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Cismoc (Centre interdisciplinaire d’études de l’Islam dans le monde contemporain), UCL Louvain

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Cismoc (Centre interdisciplinaire d’études de l’Islam dans le monde contemporain), UCL Louvain

Cosa sarà l'islam europeo A R R/I

A R e R/I
Cosa sarà l’islam europeo. .
SCANNERIZZARE COPERTINA, INDICE, QUARTA. L’HO IO
Da: Nomos & Khaos. Rapporto Nomisma 2007 sulle prospettive economico-strategiche, Osservatorio Scenari Strategici e di Sicurezza, Bologna, 2008
Islam ed Europa: clashes, encounters, feedbacks
Perché i vecchi paradigmi interpretativi non tengono più
Stefano Allievi e Elisabetta Gnudi
1. Clashes, encounters, feedbacks
A proposito di islam e occidente (identificando l’Europa con quest’ultimo) ritorna spesso, nel dibattito intellettuale, mediatico e politico, il richiamo alla tesi del clash of civilizations come chiave di lettura dominante. Poco ci interessa in questa sede ritornare sulla pertinenza di questa celebre definizione del politologo americano Samuel Huntington, molto citata e non altrettanto approfondita (come del resto il ponderoso volume dal medesimo titolo).
Quello che ci interessa qui è ragionare sulla sua fortuna. Non solo in occidente, ma anche in una parte importante del mondo islamico, dove un comune sentire di fatto ispirato a questa definizione si è dimostrato vincente e convincente, e manifesta i suoi effetti nel quotidiano e soprattutto nella sua rappresentazione. Quest’ultima, del resto, è decisiva.
Come ci insegna una delle poche definizioni che in sociologia abbia acquisito lo statuto di teorema – quello che viene chiamato teorema di Thomas, dal nome del sociologo americano, tra i fondatori della scuola di Chicago, che l’ha introdotta nel 1928 – se una cosa è percepita come reale, essa sarà reale nelle sue conseguenze; ovvero, non importa che una cosa sia vera: è sufficiente che sia creduta vera perché produca effetti reali. Così è anche del clash of civilizations e della sua popolarità, trasformatasi rapidamente in plausibilità, poi in descrizione con pretesa (talvolta esclusiva) di oggettività, e infine in quadro di riferimento interpretativo all’interno del quale collocare i fatti, e ancora prima – un aspetto molto importante e sottovalutato – selezionarli1.
In estrema sintesi, la visione huntingtoniana è riassumibile come segue: ci sono diverse civiltà, tra loro contrapposte. In passato si contendevano e conquistavano territori. Oggi che non c’è più terra da conquistare, le civiltà si scontrano tra loro, e aumentano i conflitti su base culturale e religiosa.
Huntington ha avuto ottime ragioni nel pronosticare l’evoluzione della realtà: ci sono, effettivamente, sempre più conflitti interpretati come aventi base culturale e religiosa, e letture o manipolazioni della realtà basate su questi presupposti2.
Il primo problema è che questa è solo una metà della realtà: si basa, per l’appunto, su una rigorosa selezione dei fatti – l’altra metà è infatti che, insieme agli scontri, sono aumentati anche gli incontri (come qualsiasi operatore economico sa per esperienza, e uno sguardo appena accennato a fenomeni come le globalizzazioni – non solo commerciali e finanziarie, ma delle stesse visioni del mondo –, il turismo di massa, le migrazioni o le evoluzioni e le direzioni prese dai media mostrerebbe con abbondanza di esempi).
Il secondo problema, legato al primo, è che se è corretta (per metà) l’evoluzione della malattia, di cui sono effettivamente verificabili molti sintomi (l’11 settembre è stato quello più decisivo nel rendere plausibile questo quadro interpretativo), essa è tuttavia fondata su una diagnosi errata. Non è perché sono separate e magari incompatibili che le civiltà (accettiamo per semplicità questa terminologia impropria) si scontrano: ma precisamente perché si incontrano sempre di più. Ed è precisamente l’aumentare degli incontri che produce anche un aumentare degli scontri e delle incomprensioni.
Se è vero che ci sono sempre più conflitti su base culturale e religiosa, non è perché civiltà separate si scontrano, ma perché civiltà sempre più interrelate si trovano a fare i conti l’una con l’altra (il che, naturalmente, non rende i conflitti meno dolorosi: ma li interpreta eventualmente come conseguenze spesso solo temporanee ma comprensibili e in certa misura inevitabili, di fronte ad una situazione nuova e non ancora spiegata in altra chiave, non ancora ‘normale’, o meglio normalizzata). Oltre tutto i conflitti non esplodono su qualche immaginaria terra di confine, in quei “conflitti di faglia” su cui il politologo americano si è a torto concentrato: ma negli stessi paesi, nelle stesse città, negli stessi condomini in cui non le civiltà, ma gli uomini e le donne che da esse provengono e con esse più o meno si identificano, si ritrovano a convivere.
Oltre ai clashes, inoltre, ci sono gli encounters (incontri), le interrelations (interrelazioni) e i feedbacks (retroazioni) che, nelle pagine che seguono cercheremo di approfondire, a proposito dei rapporti tra islam ed Europa.
2. Islam ed Europa: stadi di approssimazione
Non possiamo qui entrare nel dettaglio di processi storici lunghi e complessi, e tutt’altro che unilineari. Tenteremo tuttavia di riassumere in maniera necessariamente schematica quello che è in realtà un intero ciclo storico di rapporti tra islam ed Europa, al fine di sottolinearne le evoluzioni e soprattutto le tendenze.
Prima fase: islam ed Europa. In una lunga prima fase, durata per almeno i primi dieci secoli di storia dell’islam, che è quella di alcuni grandi conflitti del passato (elaborati come tali, peraltro, in tempi successivi) simboleggiabili dalle Crociate, abbiamo visto affrontarsi islam ed Europa (cristiana), che sono concepiti e si percepiscono come reciprocamente impermeabili ed autoreferenziali. Questo anche a dispetto della realtà e della storia, che ci mostra come permeabilità e scambi (di idee filosofiche, nozioni scientifiche, forme artistiche, ma anche economiche e commerciali) fossero più la norma che l’eccezione.
Seconda fase: l’Europa nell’islam. Nella seconda fase è stata l’Europa a penetrare profondamente nelle terre d’islam (il momento simbolico più forte di questa penetrazione può essere individuato nella spedizione napoleonica in Egitto, nel 1798): prima nell’età degli imperi e nel periodo della colonizzazione, quando ha dominato direttamente i paesi musulmani, e poi nella fase tuttora in corso dell’influenza “a distanza”, neo- o post-coloniale, che passa attraverso i processi di globalizzazione economica, la pervasività dei mass media e dei modelli di consumo occidentale, l’inglobamento progressivo del mondo musulmano nelle dinamiche economiche e nelle istituzioni politiche transnazionali.
Terza fase: l’islam in Europa. In una terza fase, più recente (che per la Francia, ad esempio, comincia già tra le due guerre mondiali, e nella maggior parte dei paesi europei nel periodo della ricostruzione post-bellica e poi del boom economico degli anni ’50 e ’60 nell’Europa del centro-nord, e ancora più tardi, dalla fine degli anni ’70 in avanti, nell’Europa del sud), comincia la presenza dell’islam in Europa, attraverso le migrazioni. È una fase caratterizzata ancora essenzialmente da immigrati di prima generazione. Le provenienze sono in questo caso inizialmente da paesi ex-colonizzati (algerini per la Francia, indopakistani per la Gran Bretagna), ma anche pianificate ex-novo (come nel caso dei turchi in Germania) e progressivamente si allargano con l’allargarsi del ventaglio dei paesi esportatori di manodopera a seguito della domanda europea.
Quarta fase: l’islam d’Europa. In una quarta fase vediamo attuarsi – attraverso un progressivo inserimento attraverso i processi di integrazione lavorativa in primo luogo, poi sociale e in qualche caso anche politica, e soprattutto attraverso il passaggio generazionale, che contribuisce al formarsi anche di una borghesia e di un’intellighenzia di origine islamica – la nascita e il consolidamento di un islam d’Europa. Non proveniente da fuori, quindi – seppure in rapporto con l’islam dei paesi d’origine – ma nato e socializzato in Europa, in essa formatosi e confrontatosi, e con essa costretto o stimolato a costruire la propria identità e il proprio spazio.
Quinta fase: l’islam europeo. Il seguito di questo processo dovrebbe essere il formarsi di un vero e proprio islam europeo, con una identità propria e marcata, diversa da quella ad esempio dell’islam arabo o di altri paesi e aree culturali di provenienza. Questo islam è e ancor più sarà caratterizzato dall’essere un prodotto autoctono europeo, in buona misura il frutto di un progressivo e sostanziale processo di cittadinizzazione dei musulmani residenti in Europa, in prospettiva nella pienezza dei diritti, a parità con gli altri europei, con cui condividere un destino comune. Di questa fase, per ora appena delineata, non è possibile dir molto, se non che i suoi esiti dipenderanno tanto dalle evoluzioni interne alle popolazioni e alle comunità musulmane, influenzate anche dalle dinamiche dell’islam globale, quanto e forse soprattutto dalle reazioni e dalle politiche adottate nei loro confronti dai governi dei singoli paesi europei, a loro volta influenzati dai loro partiti e dalle loro opinioni pubbliche. In una parola, dipenderà largamente da noi, dal nostro modo di affrontare il problema, dall’impostazione del dibattito sul tema, dalle nostre paure, dalle nostre visioni del mondo.
Oggi la maggior parte dei paesi europei si trova tra la terza e la quarta fase, anche se vi sono alcuni accenni di un inizio della quinta, che saranno più visibili nei prossimi anni e decenni. Va tenuto presente comunque che il ciclo continuamente ricomincia con i nuovi immigrati che mano a mano arrivano. E che le tendenze delineate sono appunto tali: tendenze maggioritarie, empiricamente verificabili, ma che non coinvolgono la totalità delle popolazioni musulmane, tra le quali sono e saranno evidenziabili anche resistenze a questi processi, controtendenze e posizioni differenziate, riscontrabili anche tra le seconde generazioni. Come tutti i fenomeni sociali, anche questi non sono generalizzabili, e hanno elementi di complessità, di contraddittorietà, di ambiguità.
Quello che è importante acquisire è che siamo usciti, fin d’ora, da quella contrapposizione descrittiva, che possiamo a questo punto riconoscere come una falsa alternativa, che vuole islam ed Europa come due corni di un dilemma irrisolvibile: oggi l’islam è in Europa, ed è qui per rimanerci, seppure progressivamente in forme diverse. È importante quindi vedere in quali forme.
3. Effetti dell’incontro sul suolo europeo
In Europa ci si incontra, e ci si mischia. Ordinariamente. Quotidianamente. Non è nemmeno questione di volontà: semplicemente accade. Dalla scuola al mondo del lavoro, dalla vita di quartiere ai consumi culturali, dalle attività commerciali e di consumo ai luoghi dello sport e del divertimento.
Si possono attuare molte strategie di resistenza, qualche volta con temporaneo successo: vanno in questa direzione i tentativi di alcuni leader delle popolazioni musulmane (e non solo musulmane) immigrate, e di una parte dei rappresentanti delle prime generazioni (la generazione dei padri, contrapposta a quella dei figli e delle figlie), di chiudersi in se stessi, in comunità-ghetto e quartieri separati, o le indicazioni e le opinioni di taluni imam importati dai paesi d’origine, che predicano la non commistione con i valori occidentali e la separatezza, nonché le pratiche sociali di talune famiglie, che tentano di proteggere i loro figli e soprattutto le loro figlie dal “contagio” occidentale, cercando di farli vivere all’interno di comunità chiuse o magari di rispedirli a proseguire gli studi o a sposarsi al paese d’origine o con parenti provenienti dal medesimo.
Si tratta di costi sociali talvolta soggettivamente tremendi e in qualche misura, tuttavia, inevitabili, che è possibile e doveroso cercare di ridurre, ma ai quali abbiamo assistito in tutti gli episodi d’incontro tra popolazioni e in tutti i fenomeni migratori, incluso nella storia delle migrazioni italiane all’estero. Semmai è importante imparare a interpretarli per quello che sono – forme di spaesamento e di disagio talvolta anche gravi, e che perciò è doveroso monitorare con attenzione (oltre tutto su base etnica e culturale, e in cui sono fattori determinanti anche il livello di istruzione, il provenire da ambienti rurali o urbani e la classe sociale, più che la religione in senso stretto) – e non per quello che molte letture mediatiche dicono che siano: espressioni a livello micro (locale) del clash of civilizations esistente a livello macro (globale).
Del resto, in questo processo pesano fortemente le paure, più reciproche di quel che immaginiamo. È difficile pensare di mischiarsi con chi, sul versante islamico, non lo vuole, o con chi, come accade spesso dal punto di vista della società d’accoglienza, non ti vuole e ti respinge, a costo d’accentuare le stesse tendenze che dice di voler combattere. Tuttavia, sono le premesse stesse del vivere occidentale, del vivere europeo, che portano nella direzione dell’incontro.
Da questo punto di vista, l’Europa costituisce un laboratorio eccezionale: libertà d’associazione e di manifestazione del pensiero, uguaglianza di diritti tra uomo e donna (e, nonostante le resistenze, col tempo s’impara a rispettarli e ad usarli più rapidamente del previsto3), situazione di concreta pluralità culturale e religiosa come norma di legge e come normalità sociale, elevati livelli di mixité (in molti sensi, di cui quello delle relazioni personali e di coppia non è che l’esempio più evidente), un’elaborazione intellettuale e teologica assai più libera che in molti paesi dell’islam d’origine, maggiori possibilità di emergere, per leadership intraprendenti e non convenzionali, sono altrettanti elementi che fanno dell’Europa non solamente territorio di sfida, ma anche di opportunità importante per tutto l’islam.
Un islam che in Europa vede attuarsi trasformazioni tanto rapide quanto radicali e persino spettacolari. Perché, innanzitutto, è plurale al suo interno: un musulmano – da qualunque paese, tradizione e scuola giuridica e interpretativa dell’islam provenga – si trova in Europa confrontato, all’interno della medesima moschea o di una qualche associazione, in ogni caso nei giochi plurali dei tentativi di rappresentanza e di visibilità nello spazio pubblico, con altre tradizioni, altre modalità di vivere, di praticare, di dire e di pensare quello stesso islam che credeva uno e scopre invece fortemente plurale, diviso, frammentato, internamente conflittuale. E questo accelera ulteriormente i processi di riflessività e di trasformazione interna.
Ma anche un islam che è e rimane in interazione e in interrelazione profonda con le sue terre d’origine, grazie all’esistenza di “comunità transnazionali”4 fortemente favorite dalla diminuzione del costo e delle difficoltà dei trasporti, con la possibilità di viaggi di ritorno più brevi e più frequenti, e dall’innovazione tecnologica (da internet alle tv satellitari, che, contrariamente a quel che si pensa, viaggiano nei due sensi: dai paesi musulmani alle minoranze islamiche in Europa, e viceversa) che consente l’identificazione permanente – quando la si vuole attivare, e non sempre lo si vuole, o solo a intermittenza – con sistemi culturali di riferimento ormai de-localizzati.
Questo insieme di fattori apre la possibilità di mantenere interrelazioni forti con la famiglia allargata e la cultura d’origine, ma anche di costruire percorsi individuali assai più movimentati che in passato, che dall’ethnic business alla politiche associative, dalle pratiche matrimoniali ai percorsi di studio, consentono flessibilità e diversità di orizzonti molto maggiori rispetto alle generazioni d’immigrati passate. E questo consente anche di praticare, talvolta di teorizzare, la possibilità e i benefici di un islam europeo sganciato dai legami etnici e tradizionali5.
A questi aspetti si aggiunge la constatazione, importantissima eppure sorprendentemente inosservata, che un musulmano d’Europa, già con le prime generazioni, e ancor più con le seconde (e terze, ecc.) è mediamente più alfabetizzato, più colto, con un reddito pro-capite più alto, con possibilità di scelta e con opportunità di inserimento maggiori rispetto al suo correligionario rimasto nel paese d’origine.
Questo vale per un pakistano in Gran Bretagna rispetto a un pakistano in Pakistan, per un turco in Germania rispetto a un turco in Turchia, per un algerino in Francia rispetto ad un algerino in Algeria, ma anche per un marocchino, un egiziano o un senegalese in Italia rispetto ai loro omologhi nei rispettivi paesi d’origine.
Non solo: questo stesso musulmano trapiantato in Europa ha a disposizione mezzi e possibilità di elaborazione culturale, di confronto teologico e di pratiche spirituali – e stiamo parlando solo di quelle interne all’islam, per non parlare di quelle che lo portano a contatto con altre tradizioni – molto maggiori di chi vive nella maggior parte dei paesi musulmani. Il che, insieme ai diritti di cui è comunque titolare, specie se cittadino (come è il caso, ad esempio, della maggior parte dei musulmani di Francia o di Gran Bretagna), e almeno quando è uscito dalla fase iniziale in cui prevale la necessità della soddisfazione dei bisogni primari, gli fa perdere abbastanza rapidamente – dal momento, almeno, in cui se ne rende conto – ogni e qualsiasi senso di inferiorità rispetto all’islam dei paesi d’origine, soprattutto a seguito del passaggio dalla prima alla seconda generazione.
Produce anzi, in molti casi, una sorta di fierezza per un islam de-etnicizzato, de-tradizionalizzato, slegato anche linguisticamente dall’islam d’origine, a torto o a ragione considerato come più puro, più strettamente religioso, che comincia ad esercitare un certo interesse, e un certo fascino, anche tra i musulmani, soprattutto giovani, che vivono in paesi islamici. Il fatto ad esempio che nei paesi di immigrazione, dalla seconda generazione in avanti, si legga sempre più spesso il Corano nella lingua del paese in cui si vive, fa sì che implicitamente si taglino i ponti con quattordici secoli di tradizione interpretativa disponibili solo in arabo.
Un fatto, questo, di cui solo pochi europei si sono accorti, che pochissima politica percepisce nel valore aggiunto di cui è portatore, che all’intellettualità e al giornalismo che discetta di islam per lo più sfugge, ma che pure è un fattore di lungo periodo che già sta cominciando a cambiare, e cambierà ulteriormente, gli equilibri religiosi, e in prospettiva geopolitici ed economici, tra l’islam europeo e quello dei paesi d’origine, e del mondo arabo in particolare. E di cui l’Europa potrebbe seriamente e intelligentemente beneficiare. Non solo per meglio integrare i suoi musulmani, ma per meglio e più profittevolmente rapportarsi con l’islam nel suo complesso.
Certo, sono processi più visibili, oggi, a Londra, a Parigi o a Berlino, che non a Milano, a Roma o a Napoli, ma che per l’Italia potrebbero avere conseguenze ancora maggiori, essendo essa strutturalmente collocata, per destino geografico, al centro di queste dinamiche, precisamente al centro di uno dei poli, quello Mediterraneo o Euromediterraneo, in cui si stanno ridefinendo gli equilibri multipolari del globo. Un polo – un’economia mondo, se si vuole – intrecciato in una stretta rete di interscambio commerciale e finanziario, di risorse energetiche, di migrazioni e di rimesse, di flussi turistici, di interessi potenzialmente comuni sul piano politico e strategico.
È la fine dell’atlantismo classico, che abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra alla fine del secolo, e quindi anche di una certa immagine dell’occidente; ma anche l’inizio di una nuova storia, che sarebbe meglio osservare con attenzione e assecondare. Nel nostro interesse, innanzitutto.
Perché questo significa tra l’altro una cosa particolarmente rilevante anche, e soprattutto, dal punto di vista dell’Europa non musulmana: il fatto che, venendo messi in questione gli attuali equilibri centro/periferia all’interno dell’umma (comunità) islamica, e facendo della periferia europea un nuovo centro, attraverso un significativo slittamento progressivo delle frontiere culturali, l’Europa diviene, o meglio diventerà progressivamente, una posta in gioco sempre più importante della geopolitica musulmana. E il Mediterraneo sarà uno dei luoghi elettivi di questi processi.
4. Percezione e realtà
Non abbiamo la possibilità di accennare nemmeno minimamente ai dati non solo demografici o economici, relativi alla presenza islamica in Europa, che ci limitiamo qui a dare per acquisiti6.
Quello che possiamo dire, riassumendo con uno slogan certo troppo sintetico le principali ricerche finora svolte, è che ci troviamo di fronte ad un processo d’integrazione sostanziale, ma di percezione conflittuale.
L’integrazione sostanziale è quella che vediamo nel mondo del lavoro, della scuola, in molti quartieri: ambiti in cui i dati relativi ai musulmani non sono dissimili da quelli di altri immigrati, anche europei, nel bene (presenza nel mercato del lavoro, imprenditoria etnica e non, contributo al PIL, ma anche alcuni indicatori più squisitamente sociali e culturali, e anche politici, laddove gli immigrati partecipano alla politica attiva e passiva) come nel male (elementi di marginalità sociale, dropouts scolastici, difficoltà di alfabetizzazione e apprendimento della lingua del paese ospitante, numero di persone al di sotto della soglia di povertà, morbilità specifiche, mortalità infantile, reati commessi e presenza nelle carceri, ecc.).
Quest’assimilabilità dei comportamenti nelle comunità immigrate significa che la variabile religiosa (e tanto meno la variabile specificamente islamica) non è necessariamente la più rilevante nell’indirizzare questi indicatori, ma lo sono piuttosto altre variabili: provenienza da alcuni specifici paesi, da ambiente rurale o urbano, livello di istruzione, classe sociale di appartenenza, nonché certe specificità legate alla situazione del paese d’inserimento: maggiore o minore presenza di irregolari, dimensione del mercato del lavoro in nero e dell’illegalità diffusa, leggi che favoriscono l’integrazione o producono invece esse stesse situazioni di irregolarità, pratiche sociali che favoriscono o meno la presenza e l’inserimento delle famiglie e dei minori, ecc.
Persino riguardo ad alcuni elementi di problematicità culturale, legati ad una concezione patriarcale e padronale del rapporto genitori figli o dei rapporti di genere, ai matrimoni forzati, non si riscontrano specificità gravi dei musulmani in quanto tali, ma semmai specificità di tipo etnico, indipendentemente dalla religione di riferimento – tanto che, ad esempio, in Gran Bretagna la questione dei matrimoni forzati ed anche alcune problematiche di genere vengono analizzate come problemi della popolazione Asian, includendovi musulmani, hindu e sikh, e spesso prescindono del resto da riferimenti religiosi (si pensi ad alcuni aspetti della vita interna delle comunità cinesi).
Le sole specificità islamiche evidenziabili, certamente di grande rilievo, riguardano da un lato alcune serie problematiche di diritto familiare (più che la poligamia, i ripudi e i tentativi d’appropriazione ( a volte penalmente rilevanti: si pensi a certe forme di kidnapping) e di rinvio della prole al paese d’origine da parte del genitore musulmano, di solito il padre, favoriti dalla legislazione, in particolare, di alcuni paesi arabi) e dall’altro, naturalmente, il fenomeno del fondamentalismo e del terrorismo islamico.
Problema enormemente serio, che le esplosioni nella stazione di Atocha a Madrid dell’11 marzo 2004 (191 morti, oltre 1.000 feriti, il più grande massacro in Europa dopo la strage di Lockerbie del 1989) e quelle nel sistema di trasporto pubblico londinese del 7 luglio 2005 (56 morti, inclusi 4 terroristi suicidi, e 700 feriti), nonché l’assassinio ad Amsterdam del regista Theo van Gogh il 2 novembre 2004, hanno reso di un’attualità terribilmente bruciante, tanto più dopo il crollo delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Tuttavia non è lecito né sensato, né aiuta a comprendere i processi sociali in atto, far coincidere il fenomeno del terrorismo islamico transnazionale, pur presente e di cui è opportuno e necessario un controllo adeguato accompagnato da efficaci misure di prevenzione, con l’insieme della popolazione islamica in Europa (circa 15 milioni di persone, di cui probabilmente solo un terzo attiva in qualche modo i propri riferimenti religiosi, assimilabile quindi alla figura del praticante, e molti meno sono definibili attivisti).
La percezione conflittuale è quella che mostra il dibattito culturale (e sottoculturale) in una parte significativa dei media, del mondo politico, ma anche in parti importanti e certamente le ben visibili dell’establishment culturale e religioso europeo e italiano in particolare.
Si tratta di una percezione legata alla generalizzazione del caso eccezionale, ai conflitti sul velo e sui crocefissi, al fallacismo culturale e alle teorie del complotto sull’islamizzazione occulta dell’Europa, agli imprenditori politici della xenofobia e dell’islamofobia, alla polemiche intorno alla costruzione di moschee e sale di preghiera, alla storiografia “leggera” di rivisitazione dell’immaginario crociato (con ampie digressioni tra Poitiers e Lepanto), fino all’uso di un linguaggio colloquiale, a proposito dei musulmani e dell’islam, nel quale è facile ravvisare elementi di discriminazione che nel passato colpivano altre appartenenze religiose o culturali. Per rendersene conto sarebbe sufficiente sostituire la parola “musulmano” con la parola “ebreo” a molte frasi pronunciate quotidianamente da esponenti politici, giornalisti, intellettuali e talvolta persino esponenti religiosi: un esercizio che ci consentirebbe di percepire la serietà e la gravità di questi discorsi – che non costruiscono e non rappresentano necessariamente un comune sentire diffuso, ma sono purtuttavia la parte più spettacolarizzata e visibile del dibattito in materia.
Un linguaggio, delle azioni e degli attori sociali che trovano un contraltare anche più grave in alcuni leader e in certa pubblicistica religiosa islamica reazionaria, che descrive solo in negativo e spesso in termini morali e moralistici l’occidente (decadente, depravato…); nel vittimismo speculare al complottismo altrui; nell’antiebraismo carsico e diffuso, che oltrepassa i termini del conflitto israelopalestinese; nella chiusura bigotta di taluni imam e leader religiosi; nella complicità culturale rispetto al maschilismo e al patriarcalismo duri di alcuni padri di famiglia o pseudorappresentanti di comunità, che porta a una non sufficientemente esplicita condanna delle violenze perpetrate nel chiuso degli universi familiari e comunitari; nei messaggi obliqui di sostegno a cause di liberazione pur legittime, ma che si sostengono con mezzi non giustificabili e troppo poco esplicitamente condannati (pensiamo in particolare al terrorismo suicida in Palestina, Iraq e altrove); nella eccessiva facilità con cui in alcune realtà si lascia circolare un linguaggio e un immaginario bellico rispetto a certi aspetti del modello occidentale o a certe sue concrete e pur discutibili politiche; nella sufficienza con cui ci si scrollano di dosso le critiche relative ai rapporti di genere o alla legittimazione della violenza, troppo semplicisticamente derubricate ad islamofobia preconcetta. Ed altro ancora.
Da un lato quindi abbiamo quella che potremmo chiamare la normale realtà dell’immigrazione, nei suoi successi come nelle sue difficoltà (non diversa come abbiamo visto per musulmani e non musulmani); dall’altro l’eccezionalità della sua percezione, che non si ritrova in forme e modalità analoghe a proposito di altre immigrazioni, pure non meno “altre” rispetto alla storia europea.
È evidente che l’eccezionalità dell’interpretazione è sostenuta dai recenti attentati jihadisti che hanno colpito materialmente e psicologicamente l’occidente, ma è altrettanto vero che questo non spiega tutto.
L’interpretazione conflittuale della presenza islamica in Europa precede, infatti, l’11 settembre 2001 e gli altri eventi delittuosi citati, anche se da questo e dagli altri è stata evidentemente enormemente potenziata. È dunque un prodotto autoctono europeo (e americano) più di quanto siamo abituati a pensare, che deve certo qualcosa, ma certamente non tutto, al concreto agire dei musulmani, e in particolare dei musulmani in Europa
Per distaccarci da questa lettura di fatto conflittuale della presenza islamica in Europa, quella certamente più diffusa e mediatizzata, è quindi il caso di approfondire alcune dinamiche ed alcuni esempi di feedback che è possibile fin d’ora osservare ed analizzare, che contrastano questa lettura, ma soprattutto danno una centralità diversa all’islam europeo: non più solo tributario di opinioni e dinamiche costruite altrove, soggetto quindi ad influenze “estere” dei paesi d’origine, ma soggetto a sua volta attivo, produttore e non solo recettore di sviluppi di un certo interesse che potrebbero influenzare lo stesso islam d’origine.
5. Qualche esempio di interrelazione: i feedback e le loro conseguenze
In Europa, dove ci si sente più tutelati anche in quanto musulmani e dove vengono accolti molti leader politico-religiosi, ha luogo oggi una rielaborazione della shari’a da parte di intellettuali islamici, che implementa il pluralismo e la competizione tra le religioni e plasma le idee di molti musulmani europei, talvolta chiamati moderati, e che sono semplicemente coloro che rendono compatibile il riferimento all’islam con i principi fondamentali della democrazia occidentale7.
Questi ultimi (e tra loro importanti dirigenti economici e politici anche donne), rientrando al loro paese d’origine importano nuove idee all’interno dei loro tradizionali contesti sociali, influenzandone di conseguenza gli sviluppi politici e socio-culturali, spesso finanziando le organizzazioni promotrici di tali cambiamenti.
Infine, le modalità di partecipazione politica europea, come quella associativa (le reti waqf al-islam, o “proprietà dell’islam”) e quella sindacale, le richieste legate al ciclo produttivo ma originate da motivazioni religiose, o i community relations councils (organi consultivi), diventano sempre più spesso la base di partenza di impegni politici successivi a livello più elevato, rappresentando talvolta una fase di transizione alla vita politica nel proprio paese d’origine.
Questi feedback, messi in moto dall’unione della prassi islamica con la cultura europea, sono d’altra parte difficili da quantificare, a causa delle loro dinamiche tutt’altro che univoche, e dallo stato della ricerca in questo campo ancora in fase iniziale. È importante tuttavia sottolinearne l’importanza e la crescita, ai fini del nostro discorso. Verranno dunque indicate in seguito le forme che questi feedback stanno oggi cominciando a prendere.
5.1 Feedbacks socio-culturali
Sul piano culturale, innanzitutto. L’incontro tra pensiero islamico e libertà europee conduce ad un’elaborazione delle tradizioni d’origine sul territorio europeo che arricchisce il nostro capitale sociale e la nostra capacità di analizzare e comprendere la realtà. Non solamente la nostra realtà di ogni giorno, ma soprattutto quelle realtà che, sebbene i processi di globalizzazione abbiano condensato attorno a noi, continuano ad essere a noi estranee. Il plasmare e tradurre valori culturali e religiosi islamici crea così un ponte geopolitico tra visioni del mondo che coesistono all’interno degli scenari internazionali incontrandosi con difficoltà, scontrandosi con evidenza e comprendendosi con molta fatica.
L’avvicinarsi della civiltà europea e di quella islamica, ci si presenta con un insieme di opportunità impreviste, riflesse proprio nelle diversità degli attori: opportunità che minano, in molti modi, l’immaginario legato al clash of civilizations.
Infatti le minoranze musulmane presenti in Gran Bretagna, Spagna, Germania e Francia, e in tutta Europa, sembrano essere molto meno propense delle loro controparti al di là del Mediterraneo e del pubblico generale europeo a credere inevitabile il tanto temuto clash. E questo ad esempio uno dei risultati presentati da una recente ricerca del Pew Global Attitudes Project. Condotta a marzo 2006 in 13 paesi, la ricerca ha analizzato le visioni reciproche di musulmani e occidentali. Le sue conclusioni sottolineano come le opinioni dei musulmani europei si trovino più o meno a metà strada tra le percezioni degli europei sui musulmani nel resto mondo e quelle di questi ultimi sugli europei8.
I prossimi paragrafi analizzeranno dunque le opportunità nascoste dietro tali sviluppi quando essi vengono percepiti come un accrescimento strategico del capitale sociale europeo, e non come una minaccia interna.
Innanzitutto va sottolineato che il peso intellettuale dei musulmani in Europa è potenzialmente molto consistente. Londra, ad esempio, assieme a Parigi, è oggi uno dei principali centri intellettuali, culturali e mediatici del mondo arabo (come lo sono Berlino, Colonia e Francoforte rispetto alla Turchia). Basti pensare che nel 2004 sono stati pubblicati più libri in arabo in Gran Bretagna e Francia che nell’intero mondo musulmano9. Esiste una fertile produzione teologica islamica sul territorio europeo. Si pensi all’elaborazione proveniente dalle prime e seconde generazioni di intellettuali islamici, la cui personalità più conosciuta tra i non musulmani, ma lungi dall’essere la sola, è quella di Tariq Ramadan. E si pensi anche al tentativo di costruire un nuovo corpus d’interpretazione della legge islamica intrapreso dall’European Council for Fatwa and Research.
Diverse sono le iniziative che promuovono lo sviluppo di un islam aperto e moderno: progetti che l’Europa sta iniziando a sostenere. Vi è infatti una crescente consapevolezza, sia a livello europeo che a livello nazionale, di dovere appoggiare lo sviluppo di una nuova leadership musulmana nata e formata in Europa, visto che, ad oggi, ancora molti leader sociali arrivano da paesi terzi in età adulta, e derivano l’impostazione delle loro idee dalle loro società d’origine.
Collaborazioni tra università e comunità islamiche sono sempre più frequenti. Due esempi recenti sono la cattedra offerta in Teologia Islamica dall’Università di Münster, Germania, nel 2004, rivolta alla formazione degli imam; e il corso di lezioni in “Scienze religiose: Islam”, offerto all’Università Cattolica di Louvain a partire dal marzo 2007. E altri tentativi sono rinvenibili in altri paesi europei.
Infine ci sono anche iniziative private musulmane che in collaborazione con istituzioni pubbliche, come per esempio l’Islamic College for Advanced Studies (ICAS), riconosciuto dall’Università di Middlesex, Londra, e il Muslim College associato al Birbeck College, si aggiungono alle iniziative private islamiche autonome, a cominciare, sempre in Gran Bretagna, dall’Islamic Foundation di Leicester, ed altri luoghi di formazione specialistica in scienze islamiche in Francia, Olanda e altrove.
I frutti dell’elaborazione sulle questioni religiose nei centri europei dell’islam non rimangono confinati all’interno dell’Europa. La produzione di conoscenza e idee da parte di musulmani integrati all’interno di una sfera pubblica più libera della loro tradizionale ha ripercussioni anche nelle società d’origine grazie al consolidamento di spazi transnazionali avvenuto a seguito delle migrazioni, dello sviluppo delle comunicazioni, di internet e dei viaggi low-cost.
Nell’era della globalizzazione sono tanti i canali che permettono alle nuove idee di rientrare nelle società tradizionali islamiche e di iniziare a trasformarle dal basso. Tra i più evidenti c’è ovviamente internet. Nel cyberspazio i musulmani moderati hanno costruito un’arena di condivisione transnazionale. Molte organizzazioni utilizzano i siti web per propagare le proprie elaborazioni religiose: partendo anche dall’Europa (e dagli Stati Uniti) in direzione dei paesi musulmani.
L’influenza d’internet e della televisione satellitare è stata evidenziata da una ricerca sponsorizzata dalla rivista Prologue e dalla Fondazione King Abdelaziz per gli Studi Islamici e le scienze umane pubblicata a febbraio 2007. La ricerca mostra come in Marocco sempre di più la religione venga vissuta individualmente nella sfera privata dell’individuo e tra le fonti principali di conoscenza religiosa vi sia un ruolo sempre maggiore per i canali satellitari e soprattutto internet, mentre il ruolo delle istituzioni tradizionali come famiglia, scuola e moschea sembra non essere più quello di prima.
Un canale importante di collegamento tra Europa e paesi musulmani sono i knowledge networks che permettono il trasferimento di capitale intellettuale dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo. Almeno 41 knowledge networks sono stati rilevati nel mondo che collegano tra loro 30 paesi diversi e sono stati di provata rilevanza per lo sviluppo economico di molte industrie, il cui esempio più noto è l’industria del software in India, ma si manifestano in molti ambiti e in molti paesi (dalla Somalia all’Afghanistan, dall’Iran alla Turchia a molti paesi arabi), anche se spesso in forma meno visibile e strutturata.
Un ultimo canale di trasmissione culturale da sottolineare sono le iniziative finanziate dalla Commissione Europea come il programma Eumedis (Europe Mediterranean Information Society) e, al suo interno, il progetto Eumedconnect. Eumedis (65 milioni di Euro per il periodo 2000-2006), è il più grande programma mai intrapreso dalla Commissione Europea per lo sviluppo di una società informatica globale.
Eumedconnect, uno dei suoi progetti, ha creato il primo network nella regione del Mediterraneo e ha messo in relazione tra loro centri di formazione e ricerca europei con quelli dell’Algeria, dell’Egitto, della Giordania, del Marocco, della Palestina, della Siria e della Tunisia. I settori coinvolti sono: la salute, l’e-commerce, il turismo, i beni culturali, la ricerca applicata all’industria, l’educazione e lo sviluppo delle imprese. Progetti come questi comprendono la costruzione pianificata di reti regionali e costruiscono una comunità regionale di professionisti, studenti ed accademici, provenienti da diversi paesi ed istituzioni. I musulmani europei dovrebbero essere coinvolti negli sviluppi futuri di questi progetti, per sfruttare la loro strategica posizione culturale e religiosa, a metà tra un mondo e l’altro.
Altre opportunità di condivisione di idee e pratiche tra i musulmani residenti in Europa e quelli rimasti all’interno delle società tradizionali sono infine offerte oggi dal basso costo dei trasporti internazionali, come dimostrato da uno studio recente sui musulmani in Europa. Il 42% degl’intervistati dichiara infatti di tornare al paese d’origine a visitare la propria famiglia almeno una volta all’anno. In un altro studio, il 50% dei turchi residenti in Europa dichiara inoltre di tornare in patria anche per visitare località turistiche10.
5.2 Feedbacks economici
All’interno dello spazio transnazionale musulmano i legami interpersonali si mantengono dunque ancora molto forti. Tra questi legami i più evidenti sono rappresentati soprattutto dalle rimesse, che continuano ad influenzare la società del paese d’origine. I paesi musulmani sono tra i maggiori recipienti di rimesse nel mondo. Il Libano riceve 5 miliardi di dollari, pari al 26% del PIL; la Giordania 2,3 miliardi di dollari, 20% del PIL; lo Yemen 1,3 miliardi di dollari, 10% del PIL; il Marocco 4,2 miliardi di dollari, 9% del PIL; il Pakistan 3,9 miliardi di dollari, 4% del PIL; ed infine l’Egitto 3,3 miliardi di dollari, 4% del PIL11.
La maggior parte di queste rimesse rientra in patria attraverso networks sociali e familiari e ha un importante effetto volano per le economie locali, lo sviluppo di infrastrutture e lo sviluppo delle società tradizionali. Un esempio spesso citato è quello della regione del Rif in Marocco, dove investimenti in imprese medie e piccole, soprattutto nel settore delle costruzioni, hanno completamente trasformato il paesaggio. Negli ultimi anni in Marocco le rimesse dei migranti sono state investite nello sfruttamento di terreni agricoli attraverso tecnologie moderne, nell’espansione del settore turistico, e in piccole e medie imprese nel settore alimentare e di materiali da costruzione. I migranti hanno avuto anche un ruolo importante nello sviluppo della Borsa a Casablanca ed hanno investito infine anche nel settore dei trasporti pubblici.
Nel caso dei feedack economici, si osservano anche interessanti dinamiche che vedono beneficiare la stessa Europa da una crescente integrazione del mondo della finanza con le tradizioni islamiche. I tassi di crescita del risparmio islamico (78% l’aumento dei bond atteso per la fine del 2007, 20% quello dei depositi, 25% quello degli equity fund) hanno condotto molte istituzioni a muoversi per intercettare la liquidità dei petroldollari (che dovrebbe raggiungere 20mila miliardi di dollari in vent’anni). E oggi la Gran Bretagna, con ben tre banche islamiche, è ormai accreditata come il quarto hub mondiale del credito islamico, dopo Emirati Arabi, Bahrein e Malaysia.
Infine è da sottolineare inoltre che l’acquizione recente dell’Aston Martin è stata finanziata da due fondi islamici del Kuwait e che il Land tedesco della Sassonia-Anhalt, ha emesso un bond islamico da 100 milioni di dollari.12
5.3 Feedback politici
La nascita di una leadership musulmana europea produce inevitabili risvolti anche all’interno delle sfere politiche dei paesi al di là del Mediterraneo. Essa rappresenta la creazione di una forza politica strategica in grado da un lato di sfruttare la crescente dimensione religiosa delle relazioni internazionali, e dall’altro di influenzare dall’esterno lo sviluppo democratico di molti stati a rischio di diventare avamposti del fondamentalismo islamico.
Va tenuta presente inoltre la presenza in Europa di un numero significativo e influente di rifugiati politici musulmani, ovvero di persone che hanno trovato in Europa asilo politico e la possibilità di svolgere una attività politica religiosamente motivata e orientata, che nel paese d’origine non avevano potuto svolgere, subendo repressione e minacce13. Tali persone, a torto considerate di default come nemici dell’occidente da letture giornalistiche e da un dibattito politico superficiali, sono attori sociali che svolgono un ruolo decisivo di orientamento sia delle popolazioni musulmane in Europa che di quelle rimaste nei paesi d’origine, alle quali si rivolgono direttamente, essendo queste il loro orizzonte di riferimento potenziale, se l’obiettivo è un ritorno nel paese d’origine14.
La partecipazione al processo politico in Europa offre infatti a molti musulmani l’opportunità di una esperienza di formazione che può essere ricondotta al paese d’origine generando così impulsi positivi di sviluppo. La diaspora musulmana presente in Olanda può rappresentare un esempio di questa opportunità. Durante le elezioni locali del 7 marzo 2006, molti musulmani sono stati eletti nei consigli comunali e regionali con mandati di quattro anni. Alcuni di loro avevano già servito altri mandati quadriennali, acquisendo così una considerevole esperienza dei meccanismi della politica e della democrazia europea e la capacità di importare nei loro paesi di provenienza nuove idee e pratiche.
Come membri di partiti politici olandesi, questi politici si trovano in una posizione strategica che permette loro di costruire networks utili ai loro partiti politici originari, promuovendo potenzialmente in tal modo anche la trasparenza nei sistemi di governo nei paesi d’origine. Esempi di leadership sociali e politiche islamiche formatesi sul suolo europeo e ora attive nel paese d’origine si sono avute in maniera molto visibile nel caso dei turchi in Germania, ma anche in maniera meno evidente tra i maghrebini in Francia, così come tra senegalesi, somali e altri ancora.
Inoltre, ricollegandosi così anche all’importanza di internet, vanno menzionati i forum politici on line, strumenti di importanza significativa per la disseminazione di valori politici liberali e democratici, capaci di collegare le diverse forze politiche sia nei paesi d’origine che nella diaspora, e organizzare discussioni aperte e gruppi d’azione. I forum on line sono esempi tangibili di come i musulmani in Europa possano offrire un appoggio morale e pratico alle forze rimaste nei paesi d’origine a restaurare ordine e stabilità politica e sociale
Infine tra i futuri ruoli dei leader musulmani in Europa, ci sarà anche quello d’interagire con le loro controparti democratiche soprattutto nei paesi del Mediterraneo Meridionale. Le interazioni tra l’Europa e i musulmani democratici della regione mediterranea sono ancora infatti abbastanza deboli. Se il clash of civilizations dev’essere e può essere evitato, l’Europa deve trovare tutti i modi di aprire canali di comunicazione con i governi nel Mediterraneo e soprattutto con i musulmani democratici.
Tuttavia va specificato che non deve trattarsi della scelta di un interlocutore a proprio uso e consumo, docile e disponibile: i musulmani democratici non sono musulmani laicizzati che la pensano come noi, come spesso si tende a credere e conseguentemente si agisce, ma attori sociali e politici d’ispirazione islamica che perseguono i loro fini in base ai principi e ai valori della democrazia.
Sebbene questa strategia possa screziare le relazioni con diversi governi in carica nei paesi musulmani, l’Unione Europea deve iniziare un dialogo diretto con gli elementi democratici dei paesi musulmani, da un lato per riconoscerli come legittime forze politiche all’interno degli scenari internazionali, e dall’altro per ritrovare in loro un naturale alleato per avversare gli scontri culturalreligiosi che altre fazioni, in entrambe le regioni, sembrano tanto desiderare.
Intraprendendo un dialogo con loro, l’Unione Europea deve essere consapevole che i musulmani democratici nei paesi del Mediterraneo non si vedono come rappresentanti di specifici interessi economici, ma piuttosto sono orientati verso le questioni morali della loro società, orientamento che prende la forma di un vivo interesse nel campo dell’educazione, della cultura e dei media.
Per esempio tra il 2000 e il 2005 nel parlamento egiziano, i diciassette deputati dei Fratelli Musulmani hanno impegnato l’80% dei loro interventi a risolvere tali questioni, lasciando alle problematiche di politica economica, estera e alle questioni di sicurezza solamente il 20% del loro tempo.
Inoltre, pur non esprimendo profonde riserve sull’Europa, e restando sempre cauti per ciò che riguarda le interferenze europee su questioni socioculturali e religiose, essi hanno dimostrato di sapere ben poco delle politiche mediterranee dell’Europa: la Partnership Euromediterranea e le politiche europee di buon vicinato. La loro attenzione è stata catturata da altro. La guerra in Libano del 2006, la guerra civile in Iraq, il conflitto tra israeliani e palestinesi, e la questione iraniana hanno lasciato pressoché nell’ombra le politiche europee, che di conseguenza hanno avuto un impatto minimo sul territorio.
I musulmani democratici hanno dunque poche possibilità non solo di conoscere e valutare tali politiche, ma ancora meno di partecipare alla loro formulazione. Piuttosto che su basi empiriche, la loro opinione dell’Europa si fonda su percezioni generali facilmente manipolabili dai media. I leader musulmani europei, grazie alla loro naturale familiarità con il linguaggio politico islamico, possono riequilibrare questa asimmetria d’informazione che altrimenti renderebbe vano tale uso strategico del soft power.
In questa direzione si sono già percorsi alcuni passi, non sempre esenti da controversie, come per esempio l’affidamento di ruoli diplomatici a propri cittadini di religione islamica da parte di paesi come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, così come l’inclusione sistematica di rappresentanti di rilievo delle popolazioni musulmane europee, come imprenditori e dirigenti associativi ma anche membri di partiti politici, nelle delegazioni commerciali ed economiche in paesi musulmani.
6. Conclusioni
È importante oggi, a fronte della propaganda diffusa e potente dei predicatori del clash di ambo le parti, sottolineare la molteplicità delle interrelazioni che la presenza islamica in Europa crea, produce e potenzia.
Gli effetti di feedback che abbiamo cercato di evidenziare, in particolare, hanno tra l’altro un importante effetto collaterale, che nasce come secondario ma si avvia a diventare di primaria importanza, anche e soprattutto dal punto di vista dell’Europa non musulmana: il fatto che, venendo messi in questione gli attuali equilibri centro/periferia all’interno della umma islamica, e facendo della periferia europea un nuovo centro, attraverso un significativo slittamento progressivo delle frontiere culturali, l’Europa diventerà progressivamente una posta in gioco sempre più importante della geopolitica musulmana.
Nello stesso tempo la presenza di popolazioni islamiche in Europa, intrecciando nuovi legami tra i paesi in cui vivono (che rappresentano il loro orizzonte di insediamento) e i loro paesi d’origine (che come abbiamo visto non rappresentano solamente il loro passato, ma anche un orizzonte di significato con una valenza attuale), può avere effetti benefici di lungo periodo anche per i vari paesi europei e per l’entità Europa in quanto tale, che cominciano del resto a far vedere i loro effetti negli ambiti più diversi: nelle relazioni commerciali, economiche e finanziarie, ovviamente, ma anche in ambiti di interesse strategico come gli approvvigionamenti di energia, la cooperazione nel controllo delle migrazioni e la stessa difesa dal terrorismo islamico transnazionale.
Più in generale, questa nuova situazione, se pensata, accompagnata e guidata, può avere effetti di rilievo anche nello stabilire un sistema di relazioni internazionali più efficace e giusto, dare un contributo originale allo sviluppo stesso del dialogo interreligioso, e in definitiva contribuire al processo di costruzione della pace almeno in quest’area del mondo.
D’ora in poi quindi non sarà più possibile, e non sarebbe del resto nell’interesse europeo, parlare di occidente e di Europa dimenticando la presenza e l’apporto dell’islam. L’immagine descritta sarebbe inesatta, imprecisa, incompleta. L’Europa ha ormai già al suo interno una significativa presenza islamica, che ne costituisce la principale minoranza religiosa non cristiana. La storia d’Europa sarà dunque, almeno in parte, anche storia islamica. E la storia dell’islam, anche storia europea.
Stefano Allievi
in OSSERVATORIO SCENARI STRATEGICI E DI SICUREZZA, Nomos & Khaos. Rapporto Nomisma 2007 sulle prospettive economico-strategiche. (pp. 127-147). ISBN: 97888611400955. ROMA: Agra. (con E. Gnudi)

1 – Su questo tema, qualche riflessione introduttiva in S. Allievi, Le trappole dell’immaginario: islam e occidente, Udine, Forum, 2007.

2 – Dal terrorismo islamico transnazionale al conflitto israelo-palestinese presentato oggi in questa chiave, dai conflitti interreligiosi nel sub-continente indiano alla persecuzione delle minoranze religiose in alcuni paesi islamici, dall’esplosione-implosione dell’ex-Jugoslavia e dei Balcani a certe letture occidentali del conflitto odierno con l’Iraq, e prima ancora con l’Afghanistan, fino alla percezione dei rapporti con le comunità immigrate in Europa. Anche se, da parte di chi propone questa chiave interpretativa, sarebbe opportuno esplicitare meglio il termine a quo: da quando, cioè, i conflitti religiosi sarebbero in aumento, e di quanto. E quanto essi siano frutto, invece, di una precisa e voluta selezione dei fatti, che tende a dimenticare: a) conflitti religiosi anche recenti ma precedenti all’emergere di questa tesi interpretativa (persino sul suolo europeo: si pensi a quello tra cattolici e protestanti in Irlanda, che peraltro si intrecciava, come ancora oggi altrove avviene, con questioni politiche, etniche, economiche, di potere); b) la continuità e la persistenza dei conflitti non su base religiosa (si pensi alla carneficina ruandese, a tante altre guerre tribali e post-coloniali, così come alle aggressioni imperialiste ‘classiche’ o a molti conflitti regionali); c) il fatto che spesso i conflitti, inclusi quelli più sanguinosi della storia, avvengano all’interno delle civiltà (dalle due guerre mondiali ai conflitti tra sunniti e sciiti) e spesso per motivazioni nazionalistiche, ideologiche e/o economiche.

3 – A rispettarli perché ci si adatta, perché a partire dalle seconde generazioni e talvolta anche prima è semplicemente ovvio e normale, essendo i diritti di riferimento nel contesto in cui si vive; e ad usarli perché conviene. Non è per caso che le donne provenienti da paesi musulmani, magari appena arrivate e provenienti da strati sociali relativamente poco acculturati, si sposano magari islamicamente, sotto la spinta della famiglia e della comunità, ma poi, se si tratta di divorziare, vanno più volentieri dal giudice, per far tutelare i diritti loro e della prole, che non dall’imam. E’, anche questo, un modo fondamentale di appropriarsi dei principi di una società. Spesso, anche per gli autoctoni.

4 – Su questo tema, si veda S. Allievi e J. Nielsen (a cura di), Muslim Networks and Transnational Communities in and across Europe, Leiden, Brill, 2003.

5 –  Su questi temi fondamentali si vedano, tra gli altri, J. Nielsen, Muslims in Western Europe, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1992, F. Dassetto, La construction de l’islam européen. Approche socio-anthropologique, Paris, L’Harmattan, 1996, S. Allievi, Musulmani d’occidente. Tendenze dell’islam europeo, Roma, Carocci, 2002, O. Roy, Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Milano, Feltrinelli, 2003, J. Cesari, When Islam and Democracy Meet: Muslims in Europe and in the United States, Palgrave, Macmillan, 2004, F. Dassetto, L’incontro complesso. Mondi occidentali e mondi islamici, Troina (EN), Città Aperta, 2004, J. Cesari, L’islam à l’epreuve de l’Occident, Paris, La Découverte, 2004, e molti studi che analizzano la situazione di singoli paesi europei.

6 – Rinviamo per questo alla non cospicua letteratura di analisi e di ricerca empirica (diverso è il caso per la letteratura di dibattito di idee e polemica, al contrario molto diffusa) reperibile, con pochi esempi tuttavia in lingua italiana. La più ampia ricerca finora uscita sulla presenza islamica in Europa, commissionata dall’Unione Europea, che ha visto coinvolto un ampio pool di specialisti di tutti i paesi dell’Unione, inclusi quelli che vi sarebbero entrati solo successivamente, è quella contenuta in B. Maréchal, S. Allievi, F. Dassetto, J. Nielsen (a cura di), Muslims in the Enlarged Europe. Religion and Society, Leiden, Brill, 2003 (vincitore, tra l’altro, del riconoscimento di “Outstanding Academic Title – The Best of the Best in Published Scholarship” dell’American Library Association). Su di essa si basa ampiamente anche l’importante e recentissimo (maggio 2007) rapporto al Parlamento Europeo intitolato Islam in the European Union: What’s at stake in the Future?, accessibile su http://www.europarl.europa.eu/activities/expert/e.Studies.do?language=EN.

7 – Non useremo qui l’espressione musulmano moderato, che nel linguaggio politico italiano ha assunto spesso una connotazione ambigua, circoscritta ai musulmani che “la pensano come noi”: che, possibilmente, attivano in maniera discreta se non invisibile, comunque individuale e non comunitaria, il riferimento alla religione, meglio se in maniera laicizzata, culturale e non esplicitamente religiosa, e possibilmente critica con le altre componenti musulmane che non rinunciano ad un riferimento esplicito a principi islamici magari discutibili ma diffusi (dal considerare un obbligo il velo all’attivismo nella costruzione di moschee, passando per la solidarietà con la causa palestinese e la critica alla politica estera occidentale in Medio Oriente), e tacciate per questo di rappresentare un islam radicale. Tale espressione, così intesa, impedisce di cogliere la complessità della presenza islamica nel nostro paese, che comprende entrambe le posizioni citate e quelle intermedie alle due, nessuna delle quali è considerabile illegittima né di per sé radicale (rappresentano semplicemente il pluralismo interno a tutte le confessioni religiose, fatto di posizioni rigorose e di prassi spesso tiepide), almeno fintanto che non viene espressa in maniera radicale e polemica. E, in questo senso, sono spesso radicali anche talune posizioni etichettate come moderate…

8 – The Great Divide: How Westerners and Muslims view each other , Pew Global Attitude Project, June 2006. I paesi della ricerca: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Turchia, Russia, Giordania, Egitto, Nigeria, Pakistan, India, Indonesia.

9 – “Islam in Europe, Poltical & Security issues for Europe; implications for the United States” workshop, CAN Corporation’s Center for Strategic Studies, January 14, 2005.

10 –  Euro-Turks: a bridge or a breach between Europe and Turkey, CEPS, Brussels, 24/1/2005

11 – Global Economic Prospects: Economic Implications of Remittances and Migration”, The World Bank, Washington D.C, 2006

12 – E’ boom di bond e fondi islamici”, M. Cappellini, Il Sole 24 Ore, 04/12/2007

13 – Spesso provenendo da paesi solo cosmeticamente democratici, in cui esistono elezioni ma non una libera attività politica, negata in particolare precisamente ai partiti islamisti, critici nei confronti di questi regimi.

14 – Un aspetto, questo, che a una diplomazia europea accorta dovrebbe stare a cuore. Non è raro che gli esuli di oggi possano essere i governanti di domani, specie nel caso di regimi autoritari (anche se magari sostenuti dall’occidente), che si reggono sulla forza, e per questo nel lungo periodo traballanti, soggetti a rivolgimenti e trasformazioni.

Vino e divino A SR

A SR
Vino e divino
SCANNERIZZARE solo COPERTINA, INDICE. L’HO IO
Vino e divino
Stefano Allievi
Chi venne prima,
la sete o la bevuta?
Rabelais
Laddove veniva originariamente prodotto (diciamo nell’area mediterranea largamente intesa) il vino assume sempre funzioni religiose. E’ probabile che già la fertili pianure di Sumer, all’origine della civiltà babilonese, conoscessero la vite ed il vino. Prova ne sia che il segno sumerico che indica la vita era in origine una foglia di vite. Il vino è presente nell’epopea di Gilgamesh come nella religione sacerdotale egizia. Nell’antica Roma due feste segnate già nel calendario arcaico col nome di Vinalia celebravano l’una, in aprile, l’inizio della consumazione del vino nuovo, e l’altra, in agosto, l’inizio della vendemmia. In Grecia poi ha un’importanza tutta speciale nei culti dionisiaci. E Bacco ne è figura proverbiale.
In ambiente pagano poi l’invenzione della viticoltura è attribuita ad una divinità: in Grecia a Dioniso, appunto, in Egitto a Osiris. Il sacro autore del Genesi invece l’attribuisce ad un uomo. Non è tutto: come attesta il cap. 9, in due soli versetti (il 20 e il 21) Noè beve il vino e si ubriaca. Dunque Noè è anche l’ubriacone primordiale, paradigmatico, universale e atemporale. Non bisogna inoltre dimenticare il momento in cui ciò avviene: subito dopo il diluvio. In maniera irriverente e maliziosa, per qualcuno questa è già una spiegazione: “diamine, si capisce, dopo tanta acqua non gli faceva male un po’ di vino!”. Secondo Mario Brelich, scrittore italo-ungherese che in una sorta di ‘teologia investigativa’ ha cercato di ricostruire tutto ciò che la Bibbia non dice a proposito della sconcertante ubriacatura di Noè, occorre considerare “che egli era l’uomo stesso in una fase del suo cammino: da ciò consegue logicamente e senza inciampi che, in un determinato momento dell’evoluzione, la scoperta del vino e la possibilità di ubriacarsi divennero un’esigenza irrevocabile dello spirito umano”. Ciò significa che era necessario che il vino fosse scoperto, ed era indispensabile che a questa esaltante scoperta seguisse imprescindibilmente la solenne ubriacatura del patriarca. In un altro passo Brelich ricorda che nulla è avvenuto per caso: “Noè veramente trovò la vite con una sicurezza infallibile, come la bestia malata trovò la benefica erba medicinale”. Vale forse la pena di aggiungere che da sempre l’ubriachezza di Noè è servita solo a giustificare la maledizione di Cam e di Canaan sua stirpe, come punizione della mancanza di rispetto del figlio nei confronti del padre ubriaco e vergognosamente scoperto. E’ poco, certamente non spiega abbastanza; ma ci dice almeno questo: che bisogna aver rispetto degli ubriachi, che non bisogna disprezzarli, perché forse sono, in maniera del tutto particolare, a diretto contatto con Dio.
Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, il vino ha come noto un’importanza straordinaria. Anche una banale notazione quantitativa può chiarire l’importanza dell’argomento: sono circa 250 i passi, che ho trovato, in cui la Bibbia parla per un verso o per l’altro di vino, vite, vigna. E certamente altri mi sono sfuggiti. Dunque l’argomento è, a tutti gli effetti, ‘biblico’. Anche se in questa sede non approfondirò la questione nei suoi fondamenti ebraico-cristiani, che ho trattato altrove. Mi limiterò a constatare, con appena un filo di ironia, che fior di cardinali rinascimentali hanno proposto, sostenuto e, potremmo dire, incarnato, giustificazioni de facto della civiltà del bere. Ed altri, contemporanei, avrebbe forse fatto bene a farlo.
Ma che cosa rappresenta veramente il vino, per le religioni? Un problema, fin dall’orgine – e un problema comprenderlo fino in fondo. Fa riflettere che la Mishnà ebraica affermi senza esitazione che l’albero della scienza del Bene e del Male di cui parla il Genesi sia una vite (Sinedrio, 70). Ci dice qualcosa sull’ambivalenza che esso assume nelle principali religioni: dalla condanna all’approvazione e all’invito, dall’estasi sublime alla tentazione diabolica. Ambivalenza di cui la Bibbia, come il Corano, ma anche i Veda a proposito del soma, e altre scritture, sono portatori e testimoni.
Qui ci limiteremo a qualche notazione più letteraria, sul vino e l’ubriachezza, di cui abbiamo già visto il prototipo noachico.
Viviamo in una civiltà materiale ma ancora alla ricerca di Dio. Molti di noi umani, cercatori onesti del vero ma ancora ignari, sostituiscono Dio con il suo attributo di-vino: una sorta di comunione primitiva (il vino è fatto di acini d’uva, molti, che vanno a creare il miracolo di un unicum) che attesta il nostro desiderio/nostalgia della divinità (tutto attaccato…).
Questo dio primitivo attraverso il quale alcuni debbono forse necessariamente passare è il “dio delle bettole” di cui parla Hermann Hesse. Il dio universale di tutte le religioni: il dio naturale, non ancora incarnato.
Il Dio incarnato, Cristo, sa e riconosce tutto questo, e nel giorno della sua prima manifestazione, in occasione del suo primo miracolo, alle nozze di Cana, trasforma l’acqua in vino, benedicendolo e dando così ai convitati un supplemento di gioia. Supplemento propedeutico: un invito a seguirlo verso una gioia ulteriore, verso un vino “più buono”. E’ chiarissimo in questo senso il racconto di Giovanni (2,9-11): “E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva da dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua) chiamò lo sposo e gli disse: ‘Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono’. Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.”
Lo stesso vino, nell’istituzione dell’Eucaristia, diventa “sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28), e prelude al banchetto escatologico di cui ci hanno parlato i Profeti e a cui siamo tutti chiamati: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo con voi nel Regno del Padre mio” (Mt 26,29). Lo berremo nuovo, con lui.
Forse tutto ciò può farci riflettere sull’errore, che commettiamo spesso, di colpevolizzare il vino, e con esso gli ubriachi. L’incomprensione bigotta della diversità e della profondità umana, la cecità becera di fronte ad una manifestazione ‘non ortodossa’ del divino (almeno del divino ‘naturale’ di cui si è parlato), ci impedisce di vedere nell’ubriaco il “santo bevitore” di cui parla Joseph Roth. Eppure anche laddove il santo bevitore viene ricondotto puramente e semplicemente all’ubriaco peccatore, la Scrittura dovrebbe metterci sull’avviso: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 9,13).
Ce lo testimonia benissimo la storia di Aimé Duval, un gesuita, cantautore piuttosto noto ai tempi di Brassens, che aveva cominciato la sua esperienza sacerdotale come “missionario nei bar”, poi alcolizzato (e poi anche disintossicato), che racconta nella sua autobiografia come “quando si trattava di percepire la malattia del tempo (durezza, stupidaggine, orgoglio), di percepire la dolcezza del mondo futuro in cui ci ameremo, quando si trattava soprattutto di gridare che questo stacco mi fa male, l’alcol mi ha aiutato. Lo riconosco e non rimpiango niente”. Di fronte ai moralisti difende i suoi ubriachi: “Ma voi altri, pieni di sdegno, consiglieri sputasentenze e sicuri della vostra coscienza a posto, vi prego di tacere davanti a un alcolizzato. Appartenete a un mondo spirituale che non è il nostro. Avete le mani troppo grossolane e lo spirito troppo poco affinato”. E ancora: “Contrariamente alle apparenze, l’alcolizzato è un essere perfettamente morale. Se diventa malvagio per lui e per gli altri, è per rabbia. Se diventa scuro, è per tristezza. Rabbia e tristezza di non poter mettere d’accordo quel che sogna e quel che vede. La natura della malattia è proprio quella che dico. E’ mistica, lo so adesso. Nell’impossibilità di saperlo, i medici non potevano che fallire con me”. Anche Tolstoj, che qualche esperienza in materia ce l’aveva, come tutti i russi, aveva la stessa opinione, e a proposito di Pierre, il protagonista di Guerra e pace, dice: “Bere vino diventava sempre più per lui un bisogno fisico e anche morale”.
Non è un caso se Baudelaire, altro figlio maledetto della poesia e del vino, fosse incline ad attribuire a quest’ultimo anche un’anima, come nella poesia L’Ame du vin, prima di una serie dedicata al vino dei cenciaioli, a quello degli assassini, dei solitari, degli amanti.
Credo che si possa legittimamente dire che Dio ha dato modo di trovare il vino agli uomini perché gli uomini lo usassero per ri-trovare Dio. Ognuno al suo livello, a seconda della raffinatezza del suo palato e dell’educazione del suo gusto. Anche Dio, come il vino, richiede una progressione di conoscenza. In entrambi i casi abbondanti libagioni possono essere perniciose; la quantità ma in una forma dozzinale non supplisce e anzi sostituisce, al ribasso, la qualità. La progressiva conoscenza presuppone una progressiva rarefazione. La com-unione di cui il vino è simbolo eminente, non desidera una chiassosa disponibilità, ma un meditato, profondo, adorante silenzio: da questa serietà fiorisce la serenità, la gioia comunitaria e quella che si può definire una conoscenza vera.
Questo in teoria: ma la carne è debole e l’uomo peccatore…
Dunque Dio ha creato il vino – azzardo, da non teologo, dilettante di scienze religiose come di enologia (ovvero, da persona che se ne interessa per diletto, per piacere e per null’altra ragione) – perché l’uomo, attraverso di esso, potesse ritrovare Dio. Ma ha lasciato che fosse un uomo, Noè, a scoprirlo (invece di offrirlo in prima persona, come un miracolo) proprio per sottolineare che si tratta di un mezzo umano e, come tale, imperfetto, non sufficiente.
Il vino, è bene ricordarlo, non esiste in natura come tale. Dio ha creato solo la vite: il vino, come sottolinea la liturgia eucaristica, è “frutto del lavoro dell’uomo”; è, cioè, una alterazione – è “artefatto”, nel senso di fatto ad arte (e con la stessa dignità dell’arte), fatto apposta. Apposta per che cosa? Come l’arte, per allietare l’uomo, ma anche per inquietarlo, per porgli dei problemi. E, credo, per lodare il Creatore. Il vino come arte, allora, come un mezzo non solo utile o importante, ma anche bello: assolutamente non un fine, un idolo, come rischia di essere per certi enofili troppo entusiasti, o peggio ancora una schiavitù (ogni idolatria del resto lo è), come per quegli infelici che sono gli etilisti.
E’ lo stupefacente e semplicissimo insegnamento che viene dai monasteri. Pensiamo alla grande tradizione benedettina (da cui ha preso il nome anche un liquore famoso). I monaci hanno sempre prodotto vino, spesso dell’eccellente vino. Ma in realtà, di solito, se ne produce abbastanza, c’è una grande attenzione alla qualità e alla genuinità (del lavoro prima ancora che del prodotto), ma se ne beve in quantità relativamente moderata: il resto viene venduto all’esterno. E’ come se i monaci dicessero: voi che siete fuori, bevete e apprendete e avvicinatevi a Dio; noi, qui dentro, abbiamo trovato un altro modo, più diretto e più stabile (e senza fastidiosi effetti collaterali) di vicinanza al Signore e di convivialità tra di noi.
Pascal così sintetizzava nei suoi “Pensieri” (fr. 226): “Troppo vino o troppo poco: se non gliene date, non può trovare la verità; se gliene date troppo neppure”.
Il nesso tra vino e verità, già proverbiale all’epoca di Platone, viene successivamente spiegato alla luce dell’insegnamento cristiano. Attenzione però: come per la verità, è questione di non accontentarsi del primo assaggio. E’ qui che i palati più fini, i ricercatori più sinceri, si staccano dalla massa (ignorante e forse per questo incolpevole) per approfondire una conoscenza che intuiscono salvifica solo se, liberati dalla schiavitù della quantità, salgono la china della qualità fino a raggiungere, sulle vette, la rarefazione (o, in altre parole, il distillato). E’ in questa ricerca, gioiosa e faticosa insieme, che il ricercatore impara a distinguere il vero dal cattivo maestro, il vino che soddisfa e che eleva dal vino che ottunde.
Che questa ricerca però, attenzione, non sia fine a se stessa. Su questa strada infatti è incamminato anche il diavolo. Nel Faust di Goethe, Mefistofele in persona così apostrofa i bevitori della cantina di Auerbach: “Berrei volentieri un bicchiere in onore della libertà, se i vostri vini fossero un po’ migliori”: Eccola la trappola di Mefistofele: cercate, cercate i vini migliori, con i quali potrete finalmente brindare alla libertà. E in questa ricerca dimenticate tutto, perdetevi. E’ a quel punto che, senza essere riusciti a trovare l’oggetto della vostra ricerca (c’è sempre “un vino un po’ migliore”), troverete me ad aspettarvi.
Va bene allora l’enofilia. Va bene anche l’enosofia, che potremmo definire un’enofilia consapevole. Ma attenti all’enomania: nel linguaggio medico è sinonimo di delirium tremens.
Forse occorre tornare alla verità più semplice del vino: la sua ‘convivialità’, attestata dal profano e nobilitata dal sacro.
“Sigillo di smeraldo in una guarnizione d’oro
è la melodia dei canti unita alla dolcezza del vino” (Sir. 32,6)
E il Qohelet, forse il libro della Bibbia più letto e più amato anche dai non credenti, ripete, con semplici antiche parole:
“Per stare lieti si fanno banchetti
e il vino allieta la vita” (Qo 10,19)
Per non parlare delle cene che sono state teatro dei gesti più significativi del Cristo.
La grande tradizione che dal Symposion di Platone conduce al Kierkergaard di In vino veritas tocca qui il suo momento più alto, la sua giustificazione e la sua spiegazione. Victor Eremita, personaggio di In vino veritas, e maschera di quello spirito autenticamente religioso che era il suo autore, così dice agli amici prima del banchetto, fingendo di tenere in mano un calice: “Con questo bicchiere il cui profumo già seduce il mio animo, il cui fresco ardore già mi infiamma il sangue, vi porgo il saluto, cari compagni” (Kierkegaard usa il bel termine danese “brikkebrdre”, fratelli di bevute).
Seppure metaforicamente, sottoscrivo. E concludo idealmente con un brindisi e una benedizione. Un brindisi, perché la parola “brindare” deriva dallo spagnolo “brindar”, che a sua volta deriva dal tedesco “Ich bringe dir”, “io ti offro”. E’ più di un gesto d’amicizia. E’ quasi una preghiera. E una benedizione: l’augurio che veniva rivolto ai sacerdoti quando, dopo aver terminato di dir messa, rientravano in sacrestia. Una parola che, caduta in disuso in questa accezione, e ora preferibilmente impiegata proprio come brindisi, mantiene tuttavia il suo significato beneaugurale: “che ti giovi!”, o “buon pro ti faccia”. Una piccola parola latina che, l’avete capito, è: “Prosit”
Stefano Allievi
in “Servitium”, n.177, pp.77-83

Del vino e dell’islam ASR R/I

ASR R/I
Del vino e dell’islam,
SCANNERIZZARE solo COPERTINA, INDICE. L’HO IO
Il vino, le bevande inebrianti, per estensione tutto ciò che altera la coscienza, e quindi anche le droghe, è come noto vietato da un precetto coranico.
Ma, come altrettanto noto ai frequentatori del mondo musulmano, così come dei musulmani immigrati, si tratta del meno rispettato dei divieti alimentari. Vive, più o meno, la stessa sorte del divieto dei rapporti prematrimoniali nel mondo cattolico. Ma si tratta di un peccato evidentemente più frequente e ripetuto…
Il problema, in realtà, è innanzitutto nelle origini, ovvero nel precetto. Che, incessantemente ripetuto dai guardiani dell’ortodossia, e perciò considerato una sunna, ovvero una tradizione inderogabile, è in realtà assai più ambiguo anche nella sua genesi, nella sua origine e nelle sue successive modificazioni.
Il vino viene presentato in alcune pagine del Corano come frutto buono e inebriante che diventa addirittura segno per chi sa ragionare e riconoscere il divino sulla terra. La sua prima menzione, nell’ordine della rivelazione (come noto, il testo del Corano è riportato non in ordine cronologico, ma con un criterio di lunghezza, dalla sura più lunga alla più breve – come le lettere di Paolo, per capirci; seguiamo qui la classificazione cronologica classica della vulgata di re Fu’ad, come riportata nella traduzione del Bausani, e ne riportiamo l’ordine): “Pure dai frutti dei palmeti e delle vigne ricavate bevanda inebriante e cibo eccellente. Ecco un segno per coloro che capiscono” (sura 16,67; abbiamo scelto qui la traduzione dell’Ucoii: probabilmente non la più filologica, ma certamente la più diffusa tra i musulmani in Italia, e quindi anche, dal nostro punto di vista, la più inattacabile). Le successive sure meccane che parlano di vino, lo descrivono come uno dei premi di cui godranno i giusti in paradiso: “Provvederemo loro i frutti e le carni che desidereranno. Si scambieranno un calice immune da vanità o peccato” (52,22-23; più esplicito Bausani: “E si passeranno a vicenda dei calici d’un vino che non farà nascer discorsi sciocchi, o eccitazion di peccato”). E ancora: “I giusti saranno nella delizia, [appoggiati] su alti divani guarderanno. Sui loro volti vedrai il riflesso della Delizia. Berranno un nettare puro, suggellato con suggello di muschio – che vi aspirino coloro che ne sono degni” (83,22-26; anche qui più esplicito Bausani, che al v. 25 traduce: “saranno abbeverati di vino squisito”). Fin qui, le sure meccane, rivelate quando Muhammad era la guida di una comunità minoritaria e anche mal vista, una religione tra tante in quella città politeista e plurale sul piano religioso che era La Mecca al tempo del Profeta.
Diverso il tono delle sure medinesi, rivelate quando ormai la hijra, l’Egira, la migrazione, che darà origine al calendario islamico, sarà compiuta. A Medina Muhammad diviene capo politico, giudice, legislatore, persino capo militare, oltre che profeta e leader di una comunità religiosa, e l’islam diviene religione della città, ovvero, in termini moderni, religione di stato, e la legge sacra, strumento per governare la città. Il tono qui cambia, diventa più moralistico che escatologico. E il vino non prefigura più il paradiso futuro, ma diviene più prosaicamente un alimento ed un elemento con i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, ma in cui i secondi prevalgono: “Ti chiedono del vino e del gioco d’azzardo. Di’: ‘In entrambi c’è un grande peccato e qualche vantaggio per gli uomini, ma in entrambi il peccato è maggiore del beneficio!’” (2, 219). Successivamente si introduce la fase intermedia del divieto degli alcolici, quella, che anche la Bibbia stigmatizza, del legame, da scindere, tra ebbrezza e preghiera, tra ubriachezza e liturgia, servizio divino: “O voi che credete! Non accostatevi all’orazione se siete ebbri, finché non siate in grado di capire quello che dite” (4,43). Fino al divieto totale, più radicale e dunque più efficace: “In verità col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi, e allontanarvi dal Ricordo di Allah” (5,90-91). Anche le sure medinesi, tuttavia quando si tratta di descrivere il paradiso, non omettono di ricordare, tra gli altri, anche il piacere delle bevande inebrianti a disposizione dei salvati: “[Ecco] la descrizione del giardino che è stata promessa ai timorati [di Allah]: ci saranno ruscelli di un’acqua che mai sarà malsana e ruscelli di latte dal gusto inalterabile e ruscelli di un vino delizioso a bersi, e ruscelli di miele purificato” (47,15).
Difficile, dunque, da queste citazioni, dedurre la condanna assoluta che la sunna tramanda, che assomiglia assai più a un’interpretazione di chierici arcigni e austeri dottori della legge, che a una semplice coerente deduzione dal testo di un principio comportamentale. Nessuna meraviglia, dunque, che i sufi abbiano letto questi passi in tutt’altro modo, e il “vino mistico” sia un importante luogo letterario dell’islam, molto presente in opere poetiche e di meditazione spirituale. Inoltre una vasta letteratura poetica ‘laica’, anche se talvolta interpretata misticamente, il cui rappresentante più noto in occidente, ma tutt’altro che il solo, è il persiano Omar Khayyam (ma c’è anche Abu Nuwas, sorta di “Verlaine arabo dell’VIII secolo”, e magari anche una misconosciuta voce italica come Ibn Hamdis, nato a Siracusa nel 1056), e infine un’ampia letteratura moderna e contemporanea, ci tramandano tutt’altro rapporto con il vino e gli alcolici.
Al di là dei testi, quella che incontriamo nella storia è una storia assai meno lineare. Il vino appartiene anche ai paesi islamici, non foss’altro perché l’uva in alcuni di essi veniva coltivata (e opportunamente fermentata) prima che l’islam nascesse, ed è sopravvissuto ad esso. Inoltre diversi paesi a maggioranza musulmana avevano comunque al loro interno minoranze cristiane ed ebraiche per le quali il vino era non solo lecito, ma liturgicamente necessario e indispensabile. Paesi come il Libano e la Tunisia, ed altri, lo producono tuttora. Così, tradizionalmente, mercanti e tavernieri cristiani ed ebrei vendevano vino senza star troppo a guardare la religione del cliente, che di questo gli era grato. E anche alcune alte pagine poetiche ricordano con gratitudine i monasteri della Siria e dell’Iraq, in cui il visitatore musulmano poteva degustare ciò che l’islam proibiva. E se non lo si trovava in loco, lo si poteva pur sempre importare dall’Europa. Un gustoso aneddoto storico ricorda che lo Château-Carbonnieux, passato nel 1731 nelle mani dei benedettini dell’Abbazia di Santa Croce, veniva venduto ai turchi con la denominazione di ‘acqua minerale di Carbonnieux’. Non diversamente, talvolta, si fa oggi con l’import di alcolici dei più vari tipi: tutti più o meno reperibili, apertamente o in qualche caso al mercato nero, nella stragrande maggioranza dei paesi musulmani. E non solo ad uso dei turisti di passaggio.
Del resto, anche in mancanza di uva si potevano creare altri ‘vini’, dal più antico nebid, “sorta di vino di datteri, di miele e d’uva secca”, descritto da uno studioso tunisino, ad altri più simili al nostro vino, e più corposi, ma che l’interdizione religiosa vela di ipocrisia terminologica anche se non ne cancella le conseguenze sostanziali. Un esempio è testimoniato da un osservatore dei mœurs indigènes di inizio ‘900 citato in una recente ricerca sui viticultori italiani emigrati tra ‘800 e ‘900 in Tunisia: “A Djerba e alle Kerkenna, con la qualità d’uva detta asli (melliflua), gli insulari fabbricano un liquido che si guardano bene dal chiamare chrab (alcolico) o khamr (fermentato). Non è per loro che del succo d’uva, della spremuta (hasir). […] L’hasir è un vino ricco in alcol, che va da 16 a 17 gradi […]. A Biserta, gli indigeni preparano una sorta di vino chiamato mghelli, cioè ‘bollito’. Lo ottengono, infatti, facendo macerare un po’ di tempo e poi bollire l’uva. Si ha così un prodotto molto alcolico che si schiarisce per mezzo di un pizzico o due di un’argilla biancastra detta semplicemente touba”.
Oggi la realtà è cambiata, il consumo di alcolici progressivamente emergente. Più di un giovane maghrebino può raccontare, laddove non è costume farsi vedere in pubblico, l’uso del vino – spesso cattivo vino – in rituali sedute in compagnia, in cerchio, più o meno con le stesse modalità con cui in Europa gira uno spinello. E ancora di più ciò è visibile nell’immigrazione musulmana in Europa. Già esistono fatwa, cioè pareri giuridici, che ne consentono il maneggio, il trasporto e la vendita, causa forza maggiore, dato che molti immigrati lavorano nel terziario, in bar e ristoranti, nei negozi. Ma anche il consumo si diffonde, tanto da divenire prassi comune, elemento forte di socialità interna, e non solo nei rapporti con i non musulmani. Gioca in questo il contesto di inserimento, con la forza delle sue tradizioni (e così può capitare a un maghrebino gallicano di festeggiare alla maniera francese una ricorrenza, magari anche familiare o religiosa, come una circoncisione o un aid, con una bella bottiglia di champagne…), ma anche la indubbia volontà individuale di non più ottemperare a questo precetto: testimoniandone l’ordinarietà di consumo e di presenza (più di birra che di vino, in verità, come osservabile anche in una media spesa maghrebina al supermarket). Con molte differenze: tra osservanti e non, ovviamente, ma anche, significativamente, tra single e famiglie, dove nelle seconde la volontà di trasgressione è minore.
Stefano Allievi
in “Servitium”, n.177, pp.85-89

Città video sorvegliata o città aperta? (versione integrale)

In un precedente articolo sul Mattino, abbiamo affrontato il tema della socialità giovanile e della politica degli orari della città, prendendo lo spunto dall’arrivo dei vigili alla festa del PD, andati a fare quello che fanno ovunque, su incarico del Comune, allo scadere della mezzanotte: spegnere la musica. Il numero di risposte e di consensi che l’intervento ha avuto, e di discussioni online che ha generato, è stato significativo: come se qualcuno avesse involontariamente dato voce a una tensione che covava sotto la cenere da anni, a una ferita aperta e a un problema irrisolto. Proviamo qui ad approfondire la questione.
La polis – concetto da cui deriva tanto la nostra idea di città quanto la nostra idea di politica – presuppone l’incontro nell’agorà, nella piazza, e la riflessione comune sul suo destino. E’ quindi innanzitutto un luogo di socialità e di discussione. Incidentalmente, parte importante dell’attività e dell’identità della polis erano anche i templi, dove si svolgevano le cerimonie religiose, i gymnasion, dove si coltivava il corpo e lo spirito, e i teatri, con dei veri e propri festival, i Dionysia, che servivano a cementare l’unità culturale della polis e dei cittadini.
La socialità è dunque fondamentale: perché è buona in sé, perché costruisce legami sociali (non a caso si parla di tessuto sociale, fatto di una trama fitta di relazioni), perché è un piacere, e infine perché consente la comunicazione e la discussione sulla res publica, la cosa pubblica. E’ insomma una precondizione della vita stessa della città (se vuole essere viva, naturalmente). Ma per manifestarsi ha bisogno di luoghi e di occasioni, a tutti i livelli. Luoghi polisenso e multifunzione, utilizzabili a più livelli e da popolazioni diverse, come le piazze, i parchi, i cortili; luoghi per il culto e l’adorazione degli dei; luoghi dedicati alle forme moderne di gymnasion e di teatro, di aggregazione e di divertimento; luoghi di consumo e di scambio, come i mercati (e naturalmente i luoghi della produzione e quelli di incontro delle corporazioni di arti e mestieri); luoghi di istruzione e formazione (che la mentalità odierna identifica con la scuola e l’università, ma lo sono anche i teatri e i gymnasion, i luoghi di culto e i mercati); fino ai luoghi di discussione politica, dall’agorà al municipio. E occasioni come le feste private e pubbliche, religiose e laiche, le celebrazioni, gli eventi culturali e sportivi, le fiere e i mercati, e quant’altro.
La città non è fatta solo di muri, è fatta di persone: “Sono le case a fare un borgo, ma sono gli uomini a fare una città”, diceva Rousseau. Bene, chi sono gli uomini e le donne che abitano questa città? I residenti al 31 agosto 2011 sono 214.046, di cui 32.008 stranieri, grazie ai quali si produce anche un tasso di natalità e di nuzialità in aumento (senza di loro sarebbe negativo). Ai residenti bisogna aggiungere gli studenti dell’università, 60.812, di cui solo un terzo circa è padovano, e quindi conteggiato tra i residenti: una buona metà viene da altre zone del Veneto, e in parte passa almeno qualche giorno (e notte) alla settimana a Padova, mentre oltre il dieci per cento viene da altre zone d’Italia e dall’estero, e a Padova spesso ci si è temporaneamente trasferito. A costoro bisogna aggiungere oltre 5.000 studenti post-laurea, in gran numero non padovani, e oltre 2.000 docenti, in parte anch’essi foresti e bisognosi di socialità e di cultura. Poi ci sono le varie ondate di pendolari (per lavoro e studio, al mattino presto; per gli acquisti nella parte centrale della giornata e il sabato; per i consumi culturali e il divertimento la sera, in gran parte giovani), e infine quasi un milione di turisti, per quasi la metà stranieri, che passano almeno qualche giorno da noi. I giovani insomma, sono assai di più di quelli contabilizzati tra i residenti. E le persone con bisogni di socialità più accentuati di quelli legati alla cerchia familiare ancora di più, dato che delle 101.267 famiglie ‘anagrafiche’ censite, ben il 40% (in aumento) sono composte da un solo elemento, e quasi il 27% (pure in aumento) da due, con un incremento delle coppie senza figli, pure esse in aumento, che già oggi rappresentano il 40% delle coppie. Anche se, va ricordato, la popolazione con più di 65 anni è di ben 51.427 unità, e l’età media dei padovani, 45,36 anni, è tre anni più alta della media regionale e nazionale.
In pratica, gli indicatori demografici fanno di Padova una città tendenzialmente anziana; ma quelli sulle presenze, che includono gli studenti, la ringiovaniscono significativamente. Tuttavia Padova – a sentire i diretti interessati – non sembra essere una città per giovani, non ne ha l’immagine. E questo non dipende dalla demografia. Dipende dalle politiche per i giovani. O dalla mancanza delle medesime. E’ da anni, infatti, anzi da decenni, che la popolazione giovanile è scarsamente considerata. E’ da anni che i giovani sono sballottati qui e là. Ed è sconcertante, peraltro, che quando le associazioni sono state convocate per discutere di socialità giovanile – che non è, riduttivamente, solo divertimento, che peraltro non dovrebbe essere una parolaccia nemmeno nel Veneto produttivo – sia stato sull’onda della cosiddetta ‘emergenza spritz’, come se i giovani fossero un problema di ordine pubblico (un’emergenza, addirittura!), e il luogo di discussione sia stato la prefettura anziché il comune.
A mancare non sono solo le occasioni e i luoghi per gli incontri di gruppi affini, per età e interessi. Mancano pure gli spazi di comunicazione, anche solo di vicinanza fisica, tra generazioni. E troppi immaginano la città a compartimenti stagni: le famiglie da una parte, i giovani dall’altra, i bambini dove non ci sono gli anziani, gli italiani dove non ci sono gli stranieri, e così via. Ma questa non è una città e non è civiltà. È una forma blanda e suicida di apartheid, che rende la separazione tra generazioni e tra con-cittadini ancora più grave di quanto già non sia. La risposta allora non è: ognuno da una parte, in modo che nessuno rompa le scatole a nessun altro, ma più spazi comuni, condivisi, in cui anche le generazioni si mischino senza darsi fastidio. Come, grosso modo, accade in ogni parco di ogni città del mondo. Ma come potrebbe accadere con iniziative culturali ad hoc, e proprio nelle piazze della città, che sono il luogo deputato ad ospitarle. Se no l’alternativa secca è tra un divertimento a porte chiuse e a pagamento, e rigorosamente ghettizzato per categorie anche di reddito (e magari anche deviante, comunque troppo alcolico – cose su cui, peraltro, una parte di operatori commerciali guadagna assai bene), da una parte, e dall’altra lo stare tappati in casa per chi altro non si può permettere, e in ogni caso altro non c’è perché altrimenti la cittadinanza protesta. L’abbiamo già detto altrove: una città vissuta, frequentata, è una città migliore e più sicura. Per tutti. E’ nel vuoto, nel silenzio, nell’oscurità, che trova spazio e si manifesta più spesso il lato deviante e maleodorante della società, il degrado. E’ dove la gente, le famiglie, gli anziani, e anche i giovani, non vanno più, che restano i pochi votati al peggio. Non è questo che le famiglie, e gli anziani, dovrebbero volere, anche se hanno tutti i diritti di dormire la notte. E forse, nel loro interesse, dovrebbero avere la pazienza di sopportare un po’ di jazz, di teatro di strada, di animazione ogni tanto, per evitare di avere lo spaccio, gli ubriachi che fanno i loro bisogni sui muri, i tossici, sempre: la socialità buona scaccia quella cattiva – è dove non c’è quella buona che domina, e spadroneggia, quella cattiva. Forse qualcuno potrebbe perfino scoprire che la socialità e la cultura non sono solo per gli altri, per i giovani; e che potrebbe essere un piacere anche per loro.
Quasi ogni città ha le sue belle attività di strada e popolari, e le sue belle deroghe almeno estive agli orari di apertura, di somministrazione di cibo e bevande, di produzione di cultura (e non solo per il capodanno e le vittorie ai mondiali – deroghe queste che la cittadinanza si prende anche senza permesso). Non c’è bisogno di guardare solo all’estero. Basta guardarsi in casa: andare a vedere le esperienze di altre città universitarie, e compararle con la situazione padovana. Analizzarne anche i problemi, certo, e le risposte che ai problemi sono state date: ma non guardare solo a questi, pensando che la socialità sia, in sé, un problema. Perché la socialità non è un problema: è una soluzione. Questo modo di vedere le cose, di pensare alla socialità come un disturbo, e alle sue occasioni come rumore, è di per sé un dato culturale su cui riflettere: e abbiamo la sensazione che sia questo il problema. Come abbiamo potuto ridurci così?
Forse dovremmo ricominciare a capire che la città va pensata insieme ai suoi abitanti, non a prescindere da essi. A Torino, per dire, ma anche altrove, l’assessore all’urbanistica e all’edilizia privata è anche l’assessore alla qualità della vita e all’integrazione dei ‘nuovi cittadini’. Insomma, chi si occupa delle case è chi si occupa anche delle persone che ci abitano dentro, dei loro bisogni, delle loro aspirazioni. E si affida lo sviluppo di strade e muri a chi si occupa di socialità e culture, anche nuove e diverse. Non quindi un presunto ‘tecnico’ – un architetto, un ingegnere, nei piccoli paesi un geometra – ma al contrario un politico esperto in culture (parola che deriva dal latino colere, coltivare, e include anche il culto, e la coltivazione delle relazioni). Una scelta significativa. Perché nei consigli comunali, nelle giunte, l’attività principale non dovrebbe essere quella di occuparsi di varianti urbanistiche, ponti e strade, ma del loro perché, del loro senso, delle loro conseguenze sulla vita delle persone. Non solo in funzione del traffico, della mobilità, della spesa, del consumo: ma in funzione di una vita piena, ricca di senso e non solo di risorse (per alcuni). Altrimenti rischiamo di avere città funzionali – quando va bene – ma vuote, come in quel quadro meraviglioso che è ‘La città ideale’, alla Galleria Nazionale di Urbino: una bellissima visione rinascimentale, proporzionata, perfetta (e già è qualcosa, laddove la parola bellezza non viene quasi mai pronunciata, nella politica cittadina), ma vuota, senza persone, senza umanità.
La socialità, le attività culturali (e la musica, il teatro, l’happening, le manifestazioni artistiche, ne sono alcune espressioni), sono movimento, invenzione, un’idea del mondo, la voglia di sperimentarlo e di rappresentarlo: precisamente ciò che riempie la città e le dà senso. Proprio ciò di cui abbiamo bisogno come il pane, o almeno subito dopo il pane. Certo, ci può essere qualche inciampo con altre attività della città. Se ne parli, si trovino soluzioni. Se ci sono idee le si propongano, si condividano con gli operatori culturali. Se non ci sono, con umiltà, si lanci un concorso per riceverle, aperto ai giovani, ai gruppi, all’attivismo di chi, tra mille difficoltà e ostacoli, per l’appunto, si attiva affinché la città sia viva e non morta, piena anche di contenuto e non solo di cose. E’ questo che tentano di fare, bene o male, i giovani che si ritrovano per un evento, foss’anche solo con lo scopo di non stare da soli. Perché non è che non ci siano attività culturali: ci sono. E non è che non ci siano altre modalità di aggregazione: l’associazionismo, per esempio. Ma la socialità, soprattutto giovanile, non è solo questo, e non può ridursi a questo. E si coinvolga l’università, la ricchezza meno utilizzata di Padova: che è piena di talenti e di esperienze che non chiedono altro che di essere utilizzate anche dalla città, e per risolvere i suoi problemi. Sapendo, certo, che per riempire la società di contenuto e le giornate di relazioni, bisogna anche spendere: magari spiegando ai padovani che è un guadagno. Economico, persino. E sapendo che non si tratterebbe che di restituire un briciolo di ciò che i giovani producono (sì, producono) e spendono. Sarebbe utile una ricerca sull’indotto economico prodotto da giovani e studenti su questa città. Ma prima di vederne i risultati siamo già certi che la percentuale di spesa a loro favore è certamente inferiore alla loro percentuale di presenza nel territorio.
A partire da qui, forse, si può cominciare a pensare a una città aperta a tutti davvero, non privatizzata: nemmeno dai giovani, naturalmente. Una città che non escluda nessuno. Ma che accolga anche, attivamente, i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti. Con la consapevolezza che la città è molto più di uno spazio: è un luogo, con una sua vita, una sua memoria e un suo genio – genius loci, appunto. E’ molto più di un insieme di strutture (non solo architettoniche): è un complesso di funzioni, che giocano un ruolo cruciale nei meccanismi della comunicazione tra le persone. E’ molto più di un fatto urbanistico: è un fatto urbano – un aggettivo che definisce una civiltà, un modo di essere e di pensare. Ed è molto più anche di un luogo di potere: è un luogo politico, potenzialmente disponibile ai più diversi apporti – perché la politica vera, la politica sana, va nei due sensi: parla, ma sa ascoltare; agisce, ma prima pensa e coinvolge. E’ infine, soprattutto, un luogo abitato: forse privo in sé di anima ma abitato da persone che ne posseggono una, e che vorrebbero poterla manifestare in tutte le sue ricchezze, non solo nella produzione e nel consumo.
Sui cartelli di ingresso della città di Padova sta una scritta significativa: “Territorio urbano telesorvegliato”. Come se questa fosse la sua caratteristica principale, il dato più rilevante della sua carta d’identità, quello da mostrare a chi varca i confini del suo territorio. E’ un segno culturale forte, e inquietante: che ci parla di tempi bui, oscuri, gretti, richiusi in se stessi. Noi vorremmo ci fosse scritto: “Città aperta”, “Città viva”. Forse proprio i giovani possono aiutarci a ritrovare il significato di queste parole.
Stefano Allievi
Da questo articolo è scaturito un dibattito cospicuo: con una prima risposta dell’assessore Zampieri, l’apertura di una discussione nel blog del direttore del Mattino, Omar Monestier, molti interventi con i relativi commenti on line, spesso assai vivaci. Riportiamo di seguito l’intero dibattito, dai miei primi articoli (per come sono stati pubblicati sul giornale) ai principali interventi pervenuti e pubblicati sul quotidiano o sul sito del Mattino: tutto, insomma, tranne i post di commento ai vari articoli, pure anch’essi assai interessanti.
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Come ci ha cambiati l’11 settembre

Domenica, 11 settembre 2011

Per qualche anno, per troppo tempo, il pensiero si è radicalizzato, il linguaggio militarizzato, la ragione impoverita, ridotta a binomi semplicistici quanto fuorvianti: bianco/nero, buoni/cattivi, superiore/inferiore, con Dio o contro Dio (con Dio, naturalmente, privatizzato da tutte le parti in causa). Il pensiero qaedista in questo senso ha vinto, specchiandosi nel bushismo arrogante dell’avventura irakena (costruita sulla menzogna, e che ha prodotto più terrorismo di quanto non ne abbia sconfitto, per non parlare delle decine di migliaia di vittime innocenti, tra le quali contiamo anche i soldati occidentali mandati lì a morire inutilmente): che sono stati paradigmi dominanti, vincenti, fino all’altro ieri. Ma oggi qualcosa è cambiato.

L’11 settembre ha fatto fare un salto di qualità al male nel mondo: quegli innocenti colpiti a mezzo di altri innocenti usati come arma, hanno scolpito l’immaginario occidentale, attraverso quella potente icona mediatica – destinata a marcare ben più di un decennio, e a rimanere nella storia – che sono le immagini incessantemente rivedute degli aerei che si schiantano sulle Twin Towers, della gente che si lancia nel vuoto, delle torri che crollano, del vuoto lasciato nello skyline newyorkese.

In quel momento molti nel mondo, inclusi molti musulmani – tranne una minoranza accecata da furore ideologico – hanno assunto quell’orrore, quel vuoto, come proprio. Tanto che è stato facile raccogliere una alleanza contro il terrorismo islamico che comprendeva anche molti paesi musulmani, almeno fino alla successiva invasione dell’Afghanistan.
Poi, quel capitale di solidarietà e di umana pietas è stato dilapidato, cancellato dall’arroganza, dai toni fondamentalisti, dalla propaganda, dalla mancanza di pietas per gli innocenti di altre latitudini. E, da ambo le parti, per qualche anno hanno avuto mano libera, e sono sembrati vincenti, gli estremisti. In questo la strategia di al-Qaeda ha avuto successo: e il conflitto di civiltà è sembrato improvvisamente un’evidenza.
Per qualche anno, per troppo tempo, il pensiero si è radicalizzato, il linguaggio militarizzato, la ragione impoverita, ridotta a binomi semplicistici quanto fuorvianti: bianco/nero, buoni/cattivi, superiore/inferiore, con Dio o contro Dio (con Dio, naturalmente, privatizzato da tutte le parti in causa). Il pensiero qaedista in questo senso ha vinto, specchiandosi nel bushismo arrogante dell’avventura irakena (costruita sulla menzogna, e che ha prodotto più terrorismo di quanto non ne abbia sconfitto, per non parlare delle decine di migliaia di vittime innocenti, tra le quali contiamo anche i soldati occidentali mandati lì a morire inutilmente): che sono stati paradigmi dominanti, vincenti, fino all’altro ieri.
Un paradigma che nel mondo islamico si è fatto largo attraverso il suo stesso successo, da troppi malinteso come la battaglia tra il buon Robin Hood islamico contro il cattivo sceriffo di Nottingham occidentale (e come questi stupido quanto crudele, come si è riuscito a far credere); e in occidente è stato legittimato in modi diversi. Negli Stati Uniti dal fondamentalismo protestante della destra teocon; e in Europa – in Italia ad esempio – da una specie di fallacismo globale, qualunquistico quanto pervasivo, dagli esiti tuttavia meno catastrofici, contenuti il più delle volte in una violenza diffusa ma soltanto verbale (non che non abbia avuto esiti di invelenimento complessivo della società; ma non ha spinto verso avventure devastanti come quella irakena, che ha sostenuto senza veramente coinvolgervisi in prima persona, o molto limitatamente).
Oggi non è più così. Da un lato le sconfitte di al Qaeda, il suo progressivo isolamento, fino all’uccisione del suo capo carismatico, Bin Laden: oggi al Qaeda vive più che altro sulla forza d’inerzia, sulla disperata volontà di sopravvivenza; non sui successi, sulla capacità di giocare come il gatto con il topo con il potente Occidente, guidando il gioco, come in una certa fase è potuto sembrare. Dall’altro l’elezione di Obama, la politica della mano tesa con l’islam (mantenendo il pugno di ferro solo con il radicalismo violento – quello che si sarebbe dovuto fare fin dall’inizio). E per tutti la stanchezza di una stagione – costosissima culturalmente, economicamente e in sangue umano, che dopo tutto ha lo stesso colore ovunque – che si è trascinata tra roboanti proclami ma senza alcun vero successo, da una parte e dall’altra.
La prova che questa stagione è al suo declino, nonostante le tragiche ricadute che potranno esservi in futuro, ce l’hanno fornita due eventi recenti, molto diversi tra loro. Il primo è stato la primavera araba, che ha mostrato come l’aspirazione a una vita diversa e migliore, e l’uscita dall’immobilismo di grandi masse di musulmani, non fosse più polarizzata dalla falsa alternativa tra il radicalismo islamico da una parte e l’autoritarismo dittatoriale dei satrapi mediorientali, giustificata dall’opposizione all’islam radicale (con il cieco sostegno, fino all’ultimo, dell’Occidente), dall’altro; ma si appoggiasse sulla scommessa democratica, non basata sulla religione e nemmeno sulla violenza.
Il secondo evento è stato la strage di Oslo: che ha mostrato all’Occidente le derive cui possono portare i fantasmi ossessivi, impregnati di superiorità razziale e di presunzione culturale, che ha lasciato crescere nel suo seno in questi anni; dopo Oslo e Utoya, molti hanno aperto gli occhi, e anche chi faceva finta di non vedere ora sa.
Certo, il terrorismo non è ancora sconfitto, e il fanatismo appare ancora capace di sedurre le menti di troppi. Ma abbiamo capito la lezione, e ne stiamo uscendo, da ambo le parti. Per questo possiamo ricordare questo anniversario, e piangerne le vittime, con più autentica partecipazione umana, e meno pesantezza ideologica del passato, di altri anniversari. Il segno che stiamo elaborando il lutto. Da adulti. Non è poco. E non era scontato. Per qualche anno, davvero, avevamo perso la speranza.

Allievi S. (2011), Come ci ha cambiati l’11 settembre, in ResetDOC (Dialogues on civilizations) http://www.resetdoc.org/stories/index/00000000021 (anche in “Il Mattino”, 11 settembre 2011, pp.1-7, “La Nuova Venezia”, “La Tribuna di Treviso”, “Il Piccolo”, con il titolo La stagione della paura al tramonto, “Messaggero Veneto”)

Referendum per tornare a contare

Che siamo allo sfascio, lo capirebbe anche un bambino. Lo spettacolo indecente e da vietare ai minori di un governo che fa la manovra, poi la disfa ed esulta (“così è più equa”: come se la prima l’avesse fatta qualcun altro), poi la modifica, poi si accorge che i conti non tornano, poi protesta come se fosse l’opposizione, la rifa e la ridisfa, dà l’idea non di una crisi, ma di un grottesco e catastrofico dramma, una tragedia farsesca, purtroppo senza lieto fine. È la fine non solo di questo governo al minimo storico di consenso, e non solo di questa maggioranza – che è assai opinabile che rimarrebbe tale alla prova elettorale, come i sondaggi già dicono – ma di un intero ciclo politico. E della classe politica che lo ha rappresentato e incarnato.

Che dobbiamo uscire da questa situazione è un dato. Di fronte al malato in grave peggioramento e a un’équipe medica dilettantesca e incapace, la sola possibilità di sopravvivenza del paziente è cambiare medici, e pregare che Dio ce la mandi buona. E il solo modo di farlo è cambiare ceto politico. Come? E’ ovvio, con le elezioni. Che comunque arriveranno: a breve, per implosione della maggioranza, o alla scadenza naturale, nel 2013. Ma sappiamo bene che se si andasse alle elezioni con l’attuale sistema elettorale, mandando in parlamento un nuovo manipolo di servitori obbedienti che non rispondono al popolo ma che tutto devono al capo o al partito e niente al merito e alla capacità (categoria che, a causa del sistema, finisce per includere anche i galantuomini che pure ci sono), o di allegri cambiacasacche interessati solo al potere, nulla cambierebbe davvero. Per cui bisogna cambiare il sistema elettorale.

Tutti lo dicono, anche molti che non lo pensano davvero perché sotto sotto gli viene comodo l’attuale, ma nessuno lo fa. E allora l’unico modo possibile diventa il referendum sulla legge elettorale. Certo, pochi vogliono davvero tornare al vecchio ‘matarellum’. Meglio sarebbe, per meglio selezionare gli eletti, una bella uninominale inglese, o almeno un doppio turno alla francese; o persino, come vogliono altri, un sistema tedesco con sbarramento all’ingresso. Ma comunque uno diverso. Peccato che ogni partito abbia il suo progetto, e che quindi nessuno, matematicamente, possa essere approvato. Ecco allora che la strada referendaria e il ritorno al sistema elettorale precedente diventa, se non altro, la soluzione meno peggio. Non entusiasmante, ma meglio del presente.

Ecco perché è importante che oggi un po’ di esponenti di rilevo del PD si siano finalmente svegliati, e appoggino il referendum (promosso peraltro da alcuni suoi esponenti, insieme a Italia dei Valori, Sinistra ecologia e libertà, e qualche altro), seppure con un tiepido sostegno della segreteria. La popolazione tutta – anche di centrodestra – gliene sarebbe grata, visto che non ne può più del sistema attuale, e sarebbe una straordinaria occasione di capitalizzarne il consenso. Peccato lo si faccia all’ultimo momento, quando il rischio di non raccogliere le firme è alto. Ma meglio tardi che mai.

Alla meglio, il referendum diventa lo stimolo perché i partiti si mettano finalmente d’accordo per una nuova legge elettorale. Alla meno peggio ci salverebbe quanto meno dalla tragedia di riandare a votare con l’attuale legge che il suo stesso estensore, Calderoli, definì ‘porcata’, perché impedisce ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti mediante la preferenza. E’ così difficile capirlo? Purtroppo, per la gran parte del ceto politico sì, ed ecco perché non lo sostiene. Una prova di più che bisogna cambiarlo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Referendum per tornare a contare, in “Il Mattino”, 9 settembre 2011, pp.1-9 (anche “La Nuova Venezia”, “La Tribuna di Treviso”)

Che cosa sognamo di fare di questa città?

Siamo contenti che la polizia sia andata alla festa del PD: così scoppiano le contraddizioni. Non equivocate: siamo del tutto favorevoli alla festa del Partito Democratico (e a tutto ciò che produce socialità), e del tutto favorevoli alle iniziative musicali dei giovani al suo interno. Ma il PD è anche il partito che esprime l’amministrazione e il sindaco, cioè chi governa. E chi governa, fosse di destra o di sinistra, ha ascoltato troppo, in questi decenni, la Padova dormiente, chiusa in casa, diffidente: anche perché è quella che protesta di più. Senza ascoltare abbastanza l’altra Padova: quella che si incontra, che produce socialità e cultura, e anche, ma non solo, più giovane. Che, pure, vive al suo interno, e produce ricchezza su cui altri guadagnano: si pensi alla folla di studenti su cui campano più maturi commercianti e proprietari di case, e quindi famiglie, ma che hanno il diritto di esistere solo di giorno, poi, mi raccomando, che vadano a letto presto. Ora, queste due città hanno entrambe i loro bisogni e i loro diritti: ma la sensazione di qualunque studente fuori sede, come degli operatori culturali indigeni, per non parlare dei turisti di passaggio, e l’immagine di sé che la città rischia di dare, è quella di ascoltare, primariamente, una sola delle due. Qui basta la telefonata di uno, non sempre a ragione, per impedire la socialità di cento, e far intervenire vigili e polizia: che, se non è ancora mezzanotte, ascoltano, nemmeno misurano se c’è davvero uno sforamento di decibel perché non hanno le attrezzature adatte, e chiedono di abbassare il volume; e, a mezzanotte e un minuto, cominciano a comminare multe, senza deroghe.

Ora, chiariamoci: la vivibilità e il sonno dei cittadini devono essere tutelati. Ma non è ammissibile che una città chiuda sempre e comunque a mezzanotte, come se ci fosse il coprifuoco. Basta andare una volta sola in una qualunque città europea, ancor più se è città universitaria, ma anche in Italia, diciamo a sud del Po (e un po’ più a ovest), per vedere in piena notte, e almeno d’estate, una città viva, gente che si muove (e non solo giovani), e iniziative musicali e artistiche per strada. Qui no.

Ma stiamo attenti. La socialità produce vivibilità, ma pure sicurezza. Le zone più frequentate sono anche più frequentabili: sono i passi che rimbombano nel vuoto dietro di noi a mettere più paura. E soprattutto, l’alternativa è che i giovani (e meno giovani) se ne stiano ben sigillati nelle discoteche, nei pub, nei bowling e nei locali di slot machines, nell’interesse di chi li gestisce. E’ questo che vogliamo? Sicuri, e lo diciamo ai genitori, che questo produca una città e dei giovani migliori?

Allora forse, nell’interesse di tutti, è necessario aprire una franca discussione – magari una vera e propria convention, aperta a tutti – cercando di sentire il polso vero della città, non solo le lobbies che la rappresentano: residenti e commercianti, operatori culturali, associazionismo, studenti, istituzioni e università, parrocchie, organizzatori di sagre, musicisti e teatranti, ma anche giovani e famiglie, e magari qualche esperto che sappia cosa succede altrove, e come risolvono i problemi, che ci sono. E provare a immaginare una città diversa, ripensando i suoi luoghi di socialità e i suoi orari. Nell’interesse e a tutela di tutti: ma tutti davvero. Non è solo questa o quella iniziativa in gioco: c’è in ballo l’idea di città che abbiamo. Ne vogliamo parlare?

Stefano Allievi

Allievi S. (2011),Che cosa sognamo di fare di questa città? , in “Il Mattino”, 6 settembre 2011, p. 19

After Oslo. Europe: the time has come to reflect

Stefano Allievi, University of Padua

Muslim communities all over Europe sighed with relief when they heard that the Norwegian massacre had not been carried out by one of their own. If that had been the case, the price to pay would have been a terrible one. Many non-Muslims also breathed their own sigh at not having to confirm their prejudice against Muslims. This reaction is disquieting in its triviality and automatism. The press in Muslim-majority countries is pointing out these inconsistancies, asking “Why is this not called Christian terrorism?” “Why are we not creating a plot theory?”

The massacres in Oslo and on the island of Utoya, carried out on July 22nd by lone killer Anders Behring Breivik, provide us with food for thought, while we wait for further facts to emerge on the case.

At the initial unfolding of the events, many Europeans believed the attack was of Islamic origin. This automatic reaction warrants reflection. As Europol data confirms every year, the attacks carried out and the acts of violence perpetrated by Islamic fanatics in Europe are a tiny percentage of the total attacks, bombs, massacres and murders that occur each year. For example, according to the 2010 report, there were 294 terrorist attacks in Europe (significantly fewer than in 2008 when in turn there were fewer than in 2007), of which 237 were carried out by separatists, 40 by the extreme left, 4 by the extreme right and 2 single issue attacks (linked to a specific local cause), 10 non-specific and only 1 (in Italy) of Islamic origin. In spite of this there were 587 arrests on terrorism charges during that same year, of which 413 were separatists, 29 were extreme left militants, 22 extreme right wing militants and 2 were single issue terrorists, 11 unspecified and 110 Islamists. There were 408 people sentenced for terrorist crimes , of which 268 were separatists, 39 extreme left militants, 1 extreme right militant, 11 unspecified and 89 Islamists [1]. This data can be interpreted in various ways. One could consider the discrepancy between the number of arrests and imprisonments of Islamists and the number of attacks carried out by Islamists, as a sign of effective prevention. This greater vigilance concerning this kind of terrorism has had a real effect, with a number of attacks in various countries prevented in locations where there would have been high numbers of victims, such as airports and other public places. One the other hand, one could see this data as the mark of selective attention and greater nervousness regarding Islamist terrorism, and perhaps an underestimation of other kinds of terrorism, such as from the extreme right.
This data cannot be blamed exclusively on the media, although the media is a phenomenal amplifier and sound box for the European fear of Islamism. These numbers should also make us seriously reflect, not only on the presence of Islam in Europe, but also on what it means to be European, and on our attitude toward Islam and Muslims [2]. Biases against Muslims in Europe can be traced back to a long campaign that precedes 9/11 and that has proved to be very effective and pervasive. The Northern League’s campaign against mosques in Italy began in 2000 [3], and even before that, Islamophobia was constructed by the Front National in France and by other political players in various countries [4]. Therefore, some prejudices are not so much a reaction to Islamic violence in the West, but rather something far more profound and ancient.
We seem unable to abandon this Pavlovian reflex in spite of frequently being proved wrong. In fact the news all too often reports on the risk of Islamic attacks that then never take place during great events, such as the Olympic Games, the G8, the Jubilee, and so on. There are occasional confirmations, but our automatic reaction never results in a debate, reflection or demands for a self-critical analysis. Shouting ‘Islamic wolf’ has enabled successful careers in journalism, the security forces, the judicial sector and, of course, in politics. Private, let alone public, apologies to Muslims for mistakes are very rare. And yet, this phenomenon has damaged the lives of thousands of Muslims, who then become the occasional victims, if not of violence, certainly of rejection, controversy and ordinary daily harassment at school, at work and on the streets.
Muslim communities all over Europe sighed with relief when they heard that the Norwegian massacre had not been carried out by one of their own. If that had been the case, the price to pay would have been a terrible one. Many non-Muslims also breathed their own sigh at not having to confirm their prejudice against Muslims. This reaction is disquieting in its triviality and automatism. The press in Muslim-majority countries is pointing out these inconsistancies, asking “Why is this not called Christian terrorism?” “Why are we not creating a plot theory?” These are questions that should be asked throughout the West as well.
We must also reflect upon Europe’s internal violence, which has been emerging in recent years. Fear of an Islamic danger has produced a crowded web of large and small political parties, groups, websites, newspapers, writers and intellectuals, competing in the easy and productive Islamophobia market at so much per kilo. This is the hornet’s nest in which the Oslo assassin dipped his hands and then drafted his extremely personal opinions and his tragic conclusions. It is no coincidence that many of these references are quoted in his memorial, and it is significant that the xenophobic and islamophobic ravings he published are filled with recurrent themes that are actually widespread among the mainstream media and extremist viewpoints in Europe. These references consist of buzzwords, quotes and even specific linguistic similarities, such as calling Europe ‘Eurabia’, a neologism invented by Bat Ye’or but brought to success by Oriana Fallaci, who was also quoted by Breivik[5].
It is obvious that it would be neither correct nor intelligent to blame on his intellectual references the responsibility and consequences of Breivik’s actions. This, as always, would be a very slippery slope. One cannot, however, ignore that on this subject there have been bad teachers (yes, precisely in the sense used in other times and other political circles for Toni Negri and others) and terrible practitioners. Some of these voices have been provided with disproportionate and uncontested space in the public debate and the media, permitted to use language that other cases would not be allowed[6]. In many political speeches, in too many newspaper articles and even in statements from religious leaders, if one replaced the word ‘Muslim’ with the word ‘Jew’, these same statements would be considered simply unutterable. The rise in xenophobic and Islamophobic political parties all over Europe proves that this is not just a question of style. There are too many misunderstandings, too many shortcuts, too much superficiality and too many mistakes. There is too little internal debate and, of course, a number of unacceptable acts of violence. But the time has come for everyone to seriously reflect on where all this is leading us.
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[1] For those wishing to research the matter personally, the link so little used by journalists and self-appointed experts on Islam, is: http://www.europol.europa.eu/content/publication/te-sat-2010-eu-terrorism-situation-trend-report-671 (see in particular pages 10 and 11 as the in-depth analyses on Islamic terrorism, especially the one mentioned above from page 18 onwards).
[2] See S. Allievi, Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Forum, 2007.
[3] Italian Islam’s ‘Black September’ was in 2000, when the anti-Muslim kulturkampf became apparent in various circles, such as with the publication and favourable reception and disseminating of an essay by political analyst Giovanni Sartori, entitled Pluralism, multiculturalism and foreigners, filled with inaccuracies, inconsistencies and blunders, but extremely successful. Then there was the pastoral letter from the then Cardinal of Bologna Giacomo Biffi, equally widely broadcast and debated in Catholic circles, resulting in a peculiar Catholic form of Islamophobia until then silent. And of course there was the Northern League’s political campaign, which started with the case involving the mosque in Lodi and that has never ended. On the contrary, it is in constant evolution (on the Italian case see my books Islam italiano, Einaudi, 2003, and I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009).
[4] V. Geisser, La nouvelle islamophobie, La Découverte, 2003; M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Laterza, 2006; C. Allen, Islamophobia, Ashgate, 2010.
[5] See G. Bosetti, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, Marsilio, 2005, and S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione, Emi, 2004, and also Niente di personale signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Aliberti, 2006.
[6] The case involving the Northern League’s MEP Borghezio, is paradigmatic but anything but unique. Only on this one occasion was he good-naturedly suspended by the party for three months for having made the unutterable statement that he agreed totally with the reasons and motivations, albeit not the methods, that inspired the Oslo assassin. The aforementioned Member of the European Parliament is a professional statement-maker on this subject (he effectively does practically nothing else), and is elected on the basis of these reasons. He is hero of the Northern League’s base, celebrated in Pontida, and has never been invited to use more moderate language, let alone more serious arguments.

http://www.resetdoc.org/story/00000021694

Conflitto sociale tra generazioni

La politica contro i giovani

E’ significativo che sia proprio la Lega, il partito che passa per essere quello con il maggior sostegno giovanile, a farsi paladino della battaglia contro l’innalzamento dell’età pensionabile (accettando piuttosto un taglio ulteriore ai già stremati enti locali, in contraddizione lacerante con la sua stessa ragion d’essere, il federalismo). E se le modalità d’azione – tra parolacce, pernacchie e dita medie alzate – possono sembrare giovanilistiche, il contenuto è un furto con scasso ulteriore al futuro e alla speranza dei giovani di questo paese.

E’ la tragica conferma di come la classe politica, vecchia d’età e di metodi, sia anche la rappresentante ufficiale della parte più anziana della società e dei suoi interessi, e solo di essa. E’ evidente che, tra tante cose dolorose da fare in tempi di crisi, quella di innalzare l’età pensionabile (tranne che per i lavori usuranti) e di parificare quella tra uomo e donna, è una di quelle da mettere in cantiere. Per una semplice ragione demografica: in un secolo la speranza di vita si è alzata di quasi trent’anni (e di quasi due anni per gli uomini e 1,3 per le donne solo nell’ultimo decennio, con veloce tendenza all’aumento), e le donne vivono mediamente sei anni più degli uomini. E per un’ovvia ragione di equità: chi manterrà questo esercito di pensionati poveri ma longevi saranno le nuove generazioni più povere di loro, su cui già abbiamo rovesciato l’onere pesantissimo del debito pubblico, e che vivono in un mondo del lavoro molto più duro, precario e concorrenziale dei loro genitori.

Preferire addirittura di tagliare ulteriormente i trasferimenti agli enti locali, che già hanno tagliato tutte le politiche sociali e culturali, e ovviamente in primis quelle rivolte ai giovani, è semplicemente criminale, in un paese che spende (dati Censis) il 60% della sua spesa sociale in pensioni (contro il 45% della media europea, e di paesi con un livello di protezione sociale molto superiore al nostro, come la Francia e la Germania), e solo un’infima parte per iniziative in favore dell’infanzia, dell’adolescenza, dei giovani e delle famiglie.

Naturalmente la Lega non è sola in questa difesa a oltranza dell’età pensionabile. Ha in buona compagnia la Cgil e i sindacati in genere (che non a caso vedono nei pensionati, ormai, la maggioranza dei loro iscritti), ma anche un ampio fronte dell’opposizione di sinistra. Quella parte, almeno, che non ha il coraggio di dire al suo elettorato delle scomode verità.

Giusto non considerare l’età pensionabile un modo “per chiudere il buco del giorno”, come dice Bersani. Inevitabile tuttavia parlarne, in una logica non di semplice riduzione dei costi, come fa attualmente la manovra del governo, ma di sviluppo e di ripresa, che fin qui non si è vista. In questa logica sarebbe normale investire piuttosto in ricerca e sviluppo (una spesa nello stesso tempo a favore dei giovani, della conoscenza e dell’impresa) un 3-4% in più di Pil, come fanno da anni gli altri paesi europei, mentre noi siamo fermi a mezzo punto percentuale (e i privati investono altrettanto poco). Alla lunga ne beneficerebbero anche i futuri pensionati, potendo contare su qualche certezza in più e un paese in ripresa anziché in declino.

Non farlo è la dimostrazione di un durissimo, anche se taciuto, conflitto sociale in atto: non più tra classi, ma tra generazioni.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Conflitto sociale tra generazioni, in “Il Mattino”, 25 agosto 2011, pp. 1-7 (Anche “La Tribuna di Treviso”)