Fine vita. Chi decide per chi.
Chi decide, sul fine vita? La domanda potrebbe prevedere una risposta semplice: chi la vive. In realtà non è così. Non è così perché la vita stessa – chiamiamola come vogliamo: caso, fato, destino, fortuna, Dio – decide altrimenti. La maggior parte di noi non sceglie quando e come morire: semplicemente, ci capita – accade. Accade di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato, o di essere sopraffatti da una malattia, e non possiamo farci niente. Ma ci sono casi, sempre più frequenti, in cui un qualche potere decisionale in realtà ce l’abbiamo. Uno, antico come l’uomo pensante, è il suicidio: l’atto di rinunciare alla vita, che dalla tragedia greca (o dall’esempio di Socrate) al Romanticismo, da Shakespeare a Hollywood, attraversa tutta la nostra storia. Non come fatto naturale (non ci sono specie animali che si suicidano, semmai esistono forme di sacrificio altruistico, come anche nella specie umana, del resto): ma come scelta consapevole, anche se per i motivi più disparati, dal senso di ingiustizia all’amore (magari non corrisposto o tradito), dall’orgoglio alla vergogna – sentimenti umani, che gli animali non provano. Poi si può andare incontro alla morte, o rischiarla, mettendola in conto: dall’andare in guerra (anche nelle periferie delle nostre città) agli sport estremi. Questi casi di suicidio non sono regolabili dal decisore pubblico, dalla legge: sono atti individuali (anche se, come ci ha insegnato Durkheim, con delle implicazioni sociali: non a caso ci sono categorie, etnie, popolazioni, classi, che si suicidano più di altre), e come tali sfuggono all’idea stessa di regolazione.
Tuttavia oggi si assiste alla crescita, e alla maggiore visibilità, di forme di suicidio (ci riferiamo al suicidio assistito, ovvero all’autosomministrazione di un farmaco letale) dovute anche, per molti versi, allo stesso progresso, quello scientifico e medico in particolare: oggi capace di allungare la vita anche di persone gravissimamente malate, ma con questo allungandone indefinitamente anche il processo di decadimento e le sofferenze – rendendo la parte finale della vita, per anni e talvolta decenni, per alcuni, insostenibile. Un’agonia, cioè letteralmente una lotta: faticosa, ma che non è possibile vincere. È un paradosso, ma significativo: il risvolto negativo di un fatto di per sé positivo. E non possiamo evitare di farci, in proposito, nuove domande, a cui abbiamo il dovere di cercare risposte nuove. Anche perché, essendo queste situazioni una conseguenza del progresso scientifico e tecnologico (in assenza del quale queste persone sarebbero quasi sempre già morte da un pezzo), la natura non c’entra nulla, e la difesa della vita non ha niente di naturale – quella vita esiste solo grazie alla tecnica, ed è il rifiutare l’invasività della tecnica, semmai, un atto di obbedienza alla natura.
La politica aveva deciso finora di rifiutarsi di decidere. E così sono stati altri poteri dello stato a dover intervenire: la Corte costituzionale, da un lato (che ha tentato a lungo di strigliare la politica su questo punto, tentando di indicare direttive e tempistiche), e le Regioni, dall’altro (che dovendo rispondere alle richieste della cittadinanza, e alle stesse sollecitazioni della Consulta, hanno il dovere di proporre linee guida praticabili). Oggi è il governo a proporre delle linee guida: un po’ per la necessità di intervenire, e un po’ anche per la volontà di togliere potestà alle regioni, impedendo loro di decidere per via regolamentare, come avevano tentato di fare, in forme diverse, imponendo tempi certi di risposta alle aziende sanitarie, Emilia-Romagna e Toscana, e anche il Veneto, per iniziativa (malvista e bocciata dai suoi) del Presidente Zaia. In sé è una buona notizia: non è infatti un atto di imperio, ma si tratta di una proposta, che andrà in commissione, dove inizierà la discussione. Lì ci sarà modo di entrare nel merito, anche di alcune premesse che potrebbero essere discutibili: dall’esclusione che il servizio sanitario eroghi la prestazione, al tempo lunghissimo (quattro insostenibili anni, per chi soffre di patologie irreversibili che producono sofferenze intollerabili) per ripresentare la richiesta, in caso fosse respinta, fino alla nomina politica del comitato etico chiamato a decidere. Ma ci sarà modo, anche per la società civile, di far sentire la sua voce: dalle professioni sanitarie alle famiglie dei pazienti e ai diretti interessati, passando per l’associazionismo e la pubblica opinione, che da molti sondaggi risulta, certo, divisa, ma tendenzialmente favorevole all’approvazione di una legge in merito. Sarebbe di per sé un passo avanti.
L’uomo, le leggi. Chi decide sulla fine della nostra vita, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2025, editoriale, pp. 1-3