Contraddizioni catto-padane

Contraddizioni catto-padane

La Lega, nel suo rapporto con il cattolicesimo, si trova a vivere un’ambivalenza profonda. Il contrasto, una sorta di volontà di rivincita, e persino di concorrenza sui valori, da un lato. E l’eredità del voto cattolico dall’altro.

I dirigenti leghisti hanno lanciato in questi giorni un affondo molto duro nei confronti della Chiesa. Ma si tratta più di una continuità che di una novità, nella storia della Lega. Sarebbe sufficiente sfogliare gli albori di ‘Lombardia autonomista’, organo dell’allora neonata Lega Lombarda, per ritrovare le stesse polemiche di oggi, e persino la proposta di far passare il Nord, in toto, al protestantesimo.

Il partito che forse più di tutti insiste retoricamente sull’identità cristiana del Paese, specie se c’è da prendersela con i musulmani, è anche quello che meno la frequenta e la conosce. Chi scrive ‘Padania cristiana’ a caratteri cubitali sui muri del Nordest di solito, dicono i parroci, in parrocchia non si è mai visto. E chi rivendica crocefissi in ogni aula, scolastica e municipale, spesso a casa sua non ce l’ha e non lo prega. Del resto la dirigenza storica leghista è lontana anni luce dalla pratica cattolica. Bossi non ha mai fatto mistero della sua felice ignoranza in materia, ministri ed ex-ministri come Calderoli e Castelli preferiscono, a quello cattolico, il matrimonio celtico (dopo un primo divorzio), che consente tra le altre cose più rapide separazioni, celtiche anch’esse. E, per dire, un dirigente come l’europarlamentare Borghezio, che non perde occasione per ergersi a paladino della cristianità italiana contro l’invasione islamica, l’unica croce con cui ha realmente dimestichezza, fin dal suo passato politico pre-leghista, è quella celtica. L’unico momento di visibilità cattolica all’interno della Lega è stato quando un’oscura e giovanissima militante delle Acli milanesi, avendo inviato al senatur un documento sul voto cattolico, si vide chiamata a fondare la consulta cattolica della Lega, e in pochissimo tempo fu catapultata al vertice della terza carica dello Stato: ci riferiamo alla presidente della Camera, Irene Pivetti, poi finita a percorrere una triste parabola da modesta presentatrice di programmi di intrattenimento sulle tv Mediaset, contenutisticamente assai poco cattolici. Per non parlare delle politiche che si pongono in conflitto diretto con il cuore del messaggio cattolico: e non si tratta solo di quelle sull’immigrazione. L’antisolidarismo militante, l’enfasi sulla separazione e sulla divisione dalle aree più povere (l’egoismo dei ricchi), il rifiuto di logiche minime di riconoscimento universale dei diritti, la critica alla difesa della costituzione propugnata dal cattolicesimo democratico, per non parlare della polemica diretta con i ‘vescovoni’ (che ha in Milano la sua punta di diamante, ieri contro il card. Martini e oggi contro il card. Tettamanzi), le finanze della Chiesa, le contraddizioni tra il predicare bene e un presunto razzolare male (che li accolgano in Vaticano, gli immigrati…), o il card. Ruini ‘ruina d’Italia’, secondo una nota battuta bossiana, sono la regola, nella Lega, non l’eccezione.

C’è, dunque, un’estraneità diffusa tra il sentire leghista e quello cattolico. Che, tuttavia, non ha impedito che, in particolare nelle bianche province della Lombardia e del Nordest, il voto cattolico, una volta scomparsa la Democrazia Cristiana, si sia riversato volentieri nel contenitore leghista, apparentemente senza soffrire alcuna particolare contraddizione. Anche perché il prodotto piace. Piace perché propone un cattolicesimo di pura etichetta, poco esigente sul piano morale e religioso, riducibile a pochi elementi (identitari, appunto), familiari ma non invasivi, nostalgici ma innocui. E piace anche per l’elemento di critica allo strapotere vaticano (parte anch’esso di ‘Roma ladrona’), in nome magari delle care vecchie parrocchie in cui si parlava dialetto, che anche in ambienti cattolici è significativamente diffuso.

Su questo, più che la Lega, è la Chiesa a trovarsi in difficoltà e in contraddizione. La difesa dell’identità, un pilastro della politica culturale leghista, non può non piacere, laddove l’identità è supposta essere cattolica. Sulla base di questo presupposto non poco clero, ma soprattutto moltissima base cattolica, si sono fatti felicemente sedurre dalla sirena identitaria leghista, talvolta flirtando con essa laddove sembrava rafforzare una identificazione con la chiesa che, secondo tutti gli indicatori (pratica religiosa, frequentazione dei sacramenti, aumento di matrimoni civili e divorzi), è in realtà in calo. Ma il problema è che questa identità cattolica non lo è affatto: e non solo per i richiami al folklore celtico e al dio Po. E questo dalle origini. Oggi quei nodi vengono nuovamente al pettine. Ma è probabile che resteranno, come per il passato, ambiguamente sospesi, e irrisolti. Perché il problema vero non è quanto è cattolica la Lega: ma quanto sono cambiati i cattolici, e quanto sono disposti a mettere in mora le loro convinzioni, in politica. La crescita della Lega ci dice che lo sono, e molto.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 27 agosto 2009, p. 1

“Morte a Venezia” il ritratto ante litteram di Silvio Berlusconi

“Morte a Venezia” il ritratto ante litteram di Silvio Berlusconi

“Uno, in particolare, vestito d’un abito estivo color giallino all’ultima moda, con una cravatta rossa e un panama dal risvolto baldanzoso, si segnalava tra tutti per la voce berciante e la lepidezza di cui dava prova. Appena l’ebbe osservato un po’ più attentamente, Aschenbach constatò, con una sorta di raccapriccio, che si trattava di un finto giovinotto. Era vecchio, senz’ombra di dubbio. Grosse rughe circondavano i suoi occhi e la sua bocca, lo smorto incarnato delle guance era belletto, una parrucca i capelli castani sotto il copricapo di paglia adorno di un nastro variopinto; il collo appariva flaccido e segnato dai tendini, i baffetti volti all’insù e la mosca sul mento erano tinti; la fitta rastrelliera di denti gialli, ch’egli scopriva ridendo, era una meschina mistificazione, e le due mani, adorne di grandi anelli agli indici, erano mani senili. Non sapevano, non si accorgevano i suoi amici che colui era un vecchio, che indossava indebitamente quelle garrule vesti da ganimede, che indebitamente si atteggiava a uno della loro età? Con tutta naturalezza e dimestichezza (così sembrava) essi lo ammettevano in mezzo a loro, lo trattavano da pari a pari, ricambiavano senza disgusto le sue gioviali manate nei fianchi. Com’era possibile?”

E’, questo, un famoso passo della Morte a Venezia di Thomas Mann, che Luchino Visconti rese nel suo film una scena indimenticabile: con il trucco del vecchio che si scioglieva al sole, denunciando al contempo la falsità e l’inanità del suo travestimento.

Ed è a questo che ci fanno pensare le trascrizioni man mano rese pubbliche delle chiacchiere private di Silvio Berlusconi, e le rivelazioni vecchie e nuove sulle sue giornate e nottate gaudenti, tra un blitz in discoteca a Milano e una Noemi che lo chiama ‘papi’ da festeggiare a Casoria, con gli intermezzi teatrali – giovinette tra le braccia e finti matrimoni – di Villa Certosa. Un vecchio che desidera disperatamente rimanere giovane. E ci riesce. Non solo per le prodezze del suo medico personale, le cure rigeneranti, i lifting e i ritocchi. Ma anche perché emana un potere suo proprio, datogli dal belletto più potente che esista: il potere, di cui il denaro del quale è fortunato possessore (essendo tra i primi 100 uomini più ricchi al mondo) è la forma più eminente.

Interessano meno le prodezze sessuali, reali o mancate. Colpisce molto di più il bisogno assurdo – molto da bauscia, si direbbe a Milano – di piacere, di spandere, di fronte a un pubblico evidentemente di ‘inferiori’: ragazzine imberbi e inesperte di politica, da impressionare con i filmati del prode insieme ai grandi della terra, le vanterie sul proprio ruolo internazionale e la propria indispensabilità, il riferimento al cane di Bush o al letto di Putin. Misere cose – che gettano una luce tra l’inquietante e il pietoso sul bisogno di essere adulato di un uomo che non ne avrebbe bisogno – ma luccicanti, che sono la traduzione in termini di potere dell’auto o della moto sportive, e della vanteria maschile sulla lunghezza dei propri genitali: non più eleganti e non più profonde di queste.

E’ ridotto a questo l’uomo più potente d’Italia, uno dei grandi del mondo: quello che, come riporta anche il sito della BBC, si autodefinisce “il miglior leader politico in Europa e nel mondo”? Così è, se vi pare.

Vi è, in questa che non sappiamo se sia una metaformosi o una caricatura del potere, una sorta di grandezza da personaggio shakespeariano. Ma anche un indubitabile côBagaglino. E così, tra la tragedia e l’operetta, tra la solitudine del potere e le meschinità del medesimo, si consuma il declino di chi, nel bene e nel male, ha governato l’Italia caratterizzandola al punto che questo periodo di storia politica e di costume del nostro Paese verrà ricordato come l’era berlusconiana.

Come per Thomas Mann, la domanda però è sempre la stessa: come era possibile? Come è stato possibile che l’Italia si sia affidata a questo tipo umano, al suo spessore? Probabilmente perché metà dell’Italia gli assomiglia, si identifica con lui, e si limita ad invidiarlo per non poter essere come lui.

In questo senso aveva davvero ragione il vecchio Indro Montanelli, il più autorevole giornalista italiano, vero conservatore, vero moderato e vero liberale, e per questo motivo fieramente anti-berlusconiano, che sul finire della sua vita si è ritrovato, contro tutta la sua storia, a votare per il centro-sinistra, pur di non sostenere una destra di questo tipo: “Solo lasciandolo governare, gli italiani si vaccineranno contro il berlusconismo”. L’abbiamo fatto. Lo stiamo facendo. E occorre che la parabola si compia interamente.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 5 agosto 2009, p. 33

Il declino del capo e quello del paese

Il declino del capo e quello del paese

L’imbarazzante sequenza di rivelazioni più o meno piccanti sulla vita privata di Berlusconi si fa sempre più serrata. L’aspetto moralistico è quello su cui maggiormente è focalizzata l’attenzione pubblica, ma ci sembra il meno interessante.

Ai tempi dello scandalo Lewinski, dopo tutto, a molti era sembrato più squallido lo spettacolo dei persecutori politici di Clinton, i Newt Gingrich e gli altri inquisitori della destra fondamentalista cristiana, che passavano il tempo a rovistare con evidente piacere tra pantaloni sbottonati e tracce di sperma, presentandosi tutti i giorni al Congresso con la Bibbia in mano, che non il comportamento, pur scorretto, dello stesso Bill Clinton, che è rimasto comunque un presidente assai migliore, sul piano della morale pubblica e politica, di quelli, repubblicani, che l’hanno preceduto e seguito, anche se questi forse avevano una morale privata più spendibile.

Oggi, semmai, può essere ironico constatare che il gioco avviene a parti invertite: ad essere sotto attacco è un difensore della famiglia come istituzione, non un liberal miscredente e libertino, fino a ieri difeso a sua volta dagli alti rappresentanti ecclesiastici di cui è stato buon amico e campione politico, godendo del loro ampio ed esplicito sostegno. E gli inquisitori, che non brandiscono principi cristiani, in mano tengono al massimo L’Espresso, con l’orecchio sul sito su cui sono finite le intercettazioni.

Più che sui fatti personali può dunque essere interessante trarre qualche conclusione sugli effetti pubblici della discutibile morale privata su cui si fonda questa vicenda, in ogni caso triste per gli effetti a valanga che ha ed avrà sul livello di tensione morale, già scarso, e sulla reputazione internazionale del Paese.

Non è tanto la questione della menzogna, su cui ipocritamente stanno insistendo molti, a colpire. La menzogna fa parte della politica, e lo sappiamo benissimo tutti. Come occultamento o sviamento interpretativo, nei casi migliori. O come falsità vera e propria, nei casi peggiori, peraltro frequenti. I partiti del resto sono, per definizione, parte: la verità sta solo nel tutto. Figuriamoci se la menzogna non può servire a tenere separati i vizi privati e le pubbliche virtù: non solo in politica, del resto.

Sul piano del decadimento morale del paese, le conseguenze sono ovvie, anche se questo scandalo ne è solo un esempio tra tanti, non l’origine. Tra le altre, l’accettazione e la diffusione dei capricci del capo come norma e come esempio – in altre parole, il servilismo come prassi e modo per fare carriera, riuscendoci. O la ‘velinizzazione’ della politica. Non solo sul piano estetico – più donne e più belle in politica – ma sul piano dei contenuti: fare ciò che dice chi paga, qualunque cosa sia, anche lo scambio più volgare, purchè si salvino le apparenze. In questo senso ci pare che questa morale sia molto meglio interpretata dagli uomini che circondano il capo, le cui carriere sono state legate all’unico merito della fedeltà cieca e assoluta al capo e all’asservimento ai suoi voleri, che non dai ministri Carfagna e Brambilla. La predisposizione e il voto delle leggi ad personam per difendere Berlusconi dalla magistratura, cedendo senza fiatare il proprio onore e la propria anima, sono forme di prostituzione assai più gravi della cessione del proprio corpo, vera o presunta, di una escort che non ha responsabilità pubbliche. E proporre carriere politiche alle animatrici dei festini del capo – e accettarle, da parte dei maggiorenti del partito (memorabile in questa chiave la frase di un coordinatore del Pdl a un escluso eccellente che si lamentava di non essere ricandidato: “tu c’hai le poppe?”)– è assai più grave che sperarci, da parte delle animatrici in questione.

Sul piano internazionale, le conseguenze sono ovvie. Nonostante gli indubbi successi diplomatici, e tra questi la gestione dell’ultimo G8, la considerazione di cui godono il Paese e il suo leader sono in continua discesa, e siamo lontani dal livello più basso, che toccheranno in seguito. Un fatto che dovrebbe stare a cuore anche alle nostre imprese, così premurose nel loro sostegno al leader.

Sul piano interno, non è altro che l’ennesimo vortice di una spirale discendente che non accenna ad arrestarsi. E che le denunce della casta non riescono a far diventare un circolo virtuoso: quasi ci si fosse assuefatti al peggio.

Ma il declino sarà tanto inesorabile quanto lento. I sondaggi, è vero, sono in calo: ma il genio politico di Berlusconi, e le sue indubbie capacità, mostrate ultimamente tanto in occasione del terremoto in Abruzzo quanto in occasione del G8, sapranno trovare qualche coup de théâtre per ribaltare tendenze peraltro ondivaghe ed emozionali, legate a fattori occasionali e instabili per definizione. Del resto, metà del paese è con lui, e non pronuncerà alcuna condanna: anche perché non desidererebbe altro che essere al suo posto.

Il controllo assoluto del destino politico dei suoi, e l’assenza completa di democrazia nel partito di cui è leader, fa di Berlusconi un leader di partito e di governo solidissimo. La sua corte non avrà il coraggio, come non l’ha avuto finora, di contraddirlo. Il bisogno di mantenere il potere da parte di Berlusconi, per continuare a posporre i suoi guai giudiziari, per controllare l’informazione pubblica, e anche, molto umanamente, per darsi l’illusione di controllare lui gli eventi, anziché essere succube di essi, è quasi assoluto. E allora, a meno di fatti imprevedibili, è facile ipotizzare una legislatura lunga e umiliante, segnata da uno stillicidio di rivelazioni, sempre più infime e tristi – che possiamo immaginare più frequenti man mano che si accelereranno le tappe di un divorzio che non potrà certo rimanere vicenda privata – con un potere sempre solido e tuttavia fortemente indebolito, che lascerà alla fine l’Italia, sempre che regga economicamente, in pietose condizioni politiche e in una devastante situazione della morale pubblica, più bassa ancora rispetto ai tempi di Tangentopoli.

Un paese che avrà ulteriormente perduto il suo rango, depresso economicamente e moralmente, e retrocesso agli occhi della pubblica opinione internazionale. In condizioni più difficili, quindi, e comparativamente peggiori, di quando Berlusconi l’ha preso in mano.

L’era berlusconiana, nata in un tripudio di speranze e ottimismo, finirà male, dunque. Ma dovremo assaporarla fino alla fine. Come l’era Bush, del resto. Sperando che capiti anche a noi, alla fine, un Obama di cui non si vedono per ora le tracce. Ma senza avere le risorse che all’America sono venute dall’essere la prima potenza mondiale.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 24 luglio 2009, pp. 1-13

Né Pedro né Pedrocchi. Dieci suggerimenti a Zanonato

Né Pedro né Pedrocchi. Dieci suggerimenti a Zanonato (versione integrale)

Consigli non abbiamo titolo per darne. Proponiamo, semplicemente, dieci punti. Quel che ci piacerebbe accadesse. O che faremmo forse noi, al posto suo.

Primo. Se gli elettori hanno dato un consenso più basso di quello atteso, un motivo c’è sempre. Può essere in errori compiuti, in problemi di comunicazione, o semplicemente nella voglia di cambiare. In ogni caso, sarebbe bene ascoltarli. I politici non sono amati perché sono arroganti e troppo sicuri di sé, o fanno finta di esserlo. Sarebbe un bel colpo di scena chiedere scusa, umilmente: per quello che non si è riusciti a fare, per quando non si è stati ad ascoltare.

Secondo. Zanonato ha l’handicap di non incarnare il cambiamento. Far credere ed entusiasmare alla continuità è più difficile, anche se non impossibile. Imbellettarsi non sarebbe nel suo stile, ed è bene. Ma può fare l’atto di coraggio di circondarsi di giovani, di tecnici, di donne, di volti nuovi che non appartengano alla passata stagione. Qualcuno da salvare c’è. I migliori. Pochi. Gli altri li lasci perdere, senza rimpianti. Scarichi la zavorra. Faccia vedere i nuovi. E dica perché. Facendo vedere che ci crede.

Terzo. Passi all’attacco. Diretto, franco, duro. Faccia vedere tutte le debolezze dell’avversario. Faccia vedere che ha un’idea di città, che il suo avversario non ha e non farà in tempo a costruirsi. Dica con durezza che la città dell’avversario, in mancanza di idee, sarà quella dei poteri forti, dei costruttori, degli interessi di sempre: il bis della giunta Destro, così impresentabile nella sua pochezza che i padovani di destra, che l’avevano votata, l’hanno mandata a casa nell’ignominia, senza un bis, sapendo di aver buttato via molti soldi e molto tempo prezioso.

Quarto. C’è in città una destra più avanzata di chi la rappresenta. Più dinamica e più intelligente. Faccia appello a questi valori: al dinamismo, all’intelligenza, alla creatività. E a questa destra. Non insegua la destra più becera, invece, sul suo terreno. Su sicurezza e controllo Zanonato ha fatto abbastanza, e difficilmente altri avrebbero fatto di più e meglio. Non insista su questo. Chi doveva capire, ha già capito. E infatti la Lega va meno bene che altrove: perché il da fare si è fatto. Lasci i discorsi torvi e gli accenti bui sulla tolleranza zero a Marin. L’elettorato d’ordine, che ne vuole di più senza sapere cosa significa, resterà comunque con lui.

Quinto. Parli alla gente, non alle nomenklature. I padovani, pragmaticamente, hanno puntato sui due contendenti maggiori, lasciando che gli altri contassero meno del due di picche. Lasci perdere il mercato delle vacche, che tanto andranno dal miglior offerente, e chi può offrire di più è la destra, disposta a tutto pur di vincere. Li lasci a Marin, che li prenderà, perché tanto, senza un progetto, va bene tutto: contano solo i voti. Anche pochi e maledetti, ma subito. Non pensi ai partiti e ai dirigenti, che è un riflesso condizionato da prima repubblica. Parli ai loro elettorati. E alla gente: conta molto di più il 20% di chi non ha votato che le briciole di chi ha votato i partitini.

Sesto. Faccia sognare. Per esempio con un grande slancio culturale. La cultura è movimento, invenzione, un’idea del mondo, la voglia di sperimentarlo e di rappresentarlo. Vanti ciò che ha fatto. Ma sia capace di lanciare il cuore più lontano, di far immaginare una Padova che si muove, che non sta ferma come una morta gora. Proponga, inventi, lanci idee, o lanci un concorso per riceverle. Apra ai giovani, ai gruppi, all’attivismo: offra spazi, risorse, obiettivi. Va bene le grandi istituzioni culturali, che ci sono, ed è un merito. Come il San Gaetano, il castello carrarese, ed altro ancora. Ma ci vuole anima, in quei muri. L’errore è già stato fatto: pensare l’involucro senza sapere cosa ci si voleva mettere dentro. Lo si ammetta, e ci si butti molto ma molto più in là: il Beaubourg padovano è ancora lontano… E poi, ci vogliono gli eventi, le serate in piazza, la cultura diffusa, i festival. Bisogna spendere: sapendo dire ai padovani che è un guadagno. Economico, persino, visto che altrimenti il turismo cala. Innanzitutto per quei commercianti e operatori che votano a destra. La destra non ha né le idee né le competenze, in questo campo. O almeno non si sono ancora viste.

Settimo. Dica chiaro e forte che Padova vuole essere una città aperta, che se continua a chiudersi, a immeschinirsi, è una città che va a morire. Pensiamo ai giovani, agli studenti. Non si può non dire che questa città vive sugli studenti, li sfrutta, li spolpa, e poi, dopo le otto di sera, vorrebbe ramazzarli verso casa, per avere piazze pulite e felicemente vuote. Si dica che questa parte di città, provinciale e senza idee, è anche progettualmente ed economicamente inetta. La stessa che ha votato contro il tram per poi capire che era necessario, e farlo spendendo di più e realizzandolo peggio. Si faccia appello agli altri. Non è vero che non ci siano: è che non hanno voce, poteri forti, ceti parlanti, qualcuno che li ascolti. Si faccia appello agli astenuti, agli stufi, quelli per cui Zanonato o Marin pari sono, se nessuno dei due dice che vorrebbe una città dove si possa trovare almeno una pizzeria aperta dopo mezzanotte, per l’indigeno come per il turista, che altrimenti se ne va altrove. Ma una città aperta a tutti davvero, non privatizzata, nemmeno dai giovani. Con luoghi differenziati, con offerte culturali miste, capaci di mischiare anche pubblici e fruitori. Una città che non escluda nessuno. Giovani e anziani, amanti del rock, della classica e del jazz. Per animare le piazze, aprirle a tutti, anziché chiuderle, come vuole la mentalità di destra.

Ottavo. Dica ai padovani la necessità dell’integrazione, le opportunità della pluralità culturale. Cosa farne, degli immigrati che ormai ci sono. Cosa proporre. Che città auspicare. In cui le culture convivano. In cui ci si parli anziché chiudersi. In cui si costruiscano ponti anziché muri. Dica che gli stranieri comprano, pagano, affittano, puliscono e fanno compagnia ai vecchi delle famiglie del centro e delle periferie che poi firmano e votano per liberarsene. E dica anche, come ha dimostrato, che chi invece delinque ed è parassitario è giusto sia colpito: ma col bastone della legge, non con quello delle ronde. Dica onestamente che l’immigrazione porta anche problemi, oltre a risorse volentieri dimenticate, ma che i problemi vanno gestiti, non agitati come fa la destra: con delle soluzioni, non con volgarità ed esagerazioni che producono problemi ulteriori. Che l’integrazione è un investimento e un vantaggio: più intelligente e redditizio della criminalizzazione e del rifiuto. Si lascino le pulsioni xenofobe e le ottusità islamofobe a chi ne ha fatto una ragione di vita. E anche l’insistenza sullo sceriffo, la si lasci in un canto: Zanonato non ne ha il phisyque du rôle, dopo tutto. Ed è bene così. C’è una parte significativa di città che tutto questo l’ha capito.

Nono. Proponga un patto vero con l’Università., docenti e studenti Che è piena di risorse, di idee, di capacità, che ha al suo interno sacche di eccellenza importanti. Che potrebbero essere usate e non lo sono, a tutti i livelli, per progettare la nuova Padova: dalle tecnologie innovative al sociale, dalla cultura all’ambiente. La colpa di questo insufficiente incontro è per metà dell’Università. Ma le risorse, i docenti e gli studenti che non vedono l’ora di essere chiamati, e non per denaro, a lavorare per progettare il futuro della città, sono lì a disposizione, colpevolmente ignorati. La destra invece ha un complesso di rivalsa, con l’Università. Vuole umiliarla, anziché utilizzarla. E’ tempo di cambiare rotta. Anche a sinistra.

Decimo. Basta con il casino fine a se stesso. Ma basta anche con il perbenismo, bigotto e senza fede, dei vizi privati e delle pubbliche virtù. Per usare una metafora, che va al di là dei simboli evocati: né Pedro né Pedrocchi. Né le agitazioni senza prospettive, i furori anarcoidi, l’ego sproporzionatamente smisurato della protesta senza proposta (di cui sono esempio anche certi furori viscerali leghisti, comitateschi o bottegai), né una città bene educata e falsa, misera e vuota nei suoi finti splendori, più fumo che arrosto, più buone maniere che attenzione all’altro. Marin sembra incarnare il Pedrocchi, del cui simbolo probabilmente si farebbe vanto. Zanonato è lontano anni luce dal Pedro. In posizione migliore, dunque, per farsi interprete di quella gran parte di città che sta nel mezzo.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 13 giugno 2009, pp. 1-17

Alle Europee ha vinto l’antipolitica. Cresce il voto dell’area xenofoba

Alle Europee ha vinto l’antipolitica. Cresce il voto dell’area xenofoba

Aumenta l’astensione. Aumentano gli euroscettici. Aumentano gli xenofobi. Aumentano gli anti-islamici. Partiti, tutti – anche l’astensionismo – antieuropeisti negli effetti se non nelle parole d’ordine. Scopriamo così che gli euroscettici – che si sono fatti votare in Europa per dire no all’Europa – sono di più degli euroentusiasti (pochi e defilati: anche questo un pesante giudizio politico, dopo tutto). Il pericolo xenofobo è maggiore del pericolo rappresentato dagli immigrati (che, dove votano, votano sostanzialmente per i partiti tradizionali). E il peso elettorale degli anti-islamici largamente superiore a quello dei musulmani, se votassero.

Se ci aggiungiamo il crollo socialista, che quasi ovunque, all’opposizione come al governo, hanno sempre rappresentato l’idea di un progetto alternativo, è proprio l’idea stessa di progetto, e dunque di politica, che esce sconfitta da queste elezioni. Il voto favorevole ai conservatori in carica, il buon padre di famiglia un po’ burbero e di cui non condividiamo le opinioni in molte cose, ma capace di proteggerci con la solidità dei suoi valori nel momento della crisi economica, è un po’ l’altra faccia di questa tendenza.

In Italia le cose non sono andate troppo diversamente. L’astensionismo è stato un voto contro una campagna elettorale squallida e priva di contenuti. Giocata sulla politica interna da un lato, e sugli scandali dall’altro. Dove di Europa non si è mai parlato, come al solito, e non solo per la concomitanza con le amministrative.

Premiate le parole d’ordine generiche e i leader, non i parlamentari e i gruppi politici davvero attivi a Strasburgo.

Il Pdl è aumentato rispetto alle precedenti europee, ma meno di quanto sperava. Il referendum pro-Silvio non c’è stato (il calo sulle politiche dell’anno scorso è evidente), anche se la sua popolarità, come quella degli altri leader che Strasburgo non andranno mai, è testimoniata dal diluvio di preferenze indicato sulle schede: Berlusconi, Bossi, Di Pietro… Segno che aveva ragione Franceschini a temere la presenza dei leader in campagna elettorale, e avevano ragionissima i leader a volerci essere: senza il loro effetto di trascinamento, probabilmente, i risultati sarebbero stati diversi e l’astensionismo maggiore.

Voto illusoriamente antipolitico è, per alcuni, il voto a Berlusconi (che non a caso non perde occasione per smarcarsi dal ‘teatrino della politica’) e quello a Bossi, nella parte che capitalizza la protesta antiromana. Anche se entrambi rappresentano un progetto politico ‘forte’, oggi indubbiamente vincente. Così come un progetto che non si è consolidato rappresenta il Pd, costretto ad accontentarsi della linea di galleggiamento mantenuta che è, comunque, una sconfitta. Voto antipolitico è quello a Di Pietro, con un raddoppio che era nelle previsioni, a capitalizzare la ‘vera’ opposizione, secondo i delusi del Pd: un’opposizione che non riesce tuttavia a farsi progetto, e a saldarsi con un alleato che appare tutt’altro che ‘naturale’. E voto antipolitico – contro la politica tradizionale – sarebbe quello ai Verdi, se non fosse che in Italia la loro insipienza e l’inesistenza di una leadership sono incapaci di renderlo anche solo un voto di opposizione, figuriamoci di governo, anche a livello locale, come invece accade altrove.

Due parole finali sulla sindrome gruppettara, antica malattia infantile non solo del comunismo, ma della sinistra in genere, che ha punito il voto, in parte anch’esso di protesta, alla sinistra non Pd. Insieme, rappresenterebbero quasi un decimo dell’elettorato: più dell’Udc, più dell’Italia dei Valori, quasi quanto la Lega. Divisi, non contano nulla. Un miracolo di incapacità politica.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 12 giugno 2009, p. 17

La democrazia dello struzzo

La democrazia dello struzzo

L’immigrazione, prima di essere un problema, è un dato. Che ha le sue conseguenze positive: su una demografia pericolosamente squilibrata, sul mercato del lavoro (non solo svolgendo lavori di cui c’è richiesta, ma sostenendo con i contributi il pagamento delle nostre pensioni e badando ai nostri vecchi che le percepiscono), sul prodotto interno lordo. E ha i suoi costi: culturali e sociali. Pagati dagli immigrati, in termini di sfruttamento, di difficoltà di inserimento, qualche volta di discriminazione e razzismo. E pagati dalla società: in termini di danni oggettivi (aumento dei reati, nuovi bisogni da soddisfare, o meglio vecchi bisogni di persone nuove), di paure soggettive, di trasformazioni sociali e di mentalità, che sono anch’esse difficili e costose. Costi che si traducono in conflitti e incomprensioni. Spesso transitorie, peraltro, e già vissute all’inverso ai tempi della nostra emigrazione: ma accorgersene presuppone una capacità di distanza critica che non appartiene all’emotività del presente.

L’immigrazione ha i suoi costi, dicevamo. Ma qualcuno ci guadagna. Gli immigrati che ce la fanno. Coloro che beneficiano del loro lavoro. Quelli che li sfruttano, speculando sul loro bisogno di casa o lavoro, o comprandone il corpo. E quelli che lucrano sulle paure che inducono. Tra questi, gli imprenditori politici della paura. Che, non a caso, sotto elezioni hanno alzato la voce e moltiplicato le iniziative ‘esemplari’, tra ronde e delazioni. Il pacchetto sicurezza appena approvato ne è la manifestazione più evidente, da offrire in pasto ad un elettorato ossessionato dalla sicurezza, ad opera degli stessi che poi gli offrono risposte pronte all’uso: inefficaci – ma che importa – ma facilmente spendibili ed incassabili come rendita elettorale immediata. Non a caso la Lega e Berlusconi fanno a gara ad assumersene la paternità. Con un errore di calcolo, per una volta, da parte di Berlusconi: l’elettorato d’ordine sa benissimo, in questo caso, chi dover ringraziare.

Il travestimento ‘culturale’ di questo coacervo di barbarie legislativa è quanto meno concettualmente zoppicante: come quel “sì alla società multirazziale, no alla società multietnica” che molti esponenti del centro-destra stanno tentando di spiegarci in questi giorni. Che, tradotto, vuol dire: pazienza se l’immigrato è negro o cinese – in ogni caso, purtroppo, non possiamo farci niente. L’importante è che non pretenda di essere alcunché che non sia culturalmente omologato – a chi, tra degli autoctoni tra loro molto diversi, è già un problema ulteriore e non così facilmente risolvibile. Come negli spot del governo di qualche mese fa, del resto: in cui alcuni garruli pizzaioli immigrati lavoravano felicemente cantando ‘O mia bela madunina’ e ‘Funiculì, funiculà’. Canzoni che peraltro pochi di noi conoscono ancora, al di là dell’incipit o del ritornello, ma che importa.

Tra le tante norme discutibili prodotte nell’ultimo periodo, ultima quella sul respingimento degli immigrati che cercano di sbarcare illegalmente sulle coste italiane. Problema annoso. Che improvvisamente, sotto elezioni, diventa merce da mettere in pasto ai cittadini impauriti: opportunamente impauriti dagli stessi che poi offrono facili e illusorie soluzioni, travestite da sano pragmatismo.

L’immigrazione clandestina è un problema oggettivamente grave e non facilmente risolvibile. Lasciamo in sospeso, per il momento, fastidiosi interrogativi etici. Che tuttavia un paese che si vuole civile non può dimenticarsi di affrontare: a cominciare da quel diritto d’asilo già presente nelle pagine della Bibbia, libro a cui tanti si richiamano senza porsi l’incomodo di leggerla davvero, e sancito dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e da convenzioni firmate anche dal nostro paese.

Limitiamoci alla gestione del problema. In Italia la percentuale di clandestini è più alta perché è più facile vivere clandestinamente, grazie al peso maggiore dell’economia in nero. Il primo problema è lì: e precede l’immigrazione, non la segue. Troppo facile, anche se elettoralmente comodo, scaricarlo sull’ultimo anello della catena.

Detto questo, c’è un evidente problema pratico. Che fare dei clandestini? Lasciarli sbarcare, si dice, non si può più. Ammesso per realpolitik e non concesso in termini di principio. Dietro di loro c’è del resto un ignobile traffico, che è giusto voler stroncare, alla pari del traffico di droga e di armi. Qualcosa, quindi, bisogna fare. Ma siamo sicuri che l’unico modo per risolvere il problema sia il respingimento al limite delle acque territoriali?

Immaginiamo si trattasse di casa nostra: saremmo noi a doverci mettere col fucile in spalla a cacciare gli intrusi dal nostro pianerottolo. O ad assoldare delle guardie per farlo in nome nostro. Ci accorgeremmo allora, forse, che cominciare dalla fine non è per nulla il metodo migliore. E che ha delle conseguenze su di noi, prima ancora che sugli altri. Ci cambia, ci sporca, prima ancora di cambiare loro.

Proviamo a fare un passo in avanti, allora: non farli salpare, con la collaborazione dei paesi di transito? Già più ragionevole e meno drammatico. Ma può la nostra coscienza individuale e la nostra civiltà giuridica accontentarsi di lasciarli in balia delle sevizie, dei ladrocini e degli stupri delle guardie di frontiera libiche o d’altrove? Possiamo far finta di non vedere? No, non possiamo. E’ come nascondere la sporcizia sotto il tappeto, in modo da non vederla. Puzza comunque, prima o poi. E prima o poi qualche telecamera arriverà da quelle parti, a raccontarci che siamo stati noi, a darci un pezzo di specchio in mano per riflettere.

Potremmo allora fare un altro passo in avanti: andare a gestire noi, magari con uno sforzo internazionale ed europeo, come giustamente richiede anche il governo, quei campi, visto che la nostra è anche una frontiera europea, di cui non possiamo farci carico da soli. Sarebbe già meglio: garantirebbe più efficacia, migliori condizioni e maggior rispetto dei diritti minimi delle persone. Certo, costerebbe: ma lavorare sulle cause, nel lungo periodo, è sempre più efficace e meno costoso che gestirsi le conseguenze senza poter fare null’altro che parare i colpi.

Ma questo ci costringerebbe a comprendere che dovremmo fare un ulteriore passo in avanti, ed andarci ad occupare di quei paesi e di quei problemi, in modo da non farli partire. La soluzione del problema non sta nella chiusura, delle frontiere e delle coscienze, ma in una loro maggiore apertura: solo, in altro modo.

In fondo, a parole, persino la Lega e la falsa coscienza di molti di noi l’ha detto spesso: aiutiamoli a casa loro. Peccato non si sia mai visto nessuno avanzare una proposta di legge per destinare anche un solo miserrimo euro a questo scopo. E ancor meno sforzi per capire i fenomeni, e azioni per rispondervi. Elettoralmente non paga.

E allora prepariamoci a mettere altri sacchi di sabbia alla porta, e a predisporre i nostri fucili, rimpinguando nel frattempo le nostre scorte. Non l’arrivo dei barbari, ma il nostro imbarbarimento, è già cominciato.

Stefano Allievi

Confronti”, n. 6, giugno 2009, pp. 7-8

La dottrina di Barack Hussein

La dottrina di Barack Hussein

“Thank you, shukhran, assalamu aleikum”. Comincia così, tra gli applausi e i ringraziamenti, il discorso del ‘new beginning’, in cui la ‘dottrina Obama’ sull’islam è stata per la prima volta compiutamente articolata.

Una visione, innanzitutto: ed è già un cambiamento significativo rispetto a una politica fatta di solo pragmatismo e di tatticismi fin troppo decifrabili. Con l’inevitabile dimensione retorica che da una visione ci si aspetta.

A cominciare dalla prima applaudita citazione coranica: “Be conscious of God and speak always the Truth (Sii cosciente di Dio e dì sempre la verità)”. Con assoluta tranquillità applicata da Obama innanzitutto a se stesso, e al suo ruolo, alle vesti assunte al Cairo: che qualcosa di profetico l’avevano, e volutamente.

I richiami storici avevano la stessa funzione: di captatio benevolentiae, ma non solo. Dal riconoscimento del ruolo della civilizzazione islamica nell’aprire la strada al Rinascimento europeo, all’aver voluto ricordare che il primo paese ad aver riconosciuto gli Stati Uniti è stato un paese islamico, il Marocco. Dal tributo alla tolleranza islamica medioevale a quello, personale e più ‘americano’, all’eguaglianza razziale nell’islam.

La rivendicazione orgogliosa del mito americano è stata l’altra faccia di questa visione: a cominciare dal fatto che oggi “un uomo che si chiama Barack Hussein Obama sia presidente degli Stati Uniti”. Ma le citazioni sono state anche più dense. Il richiamo alla libertà religiosa, al fatto che non c’è un solo Stato negli Usa dove non ci sia una moschea (e ve ne siano 1200 in totale), la libertà delle donne musulmane di portare l’hijab garantita dal governo Usa fin nelle corti (due riferimenti che varrebbe la pena di meditare in Europa), fino all’episodio toccante del primo musulmano-americano eletto al Congresso nell’ultima tornata elettorale che ha giurato sul Corano che faceva parte della biblioteca personale di Thomas Jefferson. Corde giuste, per rivolgersi ai musulmani. Che hanno tuttavia mostrato di applaudire anche temi più delicati e problematici: dai riferimenti alla libertà di vestiario e di istruzione delle donne, all’applauso venuto dopo i riferimenti alle vittime della discriminazione religiosa in Bosnia e Darfur.

Sulla questione israelo-palestinese, l’equidistanza, ferma nel difendere i diritti degli uni e degli altri, e altrettanto nel definire l’amicizia con Israele ‘unbreakable’ e quindi fuori discussione, ha dato la linea. Con fermezza, tuttavia, sui punti delicati del riconoscimento reciproco, del no alla violenza, dell’orizzonte dei due stati che possano vivere entrambi in pace e sicurezza.

Nessun tentennamento sulla violenza religiosa. Quella di Al-Qaeda, innanzitutto, di cui ha avuto l’intelligenza di ricordare che le sue prime vittime, non solo sul piano politico ma anche concretamente su quello dei numeri della morte, sono stati i musulmani. Ma più in generale della fanatismo e del fondamentalismo: in quel contesto, proprio per come l’ha costruito, Obama ha potuto permettersi il lusso di stigmatizzare il fatto che “alcuni musulmani hanno la fastidiosa tendenza (disturbing tendency) di misurare la propria fede sulla base del rifiuto di quella altrui”.

“A new beginning”, quindi, quello prospettato. La fine, davvero, del paradigma del “clash of civilizations” – di fabbricazione americana ma di utilizzo globale – che ha dominato l’ultimo quindicennio, e che Obama ha esplicitamente contestato: per il suo essere, chiosiamo, più una profezia che si autorealizza che una constatazione empirica. Un nuovo inizio in cui si dica basta agli stereotipi reciproci: quelli occidentali sull’islam e quelli musulmani sull’America e l’occidente. In cui si metta da parte la paura e la sfiducia costruita per anni. Fino allo slancio finale: profetico, davvero. “E’ più facile iniziare delle guerre che finirle. E’ più facile parlare male degli altri che guardare dentro di sé; guardare quello che ci differenzia rispetto alle cose che abbiamo in comune. C’è una sola regola che sta nel cuore di ogni religione – che facciamo agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi”: che, per lo stupore di molti, è anche una citazione coranica, oltre che biblica, accolta da applausi convinti.

In crescendo, Obama ha anche proposto una parafrasi del suo fortunato slogan, “Yes, we can”: “Abbiamo il potere di costruire il mondo che vogliamo”. Fino alle tre citazioni finali dal Corano, dal Talmud e dalla Bibbia; quest’ultima, forse con qualche accento autobiografico, era “Beati i costruttori di pace…”. Fino al saluto islamico del cristiano ‘laico’ Obama: “Thank you. And may God’s peace be upon you”

Stefano Allievi

“Il Manifesto”, 5 giugno 2009, p. 3

Una possibilità per i radicali

Con la nuova campagna di visibilità dei radicali, il cui ultimo episodio, dopo alcune presenze tv di Marco Pannella, è l’occupazione simbolica degli studi della Rai da parte di Emma Bonino, tornano in scena le elezioni europee, e un partito che veniva dato per spacciato. E così, dopo settimane di occultamento della questione europea, surclassata dal gossip su ‘papi’ e dall’onnipresente politica interna, si torna a parlare un po’ di Europa.

Le candidature ne sono la cartina di tornasole.

A destra la denuncia del “ciarpame” l’aveva anticipata Veronica Lario. Ma un po’ di personaggi dello spettacolo sono rimasti a far da vetrina, eredi dei “nani e ballerine”: folgorante espressione coniata da Rino Formica ai tempi dei primi scintillanti congressi del Psi di Craxi. La denuncia più forte tuttavia viene da chi, come Jas Gawronski, all’Europarlamento ci è stato seriamente, come rappresentante della destra, ma ha deciso di non ripresentarsi, lanciando un pesante atto d’accusa contro gli eurofannulloni che “non seguono, non lavorano, e talvolta danneggiano l’immagine dell’Italia” – non solo inutili, quindi, ma controproducenti.

Italiani primi per assenteismo, in Europa, dicono impietosamente le statistiche: e i peggiori in classifica sono proprio alcuni eurodeputati della destra. Che avrà come capolista Silvio Berlusconi, l’unico primo ministro europeo a candidarsi, e l’unico che certamente a Strasburgo non ci andrà mai. Ma poco presente è stata anche la Lega, che del resto si definisce euroscettica, e che quindi come altri ha usato Strasburgo come un lussuoso parcheggio: dove si va poco, si fa poco, e da cui si torna indietro volentieri. Una parentesi dorata, più che un’opportunità politica.

A sinistra è stato l’autogol dei capilista paracadutati da Roma ad allontanare molti elettori, soprattutto del PD. Ed ecco quindi che torna, a seguito dell’iniziativa radicale, il fantasma del voto disgiunto.

La lista Bonino Pannella potrebbe infatti catalizzare l’interesse di elettori che, a livello locale, si schierano sia con la destra, premiando l’anima liberista dei radicali, sia con la sinistra. L’attivismo europeo dei radicali è noto, e i loro deputati sono tra quelli non solo più presenti, ma più attivi con relazioni, interpellanze, mozioni, convegni, missioni e altro. Tanto che, a detta ancora di Gawronski, l’eurodeputato italiano più noto sarebbe proprio Pannella. Mentre Emma Bonino può vantare una credibilità invidiabile in Europa, dove è stata tra i Commissari europei più seri e influenti, e tuttora è una voce molto ascoltata sulle tematiche comunitarie: più al di là delle Alpi che in patria, per la verità. Oggi la Bonino, che altrove avrebbe certamente un seggio garantito, si ritrova a combattere contro il rischio sparizione, effetto dello sbarramento al 4% e degli opposti rifiuti del PD da un lato e delle liste di sinistra dall’altro.

Ma il ‘divorzio consensuale’ con i radicali di cui ha parlato Franceschini, che è stato piuttosto una separazione unilaterale, rischia di rivelarsi un boomerang, se dovesse prevalere l’appello radicale, più che al voto utile, al voto competente e impegnato. Il richiamo del voto disgiunto – PD alle amministrative e radicale alle europee (con magari l’aggiunta di qualche elettore del PDL per gli stessi motivi di stima) – potrebbe avere un qualche margine di seduzione, anche viste le facce non proprio europeisticamente interessantissime delle rispettive liste, pur con qualche eccezione. Ciò che consentirebbe forse di sopravvivere alla presenza italiana storicamente più europeista.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 4 giugno 2009, p. 1-5

Attacco alla giunta usando la moschea

La moschea in via Longhin non si fa. Ma il referendum contro sì. Curioso e un po’ ridicolo paradosso: molto rumore per nulla.

E’ vero che in campagna elettorale ogni scusa è buona per colpire l’avversario. Ma qui il gioco è di sponda: prendersela con la suocera perché la moglie intenda. Ovvero: prendersela con i musulmani per colpire la giunta in carica. E il consenso anti-islamico è facile da organizzare: un patrimonio a disposizione, che aspetta solo qualche apprendista stregone per essere messo in circolazione.

Non è, questa, una prerogativa solo italiana. Conflitti sulle moschee ce ne sono stati in molti Paesi, con dinamiche analoghe. La differenza è che altrove, di solito, le amministrazioni e le forze politiche importanti, anche di segno differente, cercano di risolverli, i conflitti, invece di alimentarli: lasciando il lavoro sporco a partiti di opposizione e fuori dal quadro della presentabilità democratica, come il Front National, il British National Party, il Vlaams Belang, o gruppuscoli francamente neo-nazi. Le eccezioni – transitorie – sono state i partiti di Pym Fortuyn e Jörg Haider, entrambi ammirati anche in Italia. Non per caso, visto che da noi c’è l’unico imprenditore politico dell’islamofobia che sta al governo di un Paese, e non solo di una regione o di una città.

Torniamo, per un’ultima volta, sul tema evocato dal referendum: l’intervento del Comune. Che a Padova non ci sarà, perché i musulmani hanno finito per fare da sé. In termini di principio, è un problema reale. La non ingerenza dello stato sarebbe probabilmente la soluzione più auspicabile. Ma non è nei desideri nemmeno della confessione maggioritaria, e infatti non si pratica. Quanto all’islam, nella maggior parte degli altri Paesi ce ne si occupa eccome, per iniziativa di governi locali di destra come di sinistra, e spesso contraddicendo gli evocati principi di neutralità e di laicità. Incluso nel collaborare con le comunità musulmane per trovare loro una collocazione adeguata anche su suolo comunale. E, questo, non nella difesa di un interesse particolare, ma nella ricerca di quel bene comune che è il migliorare le relazioni e l’evitare conflitti tra le diverse componenti della popolazione: più o meno il contrario dell’effetto che hanno ottenuto gli oppositori del progetto moschea. Dunque non è per difendere un principio, che i referendari di Padova sono andati in piazza, ma per indicare un bersaglio. Facile, peraltro. E dispiace che la destra che non è d’accordo, che c’è e in passato si è anche espressa, non si sia più fatta sentire. Avrebbe mostrato che non c’è affatto, ed è un bene, un’omogeneità culturale e politica, su questi delicati argomenti. Le divisioni sono anche interne agli schieramenti, non solo tra di loro.

Qualcuno però un giorno dovrà ricordare che questo clima non solo non favorisce l’integrazione da tutti auspicata, ma anzi contribuisce a creare muri di risentimento da ambo le parti. E da essi può nascere anche altro. Si comincia con la raccolta di firme di cittadini. Si continua con gli insulti e le scritte offensive. Si va avanti con l’ostruzionismo burocratico e l’applicazione selettiva delle leggi: impedimenti alla costruzione di luoghi di culto, o loro chiusura, ma solo se islamici. Si prosegue con le mangiate ostentatorie di porchetta e di salsicce, e le passeggiate con maialino al seguito. Si finisce qualche volta con le molotov e gli incendi dolosi. E, dall’altra parte, il rischio è quello della reazione, anche violenta: che comincia con quella verbale, e non si sa dove va a finire. Anche molto male, come avvenuto in Olanda con l’assassinio di Theo van Gogh.

A Padova ci si è fermati al maialino, assurto a discutibile simbolo identitario (a questo assomigliamo?) e icona della protesta anti-islamica. E dall’altra parte ci si è armati solo di pazienza. Non c’è motivo di pensare che si debba andare oltre. Si può sperare invece che passate le elezioni, e gabbato lo santo, si torni alla pacatezza e alla ragionevolezza. E si parli di cose da fare, anziché da ostacolare, e di come migliorare questa nostra città: anche per quanto riguarda il rapporto tra popolazioni, culture e religioni diverse. Che i candidati sindaci ci dicano, per favore, qualcosa anche su questo: e non battute, ma ragionamenti.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 27 maggio 2009, p. 1-16

Classe politica da rottamare

Le procedure per la formazione delle candidature alle amministrative ci pongono di fronte a un antico dilemma: meglio l’esperienza o l’innovazione? All’interno di quale progetto di città?

La tendenza di tutte le burocrazie, di cui il ceto politico è parte, è quella all’autoriproduzione. Con i danni connessi. Non a caso il ricambio è evocato spesso come una soluzione di per sé: anche se non sempre lo è, o non basta. Se non c’è un progetto, soprattutto.

Il caso padovano mostra bene questo dilemma. Da nessuna delle due parti – ma nemmeno al di fuori del mondo politico, a onor del vero – si vedono le tracce di un progetto alto e innovatore di città. Occorre quindi un sapiente mix. E’ bene che ci siano dei leader di esperienza. Ma è bene che ci siano spazi per il cambiamento e la sperimentazione: dove la futura leadership possa imparare il mestiere e prepararsi a scalzare la precedente.

Il leader della coalizione di maggioranza, che si ripresenta per la riconferma, non è certo di primo pelo. Può giocare la carta del governo, della continuità e dell’esperienza, appunto: l’avere un’idea della città. Non però quella dell’innovazione, del progetto alternativo. Il solo modo per dare un segnale di cambiamento è quello di costruire intorno a sé una squadra che rinnovata e ringiovanita lo sia, e alla radice. Pena pagare lo scotto – se non questa volta, la prossima; se non con questo leader, con il prossimo – di dare un’idea di continuismo, di regime.

Per quanto riguarda l’opposizione, siamo ancora in attesa, ma il dilemma è analogo, magari a ruoli invertiti: leader innovativo o volto vecchio della politica? E la squadra? Anche se per ora la mancanza stessa di un leader, atteso da decisioni altrui e non locali, e all’ultimo minuto, la dice lunga, a monte, sull’esistenza stessa di un progetto, di un’idea della città.

Come si attua il ricambio? Attuandolo, semplicemente. Quanti nomi nuovi ci saranno, in lista? Quante donne in più? Quanti giovani in più? Quanti nuovi attori che provengono da aree di impegno in cui hanno operato bene? E, soprattutto, quante persone con almeno due mandati alle spalle in meno? Sarà facile, a questo punto, calcolare il tasso di ricambio.

In questo processo è fondamentale la capacità di proposta e di controllo della società civile. Esprimendo nomi nuovi e all’altezza. E usando l’arma della preferenza per premiarli. Un tasso adeguato di rinnovamento fa paura soprattutto a chi sarebbe parte di ciò che si cambia. Bisogna avere il coraggio di dirlo. E di premiare il cambiamento, anziché la sua paura. Perché è un indicatore di qualità di per sé importante. Il rinnovamento della classe dirigente, affinché sia all’altezza delle sfide del futuro, e non solo di quelle del passato, è un interesse collettivo, pubblico.

Si comincia a capire che ciò che è usurato spesso consuma troppo, inquina, implode… Si rottamano auto, elettrodomestici, case, trattori. Perché non pensare che forse è un valore aggiunto anche in politica? Perché non rottamare quelli che ci sono già stati a lungo senza troppo brillare? Due mandati sono poi così pochi? Dieci anni: spesso più della durata di molti matrimoni… Non è abbastanza per un’esperienza politica? Perché non immaginare un premio all’innovazione? Un rimborso elettorale basato sul ricambio? Un contributo di rottamazione? Anche quando la direzione è giusta, può essere utile cambiare una parte della squadra di comando. Per intraprendere strade prima non immaginate o non prese in considerazione. Per riuscire a vedere il nuovo che avanza e non si è abituati a vedere.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 22 aprile 2009, p. 1-13