieme alla nostalgia per il paese degli avi. Non sono in contraddizione, questi elementi, come non lo sono diversità e unità: E pluribus unum (“da molti, uno”) è il motto degli Stati Uniti, non a caso. Ed è chi li mette in contraddizione che rinnega la sua storia. Inclusa quella delle ‘piccole patrie’, che sono anch’esse frutto di innesti anche casuali, di inseminazioni disparate e di permeabilità profonde.

Forse oggi il problema è proprio questo: l’ignoranza delle proprie radici, della propria storia, e di come si è prodotta, l’appiattimento sul presente, la mancanza di prospettiva. Che – lo sappiamo bene guardando i nostri figli e parlando con i nostri concittadini – non è problema degli immigrati, ma di un’epoca. A cui tutti, e per tutti, dovremmo cercare di porre rimedio. Ritrovando insieme le ragioni dell’unità.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), La nazione mobile. L’identità tra emigranti e immigrati, in “Il Mattino”, 17 marzo 2011, p. II (inserto speciale 150° anniversario)

Il sindaco Renzi calamita per il PD

Per la stampa è quasi sempre e solo il ‘rottamatore’. Ma Matteo Renzi, come figura politica, costituisce una novità non solo per il PD, ma per la politica nel suo complesso. Per l’età, innanzitutto: il semplice fatto che lo si chiami il ‘giovane’ sindaco di Firenze testimonia di questo dato, e del problema costituito dal gerontocomio politico italiano. Per il linguaggio che utilizza: diretto, scevro da ogni politichese, popolare ma non populista. Per lo stile politico, che gli ha fatto vincere le primarie contro il suo stesso partito, e poi le elezioni, pur con opinioni spesso controcorrente: da un liberalismo non di facciata al piglio decisionista contro le lobby sindacali e non (come nella decisione di pedonalizzare la zona del Duomo di Firenze senza nemmeno informare i commercianti, uscendo da un immobilismo che aveva bloccato ogni decisione in proposito da decenni; o come nelle critiche alla Gelmini, accusata non di riformare, ma di non farlo abbastanza); dalla trasversalità che gli ha fatto incontrare Berlusconi ad Arcore, attirandosi critiche furibonde, alle prese di posizione sul referendum Fiat e su Marchionne. Fino al richiamo esplicito alla propria fede cattolica, in luoghi e ambienti dove è minoranza, ma in chiave di laicità praticata e non come etichetta da esibire: le sue posizioni su testamento biologico, omosessualità o coppie di fatto suonano infatti eresia al clericalismo senza fede di molti neoguelfi italiani, ma sono anche interpretazione rispettosa del proprio ruolo, capace di ricordare, anche alla stessa Chiesa, che il credente “non va in politica per testimoniare dei valori, ma per cambiare concretamente le cose”, e che si viene eletti “per fare il sindaco, non per fare il vescovo”.

Già questi erano elementi di interesse sufficienti per decidere di invitare Renzi a Padova a presentare il suo libro “Fuori!” (sabato 12 marzo, ore 18, presso il Dipartimento di Sociologia, via Cesarotti 14). Ma è stato significativo scoprire che nel frattempo altri volevano fare altrettanto: da associazioni del privato sociale a sindaci della cintura padovana, da circoli culturali ai giovani di “Prossima fermata: Padova”, fino a diversi esponenti dei Giovani democratici. Un segnale che Renzi non è tanto importante come figura in sé, ma per il fatto che interpreta un comune sentire diffuso e che ha bisogno di esprimersi. E non perché introduce concetti rivoluzionari, ma perché fa di una normalità assente dalla politica o da essa mal interpretata, il nerbo di una politica possibile e anzi già localmente praticata. Renzi ha avuto semplicemente più visibilità di altri per le sue critiche dirette, che anch’esse hanno intercettato un sentire diffuso, alla nomenklatura del PD: quelli, nelle sue parole, del partito nuovo con le facce vecchie, che continuano a perdere ma restano sempre al loro posto, che “vanno mandati a casa per quello che non hanno fatto più che per quello che hanno fatto. Per la speranza che non hanno saputo suscitare”. A cui chiede senza complimenti di rispettare il loro proprio statuto (dopo tre mandati, a casa). E da cui è cordialmente detestato. Di Renzi, in questo senso, ce ne sono anche in altre forze politiche. Ed è un segnale da seguire con interesse. Perché interpreta un bisogno di diversità e di normalità politica che non è di un partito, e nemmeno di uno schieramento, ma del sistema politico italiano nel suo complesso.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Il sindaco Renzi calamita per il PD, in “Il Mattino”, 11 marzo 2011, pp.1-17