Quando il pesce sa di immigrato

Nei giorni scorsi, alla notizia dell’ennesimo barcone di disperati affondato nel Mediterraneo, mi è purtroppo capitato di sentire, anche da parte di quindicenni all’uscita dalla scuola (ma sicuramente è comune sentire assai più diffuso), cori di giubilo che inneggiavano alla tragedia. Come fosse una vittoria. Come fosse umano… Ormai è uno stile culturale, o sottoculturale, diffuso. Ho pensato che fosse necessario provare a dire qualcosa, senza toni scandalizzati o di denuncia, che non servirebbero a nulla. Ma prendendone atto e cercando di rispondere, di far capire qualcosa, con attitudine didattica, e ricominciando dall’abc. Ci ho provato con l’editoriale che segue, che ho mandato ai quotidiani del Nordest con cui abitualmente collaboro. Ma – che strano… – non me l’ha pubblicato nessuno.

Mettiamola in maniera sgradevole ma chiara. Quest’estate rischiamo di mangiare dell’ottimo pesce del Mediterraneo che potrebbe essersi nutrito di carne umana: quella di qualche disperato alla ricerca di un destino migliore. Vogliamo arrivare a questo? Se la risposta è no, dobbiamo ricominciare a farci qualche elementare domanda.

Non ci sono risposte semplici a problemi complessi, e le migrazioni sono uno di questi. Né il foera di ball e la caccia armata al clandestino né le braccia indiscriminatamente aperte sono soluzioni praticabili. Anche se è necessario ricordare che ormai, nel nostro paese, la prima opinione sta prendendo sempre più corpo, e in questi giorni ci è toccato ascoltare inquietanti battute da stadio alla notizia dell’affondamento dell’ennesimo barcone. Come se, davvero, per noi fossero diventati mera carne – o men che quello: cibo per i pesci – e non fossero più uomini, donne, bambini, destini spezzati. Vent’anni di propaganda rozza e di lepidezze volgari sparate da troppi opinion makers hanno prodotto anche questo: una insensibilizzazione progressiva al dolore altrui che ha invelenito il clima e imbarbarito nell’animo i civilizzati di una volta.

Ma allora, che fare? Lasciamo da parte, per ora, le politiche di integrazione all’interno del nostro paese. Limitiamoci all’altra faccia della medaglia: quella delle politiche transnazionali. L’analisi è assai semplice: o facciamo qualcosa, o gruppi sempre più ampi di persone cercheranno un destino migliore in Europa, anche a costo del naufragio. Possiamo fermarli? In parte. E in parte continueremo ad accoglierli, non per amore ma per rispondere ai bisogni reali del nostro mercato del lavoro e ai nostri desideri di consumo senza lavoro, o di maggiore benessere al minor prezzo possibile (questo – se vogliamo chiamare le cose con il loro nome – è il pretendere manodopera a basso costo, in agricoltura, in edilizia, nell’industria, nei servizi alla persona o in casa nostra, come colf e badanti). Si può discutere sulla sostenibilità nel lungo periodo, oltre che sulla saggezza e sulla giustizia di un modello come questo, che in effetti va messo in discussione. Ma prima ancora, una semplice domanda.

Come si può evitare che partano? Evitarlo del tutto non si potrà. Ma diminuire i flussi sì. Come? Con opportunità di sviluppo e maggiore giustizia sociale e civile nei paesi d’origine. Si può fare? Si potrebbe: con maggiore cooperazione allo sviluppo (e a uno sviluppo sostenibile), e sostegno alle democrazie invece che alle dittature. Lo facciamo? Sempre meno. La conseguenza è d’obbligo: meno faremo in questo senso, più migrazioni avremo.

Ecco, se c’è qualcosa che ci insegna l’ennesima tragedia nel Mediterraneo, è che i problemi non si possono continuare a nascondere sotto il tappeto. Prima o poi esplodono. Bisogna quindi fare qualcosa. E prima ancora bisogna pensare a cosa si fa. Saperlo progettare. E pagarne i costi, perché nessuna politica è gratis. Persino la Lega, per contrastare l’immigrazione, ha sempre detto “aiutiamoli a casa loro”. Peccato che in vent’anni non abbia prodotto una sola proposta di legge in questa direzione, o stanziato un solo euro, o fatto un minimo sforzo di riflessione in materia: troppo ossessionata dal locale, non ha tempo di pensare al globale, da cui il locale tuttavia dipende. Fare qualcosa vuol dire destinare, poniamo, il 3% o più delle nostre risorse ad aiutare altri a casa loro. Non ne moriremmo: vorrebbe dire il 3% in meno di pane, di carne, di vestiti, di aggeggi elettronici. Ma ne vivrebbero altri invece di rischiare di morire per venire da noi. E’ il caso di cominciare a rifletterci. O di cominciare a guardare con occhio diverso la frittura mista che ci serviranno al ristorante, quest’estate.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Quando il pesce sa di immigrato, in “Confronti”, n. 11, maggio 2011, p. 5