Premessa. Il veneto, inteso come lingua, lo si tramanda di padre in figlio, e anche da padre non veneto a figlio nato in Veneto: a testimonianza del fatto che è una lingua forte, come ci insegnano glottologi e linguisti – il dialetto percentualmente più diffuso in Italia. Già questo dovrebbe insegnarci qualcosa: se si tramanda anche ai nuovi venuti, e a differenza di altri è parlato non solo dai ceti popolari ma anche dalle classi colte, pur senza essere insegnato a scuola, è perché non ne ha bisogno. A che serve allora un patentino veneto e una legge sul bilinguismo? Passi per il doppio nome sui cartelli dei comuni (che già non serve a molto, ma a volte è sufficiente a spostare qualche voto). Ma se si dovesse mettere in questione insegnamento, pubblica amministrazione, lingua veneta negli atti pubblici, riserva di posti di lavoro nel pubblico impiego, telegiornali e quant’altro, oltre a coprirci di ridicolo ci creeremmo problemi a non finire. E, incidentalmente, introdurremmo una discriminazione nei confronti dei non venetizzati (non solo gli immigrati, pure il dieci per cento della popolazione, ma i moltissimi residenti provenienti da altre regioni, e persino i veneti che il veneto non lo parlano e non lo vogliono parlare, che esistono, sono molti, e rischierebbero di diventare a loro volta una minoranza da tutelare). Continua a leggere