Migranti: due destre a confronto in Veneto. Tra Mantovan e Vannacci

Sulle pagine del Corriere del Veneto comparivano ieri due voci che mostrano plasticamente le differenze tra due destre, alleate al governo della regione, ma distanti come non mai nell’affrontare un tema fondamentale: quello dell’immigrazione.

Da un lato l’assessore competente Valeria Mantovan, dall’altro il muscolare ex-generale Vannacci. Di fronte alla notizia di una scuola elementare a Mestre in cui la maggioranza dei nuovi iscritti ha un cognome straniero, Vannacci tira fuori il suo abituale repertorio. Lui non propone: contrappone. Non cerca soluzioni: condanna. E basta. Puntando anche su presunti costi economici: “L’integrazione al contrario. Così noi [dove ‘noi’ non include gli immigrati regolarmente residenti nel nostro paese, naturalmente] siamo costretti a pagare due volte: con le nostre tasse paghiamo agli STRANIERI scuola, sanità, alloggi popolari, bonus sussidi e poi paghiamo una seconda volta per la scuola privata dei nostri figli (…). Finiremo per diventare stranieri nella nostra patria”. Poco importa che quanto Vannacci descrive sia un’opinione infondata, per quanto popolare. Perché molti stranieri sono in realtà diventati cittadini, con i relativi diritti. Perché pagano le tasse, e quindi i servizi se li pagano da sé. Anzi, come certifica l’INPS, piaccia o meno, a differenza degli italiani versano più di quanto incassano. E quanto a pressione fiscale, nonostante i salari mediamente più bassi, versano percentualmente più di molte categorie autoctone, dato che prevale il lavoro salariato. Che laddove è irregolare, per lo più lo è per volontà di datori di lavoro italiani che evadono più dei loro dipendenti stranieri. Infine, perché la scuola privata è una scelta, non un obbligo: e quindi è giusto che chi la vuole se la paghi.

Mantovan invece prende atto che questa situazione “è il frutto dell’andamento demografico. Le famiglie italiane fanno meno figli. Ma c’è un altro elemento importante: la forte integrazione nel nostro territorio. Le famiglie straniere vivono, lavorano, crescono i loro figli qui. È un fenomeno naturale”. E ancora: “La scuola è il luogo dell’integrazione (…) Dobbiamo porre attenzione su un approccio didattico diverso, specifico e potenziato per fornire ai docenti strumenti nuovi”. Anche “per le famiglie, non solo per i bambini”. Quindi “non si entra a gamba tesa, su questi temi”. Ed “è inutile fare polemiche, il fenomeno è irreversibile”.

Non è difficile trovare le differenze. Ideologia e slogan di opposizione (pur non essendoci) da una parte, pragmatismo di governo dall’altra. Ma ci sono anche altre ragioni, più politiche: un leghismo sempre più schiacciato su un suprematismo che punta sul capro espiatorio immigrato, e una destra che invece recupera la sua radice storica, che era sociale (dal Movimento sociale italiano in avanti: anche se non siamo sicuri che il predecessore di Mantovan, Donazzan, avrebbe usato gli stessi toni pacati e gli stessi argomenti). Ma c’è dell’altro, anche. Un dato generazionale: Mantovan ha 35 anni, Vannacci quasi 60. E infine uno esperienziale: Mantovan è nata in una famiglia mista, la madre era egiziana. Conosce le dinamiche dall’interno. E questo fa tutta la differenza del mondo.

 

Mantovan, Vannacci e l’immigrazione. Trova le differenze, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 settembre 2025, editoriale, pp. 1-9

 

Governi e società civile di fronte a Gaza. Tra Riviera e Flotilla, l’importanza dei simboli

Gaza è entrata a far parte del nostro orizzonte e del nostro immaginario, piaccia o meno. Ci unisce nell’attenzione. E ci divide nelle posizioni che prendiamo. Non ci divide solo politicamente, e per così dire orizzontalmente: destra e sinistra, filo-Israele o pro-Palestina. Ci divide anche verticalmente: alto e basso, governi e società civile.

La politica è divisa, come ovvio. Si schiera con gli uni o con gli altri, o più precisamente contro gli uni o contro gli altri: dimenticando che potrebbe stare con l’uno e con l’altro quando sono nel giusto, contro l’uno e l’altro quando non lo sono, ma dovrebbe innanzitutto stare con le vittime (tutte), gli innocenti, i violentati, i massacrati, i deportati, gli affamati, i perdenti e i perduti, ovunque siano. Complessivamente, tuttavia, appare inattiva, inefficace, incapace. Anche quando prende (finalmente e tardivamente) posizione, e comincia a riconoscere i torti dell’aggressore, smettendo di fare distinguo insostenibili tra morti e morti, tra bambini e bambini, lo fa timidamente, con parole insopportabilmente neutre, con diplomatica cautela, con perbenistica condiscendenza, evitando di dire pane al pane, di nominare ciò che accade con il suo nome, per evitare parole sgradevoli. Pochi, pochissimi, se hanno potere, hanno anche il coraggio di dire che Israele, con questa guerra, è andato oltre tutti i limiti possibili e immaginabili dell’orrore, che le sue azioni non hanno più giustificazioni, essendo la sua reazione (ammesso e non concesso che sia solo una reazione al 7 ottobre) incommensurabile. Che pagherà esso stesso un prezzo immenso, avendo in buona misura già dilapidato un credito enorme: di reputazione, di simpatia, di consenso, di dignità morale. La parte peggiore della politica e del potere occidentale (perché, sì, è l’Occidente che si è autoisolato nel sostegno incondizionato – o ancora troppo poco condizionato – a Israele) fa anche di peggio, immaginando una oscena Riviera di speculazioni immobiliari e finanziarie miliardarie su una terra rubata ad altri con la forza, deportando intere popolazioni.

Ecco allora che la società civile, di fronte a uno spettacolo indecoroso e inguardabile, reagisce: la Global Sumud Flotilla è parte, solo una parte, di questa reazione globale e diffusa, insieme a manifestazioni di solidarietà, controinformazione, richieste di boicottaggio, o semplicemente di uscita dal silenzio e dall’indifferenza. Sì, certo, c’è un elemento spesso ideologico e non solo umanitario, in questa azione. Sì, certo, c’è un’attenzione geopolitica selettiva (“e allora il Sud Sudan, dove è in corso un genocidio anche peggiore?”, si dice: come se chi lo dice, invece, se ne interessasse…). Sì, certo, c’è anche una quota di partigianeria politica, più interessata allo schieramento che al merito. Sì, certo, c’è anche tanta ingenuità. E sì, certo, ci sarà anche un po’ di protagonismo in favore di telecamere. Ma è la prima e unica iniziativa veramente transnazionale (quasi cinquanta i paesi coinvolti), e con una valenza simbolica forte, che si è vista, in quasi due anni: i governi non hanno saputo fare di meglio – e la vita collettiva ha invece bisogno anche di simboli, di emozioni, di spinte valoriali incarnate. È, anche, una iniziativa dal basso, che nasce da un impegno diffuso, ramificato, diversificato nelle sue motivazioni (politiche, religiose, umanitarie): che coinvolge enti locali che sostengono ufficialmente l’iniziativa, prese di posizione di sindacati dei lavoratori (con minacce di chiudere i porti in caso di blocco della missione) e, lo vedremo con l’inizio dell’anno scolastico e accademico, mobilitazioni di studenti. Con gente che è disposta a correre dei rischi, e a pagare un prezzo personale (cosa che non si può dire dei governanti del mondo). E, soprattutto, è qualcosa di reale: c’è, esiste, è in campo. Mentre la cautela intollerabile della realpolitik finora non ha prodotto nulla di concreto: anzi, con la sua sostanziale ignavia ha consentito il proseguimento e addirittura l’aumento di intensità del massacro.

Ancora una volta, sono le generazioni più giovani che ci mandano un segnale. Sta a noi coglierlo, o meglio accoglierlo, o rifiutarlo con supponenza e degnazione: dall’alto (o dal basso) del nostro cinismo, della nostra pigrizia anche intellettuale, della nostra incapacità di immaginare un’azione, e un pensiero che la supporti. Come se la cosa non ci riguardasse. Non è così. Ce ne accorgeremo presto.

 

L’orrore oltre i limiti. La tragedia di Gaza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2025, editoriale, pp. 1-5

A malinquorum. Qualche riflessione post-referendum

Salvo i dettagli su numeri esatti e percentuali, il referendum è finito come tutti sapevano che sarebbe finito: con il mancato raggiungimento del quorum, e la non vittoria dei sì, maggioritari tra i voti espressi ma insufficienti e dunque, in definitiva, inutili.
A questo punto qualche riflessione è d’obbligo. Sull’utilizzo del referendum, per cominciare. In un paese in cui la politica non decide nulla, nemmeno (men che meno) sui grandi principi e le battaglie valoriali – si pensi ai diritti civili, alle coppie omogenitoriali e al riconoscimento dei loro figli, al principio di autodeterminazione e al fine vita, e tante altre questioni pure sentite e discusse – è inevitabile che si debba attendere la supplenza della magistratura, o appunto i referendum. Detto questo, il suo uso è spesso più tattico – politico nel senso di politicante – che di principio. L’abbiamo visto anche in questa tornata referendaria. Se il referendum sulla cittadinanza aveva valore di battaglia civile – di allargamento, molto concreto e sostanziale, della sfera dei diritti – gli altri sono sembrati a molti più una resa di conti interna a un campo (in questo caso, al mondo della sinistra, dove alcuni erano chiamati a votare contro norme che avevano approvato in passato): un tentativo, legittimo ma obliquo, di far pesare leadership e organizzazioni in funzione di indirizzo politico e egemonia ideologica su un’area politico-elettorale. E il fatto che quattro quesiti su cinque fossero di questo tenore, e per giunta su aspetti molto tecnici e in qualche caso opinabili nelle loro conseguenze, ha di fatto oscurato e marginalizzato – e quindi danneggiato – la discussione sull’unico che aveva un vero valore civile. E forse è il momento che i promotori di referendum comincino a ragionare sugli effetti che ha il non vincerli. La situazione non rimane uguale a prima: è un sostanziale e sostanzioso passo indietro, che finisce per legittimare e rinvigorire i conservatorismi anziché le spinte innovative.
Un gigantesco interrogativo pesa anche sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.
Infine, una riflessione seria va fatta sulle forme stesse dell’esercizio del voto. Ma è mai possibile che nel 2025 non si sia ancora capaci di formulare dei quesiti che facciano riferimento al contenuto di ciò per cui si vota, anziché a formule giuridiche esoteriche, incomprensibili anche a un plurilaureato? È anche così che si uccide la democrazia, insieme ai timbrini sul certificato elettorale cartaceo (ma perché non basta la carta d’identità?) e alle matite copiative, e altri ridicoli rituali burocratici senza alcun senso della realtà e della storia, impensabili e persino indecenti in epoca di intelligenza artificiale. E la responsabilità è di tutti, destra sinistra e centro. Ma è mai possibile che non si sia capaci di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.

Senza quorum?, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 giugno 2025, editoriale, pp. 1-2

I referendum non sono tutti uguali. Perché quello sulla cittadinanza è il più importante.

Il referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché

di Stefano Allievi

https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/politica/25_giugno_06/il-referendum-piu-importante-e-quello-sulla-cittadinanza-vi-spiego-perche-b2ca57b1-e0ee-4a7b-aa7e-70570f470xlk.shtml

Non tutti i referendum sono uguali. Non tutti hanno lo stesso valore e lo stesso peso. E questo a prescindere dalle convinzioni di ciascuno di noi.
I cinque referendum per cui siamo chiamati a votare sono tra loro molto eterogenei, e questo rischia di avere effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi sono sul tema del lavoro, e hanno a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Uno invece si occupa di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccano aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni che abbiamo): ma non trasformano la conformazione della società in maniera radicale. Quello sulla cittadinanza, invece, per vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si salda con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale.

I testi

I testi dei quesiti sono tutti e cinque incomprensibili. E sarebbe il caso di predisporre una modifica delle norme che vincolano a una stesura meramente burocratico-formale dei quesiti (volete voi l’abolizione dell’art X della legge Y?) per favorire una scrittura dei testi basata sulla comprensibilità dei contenuti (altrimenti, come stupirsi di una sempre più scarsa partecipazione a ciò che viene impedito di capire?). Ma se i quesiti sul lavoro toccano più marginalmente la vita delle persone, quello sulla cittadinanza decide sul “diritto ad avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt. Di un’idea di società, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decide chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomiglia più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.

La cittadinanza

Cosa chiede questo referendum? Di far scendere gli anni di residenza necessari per poter avanzare la domanda di cittadinanza. È il modo migliore per arrivare a una nuova normativa? No, evidentemente. Il tema avrebbe meritato un’ampia discussione parlamentare, che avrebbe fatto salire anche la consapevolezza del paese sul tema. Ma la politica non ha voluto farla: come su tutte le questioni importanti ma divisive (e tutte le questioni importanti lo sono) preferisce abdicare al suo compito. Motivo per cui, come sulle tematiche assai sentite dei diritti civili, tocca aspettare le sentenze della Corte Costituzionale. O, appunto, i referendum.
I promotori del referendum, avendo solo la possibilità di abrogare qualcosa (la normativa italiana non contempla il referendum propositivo), hanno scelto una strada semplice: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ridurre i tempi, portando gli anni necessari per poter fare domanda da dieci a cinque (come in Germania, in passato il paese europeo con lo ius sanguinis più rigoroso, ma anche Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo, mentre in Austria e Finlandia sono sei). Il problema è che in Italia non sono reali: lo stato si prende ufficialmente tre anni di tempo per rispondere, ma spesso sono di più (senza conseguenze: nessuno fa causa a uno stato che può decidere se siamo suoi membri), e quindi si arriva quasi ai dieci sostanziali (quindici, oggi).

Le conseguenze

La riduzione dei tempi non tocca solo chi può presentare la domanda (molti non lo faranno comunque, per disinteresse, o perché cittadini di paesi che non contemplano la doppia cittadinanza). L’acquisizione della cittadinanza dei genitori andrebbe a ricadere automaticamente sui figli minori (sono esclusi quindi i minori stranieri non accompagnati), intervenendo quindi sul mai approvato ius scholae: una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (in realtà meno, per i motivi detti prima), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione frequenta le nostre scuole insieme ai nostri figli. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro compagni considerano loro pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono di origine straniera. Ma a cui sono negati i diritti che hanno i nostri figli. E a cui restituiamo ogni giorno, per questo solo fatto, un messaggio di esclusione, di rifiuto. Un messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile considerarlo un incentivo all’integrazione. E quindi un vantaggio per noi, autoctoni.

Il referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 giugno 2025

L’opposizione (e la leadership) che non c’è. La risposta di Alessandra Moretti

Ho scritto alcune centinaia di editoriali su, pro o contro qualcuno o qualcosa (quasi cinquecento, solo per il “Corriere del Veneto”). Possono piacere o meno, essere condivisi o meno, ma sono analisi e opinioni. Anche quando riguardano la politica. Spesso il tema più caldo: non per i lettori, ma per coloro di cui si parla.

Ho scritto parecchi editoriali critici – come è dovere della stampa fare – sul presidente della regione, su qualche iniziativa della giunta, su altri membri della medesima, su leggi regionali che non condividevo, sui partiti della maggioranza. I media sono o dovrebbero essere delle specie di guardiani della democrazia (quando non sono – e purtroppo spesso sono – dei meri megafoni del potere). Mai il presidente della regione ha risposto (l’ha fatto, un paio di volte, l’assessore Donazzan, un’altra che non gradisce le critiche). Così come ne ho scritti di apprezzamento, quando è stato il caso: come pure è giusto fare.

Ieri ho scritto un editoriale molto critico sull’inesistenza di una leadership dell’opposizione, e sull’opposizione stessa (lo trovate qui). Raramente ho ricevuto così tante reazioni positive, in privato (messaggi su whatsapp, mail, telefonate): anche, direi soprattutto, dall’interno del principale partito di opposizione, di cui mi occupavo nel testo, e in generale da persone che all’opposizione si ritrovano, ma ne vorrebbero una diversa. Ho ricevuto anche educate ulteriori informazioni, da parte di chi ha voluto correttamente puntualizzare, senza polemica, alcune mie osservazioni. E poi ho ricevuto la lettera che trovate di seguito, che il mio giornale ha correttamente pubblicato, e che – dopo averne parlato con il direttore – abbiamo lasciato concordemente senza risposta. E’ uno sfogo, e come tale va preso. Di cui è interessante il tono complessivo di vittimismo, di autogiustificazione, e anche di sindrome da lesa maestà: come se criticare non si potesse. Come ha sintetizzato un amico, influente opinion leader, dopo aver letto questa risposta, “Questo è il problema: invece di parlare con la gente, scrivono a chi scrive di loro… soprattutto non rispondono a quelli del loro stesso partito che dietro le quinte ne dicono peste e corna”. Forse è precisamente uno dei motivi per cui l’opposizione non riesce a farsi ascoltare.

Io apprezzo questa risposta: anzi, farei volentieri un dibattito pubblico sul tema, anche con la diretta interessata. Non mi turba per nulla: amo il dibattito, che è il sale della democrazia, e come ho detto ieri al mio direttore, considero sacrosanto il diritto di replica. Non è questo, dunque, il problema. Il problema è la distanza siderale dalla realtà che da questa risposta traspare. Il non voler prendere atto che se il consenso non si aggrega, se l’informazione su ciò che si fa non passa, forse la responsabilità è dell’emittente, non del ricevente, o dell’osservatore.

Nel merito. Il Partito Democratico può fare quello che vuole, magari anche molto di bellissimo, in consiglio regionale. Se, fuori, non se ne accorge quasi nessuno, se la pubblica opinione non ne è consapevole, qualche domanda sull’efficacia del lavoro fatto (o almeno sulla capacità di comunicarlo, che è comunque parte del fare politica) me la porrei.

Capisco il sacrificio di Moretti, che ha rinunciato al seggio europeo per quello regionale, comunque sicuro, in quanto candidata presidente dell’opposizione. Diciamo che il paracadute ai più non sembrerebbe così sacrificante, punitivo e svantaggioso.

Sui supposti omaggi di chi scrive al governatore, invito semplicemente a digitare il nome di Luca Zaia sul motore di ricerca del mio sito, e vedere cosa salta fuori. E anche sul mio supposto maschilismo, o antifemminismo, che rinvio alla mittente: sia per quanto scritto in tanti anni sulla condizione femminile, sia per le tante critiche a personaggi di sesso maschile che non mi sono mai risparmiato (anche in questo stesso editoriale, peraltro). Temo sia fuori rotta.

Non commento sulla “chiara visione di quello che dovrà essere il Veneto del futuro” che ha il PD (visione che naturalmente auspico): diciamo che credo che, se fosse così evidente, qualche elettore di più se ne sarebbe accorto.

Infine. Io non denigro la politica. Dopo aver criticato molto più frequentemente, come giusto, chi governa, ho espresso qualche critica anche a chi vorrebbe governare al suo posto. E la distinzione finale tra la “pancia degli elettori” e i “nostri elettori” temo mostri, più che altro, la distanza siderale tra alcuni eletti e i potenziali elettori: che, tutti, sono dotati sia di pancia che di testa.

“Caro direttore,

le scrivo dopo aver letto l’editoriale di Stefano Allievi pubblicato ieri sul vostro Giornale, un articolo a mio avviso caratterizzato da “debolezza strutturale”, per usare le parole dello stesso Allievi nei confronti del Partito democratico.

Il vostro giornalista infatti tende etichettare “evanescente” ogni esponente dell’opposizione a Zaia degli ultimi anni, senza verificare cosa si sia invece portato a termine. Mi sarei aspettata una verifica dei fatti più accurata.

Ho letto giudizi superficiali sul lavoro dell’opposizione in consiglio regionale, quando invece il Partito democratico, guidato da Vanessa Camani, incalza quotidianamente la Giunta di centro destra su temi come sanità, trasporto pubblico locale, emergenza abitativa e gli effetti devastanti del cambiamento climatico.

Anche fuori dal Consiglio regionale ci sono colleghi del Partito democratico, per nulla evanescenti, che portano avanti gli interessi del territorio e dei cittadini a livello nazionale ed europeo. Tra questi ci sono anche io, che non sono stata “mandata” in Europa, come scritto da Allievi, ma ho raccolto la fiducia di 83mila persone nelle ultime elezioni europee del 2024, che restano una delle sfide elettorali più difficili e competitive.

Ma aggiungo: quando nel 2015 mi è stato chiesto, dall’allora Presidente del Consiglio Renzi, di candidarmi in Veneto contro Luca Zaia, mi sono dimessa dal Parlamento europeo prima ancora di sapere i risultati della competizione che poi ha visto il PD attestarsi al 22.74% (senza il Movimento Cinque stelle che, con Berti, prese l’11,88%).

Sono rimasta in consiglio regionale per oltre per quattro anni, dove mi sono impegnata, tra le altre cose, contro la riforma della sanità voluta da Zaia, riforma che ha svuotato il servizio socio sanitario veneto. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Viene un po’ tristezza a leggere certi editoriali perché siamo ancora lì, al trito luogo comune che sa tanto di omaggio al potente governatore la cui leadership volge al termine ma il cui regno va mantenuto a tutti i costi, anche infangando il lavoro prezioso, per una democrazia sana, che fa l’opposizione e condendo il pezzo di imbarazzanti fake news. Le donne poi sono il bersaglio preferito: non sono mai stata un’assenteista, prova ne è il mio rating di presenza nelle aule parlamentari e nelle commissioni, come facilmente riscontrabile.

L’opposizione, in Veneto e in Europa, non è evanescente, infatti ogni giorno ci battiamo per fatti concreti: il reddito di libertà per le donne vittima di violenza; l’impegno per la ricerca scientifica e la medicina di genere; la lotta al cancro; la difesa delle nostre aziende contro i dazi americani; la qualità dell’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo; per le donne vittime di stupri di guerra; perché l’Europa guidi un processo di pace.

Per le prossime elezioni regionali, il partito democratico sta costruendo un’ampia coalizione che comprenderà anche forze civiche capaci di proporre ai veneti un programma alternativo agli ultimi trent’anni di centro destra. Il Pd ha una chiara visione di quello che dovrà essere il Veneto del futuro: capace di garantire un lavoro sicuro e dignitoso, di sostenere le imprese e di proteggere il territorio e la salute.

Denigrare la politica, non è mai una buona idea. Ben vengano le critiche costruttive e l’attento lavoro dei giornalisti che ne raccontano la cronaca, ma il facile populismo che parla solo alla pancia degli elettori e non ai nostri elettori non fa bene alla democrazia.

Alessandra Moretti”

Veneto: l’opposizione che non c’è

Anni fa, a un incontro informale con alcuni alti dirigenti del Partito Democratico, a domanda su cosa avrebbe potuto fare l’opposizione per vincere le elezioni in Veneto, un importante operatore culturale e fine osservatore delle vicende politiche regionali rispose: “Candidare Zaia”. Una battuta, certo. Che coglie l’importanza della figura di Luca Zaia come coagulo personale di un magma politico tutt’altro che omogeneo, che spazia tra una destra che in parte controlla e in parte lo controlla (mettendogli qualche bastone tra le ruote), e un mondo liberal che ha l’abilità di rappresentare, almeno sui temi etici e dei diritti civili (dei cittadini). Ma che coglie, soprattutto, l’assenza di alternative personali, e quel che è peggio politiche, al monocolore conservatore che ancora domina la regione, e ragionevolmente vincerà anche le prossime elezioni amministrative, seppure in un mare di astensionismo, il vero partito maggioritario, e anche la vera opposizione.

Questa peculiare, totale assenza di opposizione è la stupefacente caratteristica del centro-sinistra veneto. Eppure dovrebbe essere persino più facile. Poiché non hai alcuna possibilità reale di vincere, almeno nel breve periodo, tanto varrebbe farsi sentire, alzare la voce, dire qualcosa di sinistra purchessia, o semplicemente dire la qualunque, magari in maniera radicale, forte, provocatoria, tanto per farsi notare: questo per quel che riguarda la politica. Mentre per quel che riguarda la leadership sarebbe ragionevole aspettarsi di veder coltivare negli anni due o tre figure, magari dinamiche, magari giovani, capaci di emergere sopra l’invisibilità generale. Non è così, e lo si è visto in tutte le elezioni precedenti, in cui la principale forza di opposizione, il Partito Democratico, nelle sue varie incarnazioni, conscio dei propri limiti di leadership, ha sempre cercato un “papa straniero”, per lo più trovato all’ultimo momento, cui affidare il proprio destino. Un imprenditore, come nel caso di Massimo Carraro nel 2005 o di Giuseppe Bortolussi nel 2010, o addirittura il leader di una forza politica minore ma alleata, di fresca costituzione e incerta personalità, come nel caso di Arturo Lorenzoni nel 2020. Candidature che avevano in comune di non collegarsi strettamente alle forze politiche, di non creare continuità, e di non costituirsi nemmeno come leadership. Carraro, ex-vicepresidente di Confindustria Veneto, in precedenza eletto in Europa come indipendente per i Democratici di Sinistra, si dimise un anno dopo la sua elezione. Bortolussi, nella costernazione del PD, fin dal suo primo intervento come candidato mise in chiaro che non era iscritto a nessun partito, e si comportò di conseguenza dopo le elezioni, dedicandosi più alla sua creatura, la CGIA di Mestre, che alla crescita dell’opposizione. Lorenzoni, professore universitario prestato alla politica, è sparito quasi subito dai radar, non rappresentando l’opposizione, e nemmeno il movimento che l’aveva imposto come candidato presidente, passando al gruppo misto. In fondo non ha fatto eccezione nemmeno Alessandra Moretti, candidata presidente nel 2015 e lei sì esponente del principale partito di opposizione, la cui storia mostra eguale evanescenza in termini di leadership: entrata nel 2008 in consiglio comunale come capolista di una lista civica a Vicenza, portata a visibilità nazionale come giovane portavoce da Bersani nel 2012, eletta deputata nel 2013, mandata a Bruxelles come capolista alle elezioni europee nel 2014, candidata – saltando da un mandato all’altro – presidente regionale nel 2015, diventa capogruppo, ma è costretta a dimettersi dal ruolo per le frequenti assenze anche nelle cruciali sedute di discussione del bilancio, una volta dichiarandosi ammalata mentre dai social risultava in viaggio di piacere in India (verrà poi nuovamente mandata in Europa). L’ultimo politico vero (anche se atipico per interessi e verve) è stato insomma Massimo Cacciari nel 2000, un quarto di secolo fa: l’ultimo, anche, che mostrasse di avere un’idea e una visione del e sul Veneto.

Oggi la storia si ripete. A pochi mesi dalle elezioni il Partito Democratico non ha ancora un candidato, e non avendo figure forti all’interno è alla disperata ricerca di qualcuno che lo rappresenti, un giorno offrendo la candidatura alla biologa dell’università di Padova Antonella Viola (che ha rinunciato con un video sui social), un altro sondando l’ex-calciatore Aldo Serena (che ha ugualmente declinato), anche se nessuno sembra sapere chi li ha cercati, e a nome di chi. Con ciò mostrando che, se non si ha una politica, un’idea forte, una visione appunto, non si può avere neanche una leadership che la possa rappresentare, e la si cerca inutilmente altrove. Segno di una debolezza strutturale, e di un atteggiamento rinunciatario e privo di ambizione, se non già di una sconfitta quasi inconsapevolmente cercata.

 

Il centrosinistra veneto e l’assenza di opposizione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 aprile 2025, editoriale, pp. 1-7

Perché è giusto il no al terzo mandato

La storia della democrazia è la storia di una costante e progressiva limitazione dei poteri di chi governa: quello del monarca assoluto grazie ai parlamenti, la divisione tra potere legislativo esecutivo e giudiziario, fino ai limiti temporali nell’esercizio dei mandati. Un processo di continua ridefinizione di un equilibrio precario, imperfetto per definizione, soggetto a continue revisioni e a conflitti interni, tuttavia necessari per ripensare e anche ribadire il senso del processo stesso, la coerenza tra i suoi fini e i mezzi per raggiungerli.

Il limite dei mandati è uno degli oggetti del contendere. Chi esercita il potere vuole continuare a farlo: il senso della richiesta di aumento del numero dei mandati è tutto lì. Senza bisogno di giustificazioni alte, come quella della volontà popolare: che, non a caso, viene tirata in ballo per giustificare la rielezione, ma nessuno evocherebbe se si trattasse del livello delle retribuzioni dei politici, che la volontà popolare vorrebbe certamente diminuire. Né si prende in considerazione che questa supposta volontà popolare è espressa da un numero di elettori sempre più piccolo (una minoranza, tecnicamente, neanche tanto ampia), ciò che mette in crisi l’idea stessa di rappresentatività reale.

Quasi ovunque esistono limiti alla durata del potere, esecutivo in particolare: dalla presidenza degli Stati Uniti ai sindaci delle città dimensionalmente significative. Perché non anche parlamentari o consiglieri? In alcuni casi il limite c’è o è autoimposto, in altri sarebbe auspicabile, per favorire il ricambio: ma le situazioni sono imparagonabili. Chi governa ha un potere enormemente più ampio rispetto a chi rappresenta. Ed è nell’esecutivo che si annidano i maggiori rischi di creare consorterie, clientele, ‘scambi’ impropri, lavori per i soliti noti, forme di corruzione anche soft, servilismo cortigiano, autoperpetuazione, ma anche solo comportamenti abitudinari, che per definizione non sono mai innovativi (mentre il mondo cambia). E poi avere una scadenza obbliga i partiti a preparare la successione, il ricambio, il ringiovanimento anche di visione, mentre i leader, per quanto popolari, invecchiano e si irrigidiscono nella propria.

È fuorviante invece ricorrere a paralleli implausibili, come quelli con professioni ad alto tasso di tecnicità, e con funzioni completamente diverse, come i magistrati o i professori universitari (l’intento polemico è evidente, visto che la critica ai due mandati viene spesso, con argomenti diversi, da questi mondi). Il bersaglio è peraltro scelto male: i professori universitari, per citare la categoria cui appartengo (ma vale per molti altri), nei loro organismi rappresentativi – rettori e direttori di dipartimento, ma anche solo presidenti di corso di laurea – sono precisamente soggetti a un limite di mandati, e questo per scelta stessa delle università. Semmai sarebbe giusto ragionare non sull’abolizione ma sull’estensione del limite ad altri tipi di cariche rappresentative, anche di tipo privatistico (ancor più se finanziate con denaro pubblico): dalle rappresentanze sportive a quelle delle categorie professionali.

Luca Zaia è certamente un politico di successo. Gode, per suo merito, di un consenso elevatissimo, molto al di là del suo partito e della stessa coalizione che lo sostiene. Segno evidente di una straordinaria capacità di navigazione e intuizione politica. Proprio per questo mette malinconia che la fine del suo mandato coincida con la discussione sulla sua continuazione. Manda un segnale crepuscolare il fatto che chi già vent’anni fa era vice-presidente, e che se avesse ottenuto il quarto mandato da presidente sarebbe durato quanto il più noto e non democraticissimo ventennio, lasci coincidere la sua fine non con un messaggio alto di innovazione, ma con uno di pura conservazione, come ceto politico e anche personale. Lascia intravedere, anche se non è questa l’intenzione, che i politici si preoccupano soprattutto di sé stessi. Non proprio un invito alla partecipazione rivolto a un’opinione pubblica già disillusa di suo. Senza contare l’imbarazzante segnale di voler cambiare le regole del gioco a partita in corso: partita che si era iniziata conoscendone le regole di ingaggio.

Su una cosa tuttavia Zaia ha ragione. È scorretto che regioni a statuto speciale o province autonome possano fare differentemente, e alcune vadano senza vergogna in questa direzione. Ma dovrebbe, semmai, essere l’occasione per rimettere mano alle forme attuali della ‘specialità’, anch’esse storicamente superate e discutibili nelle modalità in cui si sono sviluppate.

 

Perché no al terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 15 aprile 2025, editoriale, pp. 1-7

Zaia e il terzo mandato. Perché non è una buona idea

Le ragioni e le disragioni del terzo mandato ai presidenti delle regioni sono state ampiamente discusse. Chi vuole abolire il limite, usa l’argomento del consenso: se il popolo vuole così, chi siamo noi per impedirglielo? Un modo superficiale e tendenzioso di intendere la democrazia: che non è una vaga espressione di volontà popolare, per come la interpreta il potente di turno (quello è il populismo: che può accontentarsi di distribuire qualche beneficio mirato, offrire un po’ di circenses, o trovare un qualche capro espiatorio, per mantenere il potere). Ma è fatta di cose scomode e indispensabili, come regole, bilanciamenti e controlli del potere. In cui il limite dei mandati gioca un ruolo eminente: non a caso è presente nei più diversi contesti. E non vale l’argomento che in altre cariche rappresentative, come parlamentari o consiglieri regionali, non c’è (anche se il fatto che se ne discuta, e che qualcuno saltuariamente lo applichi di sua sponte, fa emergere che il problema è sentito anche lì). Queste hanno un peso molto minore: il potere reale ce l’hanno le cariche istituzionali di governo. E il pericolo di periodi di governo troppo lunghi sta precisamente qui.
Il professionismo in politica ha i suoi vantaggi. E abbiamo visto in questi anni le catastrofi prodotte dai dilettanti allo sbaraglio: trovare un equilibrio non è semplice. Ma il continuismo produce concentrazioni di potere inamovibili, cerchie di cortigiani, incarichi ai soliti noti, consorterie, clientele, habitués, inerzie amministrative, rendite di posizione (dovute al fatto di esserci, non di fare), privilegi mai messi in discussione, scarsa circolazione di idee (bastano le routines), incapacità di produrre innovazione: indispensabile, dato che la società, invece, cambia. Prevale quella che Max Weber chiamava “l’autorità dell’eterno ieri”: si fa così perché si è sempre fatto così – e perché lo dice il capo, che è sempre lo stesso. È precisamente l’avere una scadenza che obbliga a mobilitare la società per rinnovare un consenso che altrimenti si erode, a formare nuove leadership o almeno a lasciare loro spazio, a elaborare idee, progetti, obiettivi, orizzonti, visioni: anche solo per evitare che il potere ce lo porti via qualcun altro, alleato o avversario. Il mero continuismo tutto questo non lo fa. E lo si è peraltro già visto: sempre le stesse persone, a fare le stesse cose, mai una scelta coraggiosa o un guizzo di originalità, in nome del principio (che non vale nemmeno nello sport, e ancora meno nell’impresa) che squadra che vince non si cambia. Le elite del potere del resto questo fanno, per mestiere: tendono a autoperpetuarsi, a procedere per cooptazione e non per sostituzione, a impedire ad altri (anche del proprio partito) di sottrarre loro il potere stesso, che corrisponde a rendite preziose, a evitare giudizi di merito e analisi critiche sul passato, e quindi l’emergere di alternative. Più lungo è il periodo di mantenimento del potere, e più il meccanismo si rafforza. E Zaia è presidente già da quindici anni: venti, se calcoliamo il periodo in cui è stato vice (salvo la breve parentesi da ministro). Se facesse anche il quarto mandato, il suo ‘regno’ durerebbe più del ventennio mussoliniano. Non un bellissimo segnale.
C’è una ragione ulteriore, tuttavia, per cambiare. La discussione sul terzo o quarto mandato è tristissima. Dal punto di vista della pubblica opinione, inguardabile. In un periodo storico di calo continuo della partecipazione al voto, e in cui alle prossime regionali si corre il concretissimo rischio che la quota di elettori scenda abbondantemente al di sotto della metà (ciò che mette in questione anche l’argomento stesso della volontà popolare), la discussione sul mantenere il potere in mano a una persona a dispetto di tutto, e anche a costo di cambiare le regole, manda ai cittadini un messaggio devastante: i politici si preoccupano solo di sé stessi, del proprio destino personale. La prova è che solo di questo si discute: non della situazione in cui viviamo, non dei problemi che toccano davvero la vita delle persone, non di dove vogliamo andare, quale progetto costruire, intorno a quali valori, ma solo con chi. Ed è un problema dell’intero ceto politico, maggioranza e opposizioni. Come si vuole che, in un paesaggio desolante come questo, poco coinvolgente nei contenuti, per nulla trascinante emotivamente, la partecipazione possa non diciamo risalire, ma almeno stabilizzarsi? Per cosa dovrebbe discutere, lottare e partecipare, un cittadino, un elettore, a maggior ragione un giovane: per il posto di qualcuno?

Il “popolo” e il terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-3

L’autonomia è finita. Per mancanza di autonomisti…

È un triangolo: il voto era europeo, il luogo il Veneto, ma le conseguenze nazionali. Che a loro volta influiranno sul destino del Veneto, in un complicato ma prevedibile effetto di feedback. Possiamo leggerlo così, il risultato che ci consegna la tornata elettorale per eleggere i parlamentari europei che spettano all’Italia.

La questione che principalmente balza all’occhio è il futuro dell’autonomia differenziata. Non si votava su questo, eppure le conseguenze saranno pesanti. La regione più autonomista d’Italia, quella che più di tutte ne ha fatto una bandiera, un simbolo, e spesso l’unica ragione di una offerta politica (al punto che per molti anni è bastata la parola per scaldare i cuori: anche quando era del tutto priva di contenuti concreti) ha votato con la percentuale più alta di tutte il partito più centralista che c’è, Fratelli d’Italia, con una maggioranza schiacciante, triplicando addirittura il risultato della Lega. Ma c’è di peggio. La Lega stessa mantiene un risultato appena decente solo perché si è affidata al fenomeno acchiappa voti (una scelta furba più che astuta) che si chiama generale Vannacci: un personaggio centralista nel midollo e nei messaggi veicolati, con l’anima ancorata al passato patriottico e tradizionalista (ricorrendo persino a quello repubblichino della X Mas), che si può stare certi non farà nulla per aiutare (semmai farà di tutto per contrastare) il sogno e il disegno autonomista teorizzato dal lighismo originario.

Non solo. È stato chiarissimo che i ceti produttivi, in passato alfieri dell’autonomia per sfuggire ai vincoli di Roma, hanno votato essi stessi il partito della premier. E la conseguenza è che Fratelli d’Italia prenoterà, con ottime probabilità di riuscita (sarebbe quasi un atto dovuto) la presidenza della regione, che non sarebbe più quindi a guida autonomista ma sovranista: e se non c’è un traino forte da parte della regione direttamente e maggiormente interessata, chi mai dovrebbe fare la fatica di spingere per un’autonomia che al massimo sarà utilizzata come merce di scambio, non solo rispetto al premierato? Possiamo prevederne già oggi il risultato: si farà prima o poi, ma senza fretta, un qualcosa che si possa definire un inizio di autonomia, per accontentare la Lega, ma saremo lontanissimi da quanto immaginato da Zaia quando lanciò il referendum sul tema, e dai cittadini veneti che lo votarono in massa con una fede quasi messianica, e come tale molto poco coi piedi per terra. Una magnifica illusione, insomma, oggi inesorabilmente al tramonto. Del resto, a picconarla non ci si è messa solo la maggioranza della maggioranza, ma anche la maggioranza dell’opposizione, dato che il Partito Democratico, con una scelta forse vincente nelle regioni del Sud, ma che pagherà in Veneto, ha deciso di mettersi alla testa di una dura battaglia contro ogni forma di autonomia differenziata: anche da parte di chi era a favore, ma dovrà adeguarsi per disciplina di partito. Di fatto non è neanche più “la Lega contro tutti” per l’autonomia, che sarebbe almeno uno slogan capace di coagulare consenso (e che piacerebbe a Salvini: in fondo ha una declinazione nostalgica nel “molti nemici molto onore” di mussoliniana memoria): ma “nessuno a favore, nemmeno la Lega”, come abbiamo visto. Almeno finché alla sua guida ci resterà Salvini. Ma Salvini, come noto, non ha alcuna intenzione di lasciare il comando, nonostante il disastro della sua leadership (che in passato, è vero, aveva salvato il partito: ma è destino dei leader quando credono troppo in sé stessi passare rapidamente dalle stelle alle stalle, basti pensare a Renzi). Un Salvini che non solo ha fatto oggi perdere voti, ma ha snaturato completamente la ragion d’essere della Lega, trascinandola all’opposto dei suoi ideali. Al punto che il suo fondatore, Umberto Bossi, ha votato Forza Italia, mentre la sua creatura politica, originariamente orgogliosamente antifascista, passava al fiancheggiamento aperto del peggio del neofascismo (e non ci riferiamo a Giorgia Meloni, ma agli ultras alla sua destra): ironicamente, per opera di un leader, Salvini appunto, che aveva cominciato la sua carriera nel consiglio comunale di Milano come leader dei “comunisti padani”, l’ala sinistra e progressista della Lega. Ma, si sa, è la politica. Di fronte alla quale non ci si può stupire che il partito principale sia quello del non voto.

 

Il partito snaturato. Le mutazioni della Lega, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2024, editoriale, pp. 1-6

Vademecum per non sprecare il voto europeo

Bene fa Confindustria a incontrare i candidati alle elezioni europee: e pretendere una competenza adeguata dei medesimi. Male fanno tutti gli altri (categorie economiche, organizzazioni sociali, terzo settore, mondi religiosi, tutto quell’articolato mondo di socialità intermedie che costituisce il vero tessuto della società) a non fare altrettanto. E vale anche per gli individui e i singoli elettori: a cominciare dagli iscritti e militanti di partito sopravvissuti – i primi a essere umiliati dalle scelte che fanno le loro organizzazioni di riferimento.

Una vera pressione della società civile sarebbe utilissima a contenere le scelte inconcludenti e spesso avvilenti dei partiti. Purtroppo non ce n’è abbastanza. E le liste lo dimostrano. Come al solito, prevalgono (almeno tra coloro che hanno qualche possibilità di essere eletti) alcune figure specifiche: sempre quelle. I e le leader di partito, innanzitutto: che in Europa non ci andranno, ma mettono il loro nome per acchiappare il consenso generico di chi vota senza sapere perché – non distinguendo tra elezioni europee e nazionali. Certo, la colpa, in fondo, è di un elettorato impreparato, e inconsapevole del fatto che il suo voto di simpatia o di fedeltà sarà utilizzato per eleggere qualcun altro: tipicamente delle persone senza competenza (nemmeno quella di cercarsi le preferenze da soli), ma che poi obbediranno ciecamente alle direttive di partito – un comportamento, del resto, molto generosamente ricompensato. Ad evitarlo, basterebbe una norma di buon senso: per cui, se qualcuno si candida a qualcosa – qualunque cosa – e poi viene eletto, dovrebbe essere vincolato ad accettare la carica in questione dimettendosi da quella precedente. Ma naturalmente nessuno l’approverà mai.

I candidati bandiera sono un’altra figura tipica: persone messe in lista, spesso come capilista, non per le competenze che hanno, ma per quello che rappresentano. È un meccanismo in certa misura inevitabile, che qualche volta è stato persino usato bene: e tuttavia dovrebbe farci riflettere. Di solito si tratta di esterni ai partiti, e quindi potenzialmente più indipendenti e critici: ma spesso sono scelti tra impolitici, interessati quindi più all’avere che al dare. In passato sono stati in molti casi campioni di assenteismo, visto che il biglietto vincente della lotteria arriva solo una volta (una legislatura e poi via), e conviene massimizzare i vantaggi investendo il meno possibile. E il loro ruolo, anche nella tutela degli interessi nazionali, oltre che nel far progredire la costruzione dell’Europa, è quasi sempre nullo.

Gli amministratori sono una categoria molto gettonata, ma anche qui si opera una confusione: tra elezioni europee e locali. Non è detto che un sindaco, un assessore municipale o regionale, un consigliere, per quanto abbia operato decentemente (e una valutazione andrebbe pur fatta, sul passato: non sul fatto che c’eri, ma su quello che hai realmente prodotto) possa essere una figura altrettanto utile in un luogo, il parlamento europeo, dove i dossier – e le scale di grandezza – sono tutt’altri. E il minimo che dovremmo chiedere (a questa categoria come a tutte le altre), è di avere dimostrato un qualche interesse per i temi europei: sennò che ci si va a fare?

Infine, gli uscenti. Bene rieleggere chi già c’era, e conosce già gli ingranaggi: ma, anche in questo caso, basta esserci, o non dovremmo chiedere anche che cosa si è fatto nel concreto?

Non si pretende che siano i partiti a maturare una maggiore consapevolezza. Loro preferiscono, si sa, i fedeli alla linea alle voci critiche, i dilettanti rispetto ai professionisti, i ricattabili (se non fai quello che dico non ti metto in lista) agli indipendenti (che uno stipendio sono capaci di guadagnarselo anche da soli), i mediocri rispetto a chi può contestare la leadership e sostituirla. Ma dovrebbero farlo gli elettori: noi. Usando l’arma che abbiamo, la preferenza. Che non sarebbe spuntata, se la usassimo con discernimento. Subordinando le nostre scelte a dei criteri minimali: attività passata, competenze specifiche, conoscenza (almeno) dell’inglese. L’alternativa, del resto, non è incoraggiante: rassegnarsi al progressivo livellamento verso il basso del ceto politico, e quindi all’ininfluenza dei nostri rappresentanti – anche nel difendere i nostri legittimi interessi. Temiamo che una buona parte dell’astensionismo (rischiamo che anche in queste elezioni si rechi alle urne solo la metà del corpo elettorale) sia già motivato da queste ragioni.

 

Vademecum per il voto europeo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 maggio 2024, editoriale, pp. 1-6