L’errore dell’eurocrazia (Sul crocifisso)

L’errore dell’eurocrazia (Sul crocifisso)

La sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo che considera la presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche una violazione della libertà religiosa, fa riflettere per più motivi.

Primo. A prescindere dal merito, in molti cominciano a pensare che l’eccesso di legislazione e di giurisprudenza prodotti a Bruxelles o a Strasburgo – sempre più invasive della libertà individuale e degli Stati – si risolvano in un boomerang contro le istituzioni europee e ciò che rappresentano. Di fatto, le minuziose e sempre più ossessive forme di regolamentazione eurocratica producono sì una progressiva omogeneizzazione delle normative, ma a prezzo della differenziazione interna che costituisce la ricchezza stessa dell’Europa. E ciò è vero tanto sul piano economico (si pensi alla progressiva distruzione dell’agricoltura tradizionale prodotta dall’interventismo europeo) quanto su quello culturale.

Secondo. Entrando nel merito, viene da chiedersi se sia davvero compito della Corte europea occuparsi di tali questioni, che sono più di modelli culturali che di violazione della libertà individuale vera e propria. Ogni paese su questo fa storia a sé, e la laicité francese, con le sue modalità specifiche, tra cui il divieto della presenza dei simboli religiosi a scuola, non si è imposta come tale in nessun altro Paese europeo, e non ha titolo culturale per fare da bussola (a titolo di curiosità, in molte scuole inglesi si fa ancora la preghiera…).

Terzo. Sarà utile riflettere sul fatto che la Corte è intervenuta su ricorso di una cittadina italiana di origini finlandesi, atea, sposata ad un italiano e residente ad Abano Terme. Il che forse consentirà a qualcuno di accorgersi che il nemico non è l’islam. Nell’analisi del vecchio Pietro Scoppola, la Chiesa italiana degli anni ’50 si era affannata a combattere il comunismo, senza accorgersi che il vero pericolo e il vero nemico era interno: la secolarizzazione, la società dei consumi, la televisione. Oggi il meccanismo si ripete: una politica e un mondo giornalistico ossessionati dall’islam (al punto che la ministra Carfagna tira nuovamente fuori la questione del burqa, che non c’entra nulla, e il ministro Calderoli i presepi, peraltro solitamente messi in questione da insegnanti italiani) non si accorgono che a voler colpire il crocifisso sono soprattutto nemici interni (la italo-finlandese Soile Lautsi o, in passato, il giudice Luigi Tosti, di origine ebraica, che si era rifiutato di tenere udienza nelle aule giudiziarie in cui era presente il crocifisso, oltre che il cittadino italiano di fede musulmana Adel Smith).

E qui veniamo al quarto punto. Il problema vero è la pluralità religiosa, il fatto che la società italiana è cambiata e assai più plurale culturalmente e religiosamente che in passato, anche a prescindere dalla presenza degli immigrati – ma non si vuole trarne alcuna conseguenza. E le minoranze oggi hanno maggior capacità di farsi sentire e di rivendicare i propri diritti. Parliamoci chiaro: certe rivendicazioni dell’identità italiana come esclusivamente cristiana suonano pelose e strumentali, soprattutto quando vengono da atei dichiarati e da neo-celti, cui interessa prevalentemente il ruolo elettorale della Chiesa (peraltro fortemente indebolito) e null’altro (vale per costoro il vecchio adagio: “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”). Così come è stupida la speculare opinione di certo mondo progressista, che si limita a godere del colpo inferto all’egemonia cattolica, senza alcuna riflessione sui fondamentali. Ma siamo onesti: nelle scuole pubbliche italiane, fino agli anni ’60, il crocifisso era presente nelle aule; nella maggior parte delle scuole costruite successivamente nessuno si è mai posto il problema di inserirvelo – e non per l’opposizione di anticlericali professionali o di corti laiciste, ma per disinteresse e per dimenticanza. Detto questo, un autentico rispetto delle tradizioni religiose e delle culture altrui si può costruire in molti modi: eventualmente per addizione (aggiungendo i simboli di altre religioni), probabilmente per elaborazione culturale su altri piani, ma certamente non per sottrazione (togliendo i simboli della religione maggioritaria). Vale una considerazione di buonsenso: togliete il crocifisso da un muro dove esso è presente da anni. Il segno che rimane sarà ancora più visibile e significativo, e la sua assenza farà più effetto della sua stessa presenza. Ma, per favore, che non lo si brandisca come un’arma contundente per le proprie battaglie pro o contro la Chiesa: per rispetto a ciò che significa, se non altro.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 5 novembre 2009, p. 1-5

anche

“Messaggero Veneto”

anche come

Crocifisso, dove sta l’ipocrisia, in “Il Mattino”, 6 novembre 2009, p. 1-9 (e la nuova di venezia)

L’islam invisibile

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Allievi S. (2009), L’islam invisibile, in “L’Espresso”, n. 43, 29 ottobre 2009, pp.60-64, articolo di Paolo Biondani

L’insegnamento delle religioni questione da Stato laico. Insegnare le religioni nella scuola pubblica

L’insegnamento delle religioni questione da Stato laico. Insegnare le religioni nella scuola pubblica

Il problema dell’insegnamento dell’islam a scuola è serio, e va discusso seriamente. Perché non riguarda solo l’islam. Il problema vero, e più ampio, è un altro: dobbiamo continuare ad avere, nella scuola pubblica, un insegnamento confessionale cattolico pagato dallo stato, con l’opzione per chi non lo vuole di evitarlo, e nient’altro? C’è un problema di rispetto delle minoranze e di parità di diritti? E, ancora più importante, c’è un problema di maggiore conoscenza del fatto religioso da parte di tutti? Le ricerche ci dicono di sì, e questo è un problema: non siamo in grado di capire quanto è contenuto nei nostri musei, o la simbologia di una cattedrale, e quindi la nostra stessa storia, se non conosciamo la cultura cristiana, e la Bibbia da cui deriva. Per cui un insegnamento religioso dovrebbe essere obbligatorio per tutti. Ma non siamo in grado di capire il mondo contemporaneo e il nostro paese, se non conosciamo nulla delle altre religioni: sia quelle che sono da tempo minoranze interne (una, l’ebraismo, è dopo tutto in Italia da prima ancora del cristianesimo), sia quelle arrivate con l’immigrazione, ma che rappresentano le grandi culture religiose dell’umanità: induismo, buddhismo, e ancora di più l’islam, che è diventato la seconda religione in tutti i paesi europei.

Il problema non è quindi islam sì o islam no. Ma tornare all’interrogativo di fondo, sull’insegnamento religioso nella scuola, e guardarsi un po’ intorno. Alcuni paesi europei finanziano l’insegnamento religioso confessionale: ma non solo della confessione maggioritaria – anche delle minoranze riconosciute, islam incluso. Altri ancora forniscono un insegnamento religioso statale, obbligatorio o opzionale: ma, come per le altre materie, si fanno carico di deciderne i contenuti e di selezionarne i docenti. Da noi invece lo stato ha deciso di assumersi l’onere di un insegnamento confessionale, che tuttavia è facoltativo (non potendosi obbligare i cittadini di altra o nessuna confessione religiosa a frequentarlo, anche se nei fatti non sono a disposizione opzioni alternative), lasciando il controllo sugli insegnanti a un ente esterno (la chiesa, che può nominarli e revocarli, anche per motivi che nulla hanno a che fare con il contenuto e le modalità dell’insegnamento, ad esempio per motivi morali), e compiendo una evidente discriminazione nei confronti dei suoi cittadini non cattolici.

Da tempo anche in Italia si va manifestando una corrente di opinione che, tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nella società (una sempre minore percentuale di cattolici, un sempre maggiore pluralismo religioso, e una progressiva equiparazione dei diritti di tutti), propone non più l’ora di religione cattolica, ma l’ora delle religioni, con programmi costruiti anche in collaborazione con le confessioni religiose (a cominciare da quella cattolica), ma con curricula uguali per tutti, e la selezione degli insegnanti sulla base di concorsi attitudinali, come per qualsiasi altra materia. Questo consentirebbe di dare dignità vera a un insegnamento che ora è già nelle cose di serie B, favorendo una alfabetizzazione religiosa degli italiani ora a livelli drammaticamente bassi, e rispettando le convinzioni di tutti.

Oggi sempre più italiani si dichiarano di diversa confessione religiosa (almeno 1 milione e 300 mila) o di nessuna (i praticanti cattolici sono tra un quarto e un terzo della popolazione), e gli immigrati ci hanno portato nuove confessioni religiose (non meno di 3 milioni di stranieri non cattolici, che progressivamente diventeranno italiani o lo saranno i loro figli). Il che significa che anche l’Italia è diventata un paese religiosamente plurale. Su questo, che è un cambiamento epocale, la riflessione è in ritardo, anche perché polarizzata tra clericali e giacobini, e tra anti-islamici e no. Forse è il caso di ritornare ad essere, credenti o meno, semplicemente laici.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 28 ottobre 2009, p. 1-15

Se il minareto sorpassa la chiesa

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sole24ore

Allievi S. (2009), Se il minareto sorpassa la chiesa, in “Il Sole – 24 ore”, 18 ottobre 2009, p.39, recensione di Farian Sabahi

Sanaa ed Evelina uguali e diverse

Sanaa aveva solo 18 anni. Il padre, marocchino, non sopportava che avesse una relazione con un italiano, che se ne fosse andata di casa, a vivere con il suo uomo. E l’ha uccisa. Da padre, aveva molte buone ragioni per essere preoccupato: nessuna per uccidere. Lei stava con un uomo tanto più grande di lei (31 anni), e non gli aveva detto dove viveva, nemmeno che abitava con lui. Che per giunta era di un’altra cultura, lingua, religione (anche se questo era l’ultimo dei problemi reali: nessuno, in questa storia, era particolarmente osservante).

Evelina ha solo 21 anni, e già un figlio di 6. Il padre, italiano, non sopportava che avesse una relazione con un albanese, e l’ha quasi uccisa: si è salvata perché il padre, armato di cacciavite, ha mancato la vena giugulare. Da padre, aveva molte buone ragioni per essere preoccupato: nessuna per cercare di uccidere. Lei già era stata con un albanese quando aveva 17 anni, era rimasta incinta, ma poi lui se ne era andato. E adesso era di nuovo innamorata di un altro albanese. Una persona di un’altra cultura e religione (anche se questo problema stavolta non se l’è posto nessuno).

Tante, troppe le somiglianze per non rifletterci. Anche se nella interpretazione dei fatti la differenza è totale.

Nel primo caso si è enfatizzato l’aspetto religioso della questione, un’irrimediabile differenza tra fedi inconciliabili. Ed è partita la grancassa del consueto circo mediatico intorno all’islam, con grande spazio sui giornali, un immediato dibattito politico, trasmissioni di approfondimento in prima serata, commentatori improvvisati, e un ministro, Mara Carfagna (la stessa che ha appena proposto una legge per l’abolizione di ciò che non esiste, ovvero del burqa in un ambito dove non se ne è mai visto uno, la scuola), che ha parlato seccamente di “guerra di religione”. Di contorno, la santificazione della povera ragazza e la beatificazione del fidanzato. E nessuna pietas per gli altri protagonisti della vicenda.

Nel secondo caso non un solo commentatore o articolo di giornale, e tanto meno un ministro, ha parlato di guerra di religione. La ragazza rimane quello che è: una vittima innocente. E il fidanzato non se l’è filato nessuno. Marginale anche nel dolore, e senza riflettori intorno. Semmai, sotto sotto, il padre qualche comprensione (per le ragioni della reazione, anche se non per i modi) da alcuni la rimedierà comunque: dopo tutto, un albanese… Proprio come il padre di Sanaa, da alcuni dei suoi.

Delle due l’una. O la religione c’entra, e allora c’entra in entrambi i casi. Oppure non c’entra o c’entra poco: come elemento di sfondo, alla lontana – come codice d’onore più che come fede. Mentre i fattori in gioco sono altri: disperazione, rabbia, deprivazione sociale, livello di istruzione, e qualche incommensurabile variabile psicologica – ché non tutti i padri, religiosi o meno, nelle stesse condizioni, si comportano così.

Alla luce di queste diverse reazioni, se non un esame di coscienza, almeno qualche spunto autocritico sarebbe opportuno. In nome della nostra responsabilità di persone pensanti, chiamate ad analizzare dei fatti ponderatamente e senza pregiudizi. E contro la tragica irresponsabilità delle nostre reazioni immediate, spesso cieche e fuorvianti. Forse sarebbe il caso di raffreddare un po’ il dibattito. Di de-islamizzarlo, per così dire. Ne capiremmo di più, e aiuteremmo meglio i protagonisti di queste vicende. Anche se, certo, chi lucra visibilità mediatica e consenso politico da questi tristi fatti, ci guadagnerebbe di meno.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 14 ottobre 2009, p. 1-5

anche come

Figlie accoltellate dal padre. La religione fa la differenza, in “Il Mattino”, 15 ottobre 2009, p. 1-18

Sanaa, Hina e le altre

Un’altra ragazza uccisa. Un’altra storia di paternalismo e tradizionalismo opprimente finita in tragedia. Un abisso culturale che sfocia nel crimine, nell’efferatezza. E, puntuali, i parassiti della strumentalizzazione.

Cominciamo dai fatti. Sanaa, 18 anni, è stata uccisa dal padre, un marocchino di 45 anni, che non approvava la sua relazione con un italiano di tredici anni più vecchio. Inconcepibile. Inaccettabile. Disumano. Ma, invece di fare i finti ingenui, chiediamocelo: così raro? Così strano? Così assente dalle cronache giornalistiche, anche a prescindere dall’immigrazione? Purtroppo no. Ma allora questo dovrebbe indurci a una seconda, onesta domanda: cosa c’entra la religione? Cosa c’entra l’islam? Siamo davvero sicuri che sia questa la variabile esplicativa principale?

Come per ogni religione, anche per l’islam l’assassinio di una figlia da parte di un padre è un atto aberrante, deviante, inaccettabile, immorale, indifendibile. Qualsiasi musulmano, qualsiasi imam, sosterrebbe questa tesi. Ma inaccettabile e indifendibile non significa purtroppo incomprensibile. Solo che la variabile interpretativa principale, per capire cosa è successo, non è la religione. Certo, c’entra la cultura. Ma quale cultura? Il padre di Sanaa non frequentava la moschea, pare alzasse talvolta il gomito, ed era diventato oppressivo man mano che la situazione gli sfuggiva di mano. Del fidanzato di Sanaa tutto sappiamo, tranne se frequentasse qualche ambiente religioso. Cosa c’entrano l’islam e il cristianesimo? Se si trattasse di un fatto religioso, dovremmo aspettarci che tutti i musulmani si comportino allo stesso modo (o magari lo desiderino, ma ne siano impediti controvoglia dalle nostre leggi, come immagina qualcuno). Se si trattasse di un fatto etnico dovremmo immaginarci tutti i padri marocchini come potenziali assassini delle proprie figlie. Ma allora perché non succede? E gli altri fattori? Classe sociale, livello di istruzione, provenienza da ambiente rurale o urbano, siamo davvero convinti che non contino niente? E i rapporti di genere, molto al di là della religione? E quelli intergenerazionali? E la migrazione stessa, il confronto tra mondi diversi, uno scintillante e pieno di promesse, l’altro tetro e malinconico anche per la situazione depressiva della famiglia d’origine? E, per finire, la psicologia individuale?

La ‘religionizzazione’ della nostra interpretazione di questi fatti non è casuale. E’ figlia dei tempi, di diffuse campagne politiche e giornalistiche, di semplificazione pregiudiziale. E’ una costruzione sociale, non un dato. Non tiravamo in ballo la religione cattolica, ai tempi dei delitti d’onore e del ‘divorzio all’italiana’; né lo facciamo quando un padre padrone si sente in diritto di sterminare la propria famiglia prima di suicidarsi per un proprio fallimento individuale. E non tiriamo in ballo l’ortodossia quando cose simili accadono, ad esempio, nelle comunità immigrate dall’est. Del resto in Gran Bretagna, dove problemi analoghi li hanno anche tra gli hindu e i sikh, parlano volentieri di culture ‘asiatiche’: forse altrettanto a torto.

La religione tuttavia può servire come alibi, e come complicità. Qui le comunità islamiche e i loro responsabili possono avere grandi responsabilità: in positivo (educative, di mediazione costruttiva tra genitori e figli) o in negativo (una sorta di omertosa condiscendenza, un silente consenso nei confronti delle posizioni più retrive). Perché sia la prima posizione a prevalere, è fondamentale, certo, la maturità delle organizzazioni, ma anche il ruolo del contesto. Tutto serve, tranne la strumentalizzazione parassitaria: utilizzare la cosa per tuonare un po’ contro l’islam, e poi finita lì, fino al prossimo assassinio.

Occorre invece contribuire a risolvere il problema: urlando di meno, e agendo di più. I musulmani devono imparare che lottare contro l’uso barbaro della religione per giustificare comportamenti barbari è un loro interesse e un loro dovere, perché si ritorce contro i musulmani tutti. I non musulmani dovrebbero capire che la demonizzazione dell’islam in quanto tale non ha a che fare e non aiuta la causa della scomparsa di questi comportamenti. Parlare di “guerra di religione” è inutile e irresponsabile. Per certi versi è anzi controproducente, spingendo i musulmani a chiudersi in un ghetto. E non aiuta quindi le Sanaa di oggi e di domani.

Stefano Allievi

“Popoli”, n.10 ottobre 2009, p. 45

La logica del “chi me lo fa fare” (sanatoria badanti fallita)

La logica del “chi me lo fa fare” (sanatoria badanti fallita)

La sanatoria di colf e badanti è fallita: o almeno ha regolarizzato un numero di persone molto al di sotto delle aspettative. Ci sono ragioni oggettive, anche se perverse, di questo risultato negativo: il dover dichiarare almeno 20.000 euro di reddito, che molte famiglie non sono in grado di dimostrare, non perché non ce l’abbiano, ma perché dichiarano al fisco molto meno di quanto guadagnano realmente – e si tratta proprio del ceto sociale che ricorre più spesso alle colf. E il dover indicare un minimo di 20 ore di lavoro: teoricamente facile per le badanti (se i datori di lavoro lo ammettessero), meno per le colf che spesso lavorano presso più famiglie.

Ma in epoca di scudo fiscale, in cui l’evasione e la fuga di capitali all’estero viene punita con una sanzione risibile, anche i costi della cosiddetta sanatoria delle badanti devono essere sembrati proibitivi. E in effetti, comparazione alla mano, lo sono. Non tanto per i 500 euro di contributo forfettario, ma per il fatto, poi, di essere costretti a retribuire in regola la persona che prima lavorava in nero, pagandole per giunta i contributi. Un’ovvietà, in qualsiasi paese e per qualsiasi lavoro. Un po’ meno per un mercato del lavoro arretrato come quello domestico di colf e badanti, che ha le sue peculiarità.

In effetti si tratta del lavoro più atipico del mondo. Sei di famiglia, ma te ne toccano soprattutto i lati peggiori (mettere a posto, non certo essere serviti a tavola). Ti è richiesto un forte coinvolgimento emotivo, ma è malvisto che sia bidirezionale (la badante deve affezionarsi all’anziano, ma il contrario è pericoloso, per questioni ereditarie). L’orario di lavoro, già lungo di suo, è indicativo, essendo governato da eventi eccezionali che accadono tutti i giorni (imprevisti, malattie, ritardi, ospiti, insonnie). In più è l’unico lavoro al mondo dove il lavoratore è uno e i datori di lavoro molti, anziché il contrario: con tante teste anche in contraddizione tra loro a cui obbedire. E, se sei irregolare, sei facilmente ricattabile e il tuo potere contrattuale è nullo: anche perché la casa in cui sei ospite è il tuo unico rifugio, la tua unica protezione. Nulla da stupirsi che sia anche un lavoro che soffre di un altro sommerso: una quantità di violenze nascoste (dalle piccole sevizie psicologiche alle esplicite violenze sessuali), di esaurimenti e malattie mentali, di tassi di alcolismo e di solitudine, di lunghe separazioni familiari dalle conseguenze talvolta devastanti, mal misurati dalle statistiche. E che si uniscono al sommerso della condizione irregolare e dell’abitare in una casa che non è la tua, in cui niente di quel che ti circonda ti appartiene. Dovrebbe essere un’epopea degna di una sua letteratura, anziché una condizione accettata come normale e diffusa.

Anche perché le badanti d’Italia sono figlie di un welfare pessimo e retrogrado, di cui non sono la soluzione, ma una parte del problema: non a caso si tratta di un fenomeno essenzialmente italiano e dell’Europa del sud (Spagna, Grecia, Portogallo); non propriamente i paesi di punta nel campo dei servizi sociali e dei servizi alla persona: che, dove esistono, non hanno bisogno di badanti, se non in casi assolutamente eccezionali. L’effetto perverso è che il welfare non migliorerà mai, precisamente perché le famiglie supportano i problemi dei loro anziani, bambini e disabili grazie a colf e badanti. E sono le statistiche dell’immigrazione, a dircelo. Dall’Ucraina emigrano soprattutto uomini: ma in Italia arrivano soprattutto donne. Segno che gli uomini vanno altrove, seguendo le opportunità di un mercato del lavoro che porta invece le loro donne da noi.

Avrà pure ragione il ministro Maroni, allora, a sostenere che non si può dire che la sanatoria è fallita, perché le stime erano appunto tali (ma le stime sui clandestini, allora?). Ma di difetti nel manico questa regolarizzazione ne aveva altri. A cominciare dall’aver privilegiato il settore più primitivo del mercato del lavoro: con l’effetto di aver ‘retrocesso’ al ruolo di collaboratori domestici anche pizzaioli e segretarie, autisti e cameriere, per regolarizzare i quali i datori di lavoro hanno fatto, letteralmente, carte false. Mentre sarebbe stato opportuno pensare ai settori maggiormente maturi: cosa che non si è potuta fare per ragioni politiche che il ministro conosce bene, dato che ne è portatore.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 1 ottobre 2009, p. 1

anche in “Messaggero Veneto”

Il problema del velo ce l’ha chi guarda

E se il problema culturale del velo islamico fosse più in chi lo guarda che in chi lo porta?

Cominciamo con il distinguere vari livelli.

a) La maggior parte delle donne musulmane, da noi, non porta alcun velo. Solo che non ce ne accorgiamo: poiché non lo portano, non sappiamo che sono musulmane…

b) Molte portano l’hijab, il più diffuso, quello che copre la testa ma non nasconde il viso: un foulard, per capirci. Molti – come la Santanché che vorrebbe vietarlo nelle scuole e su questo si è costruita il suo quarto d’ora di celebrità – pensano sia un simbolo di oppressione della donna. La pensano diversamente le suore, gli ebrei che portano la kippah e le loro donne ortodosse con i capelli rasati, i sikh col turbante, e le statue della Madonna: è un simbolo di sottomissione, sì, ma a Dio. La stragrande maggioranza delle donne, anche giovani e colte di seconda generazione, che lo porta, lo fa volontariamente e non si sente affatto inferiore alle altre: per loro è una scelta libera, e come tale va rispettata, anche se non la capiamo. Diverso per chi lo mette per imposizione del marito o del padre: in questi casi, deve intervenire lo stato? O non è meglio lasciar fare all’evoluzione culturale? Sui foulard neri delle nostre nonne, è intervenuto lo stato? E su quante altre scelte controvoglia e imposizioni all’interno delle famiglie dovremmo intervenire, allora? Eppure molti si sentono in diritto di protestare persino contro l’impiegata di un museo o la commessa di un negozio con l’hijab, o una ragazza che in piscina porta quello che si è ribattezzato il burqini. E’ normale?

c) C’è poi il velo che nasconde il viso: il niqab e il burqa. Pochi casi, ma ben pubblicizzati. Nessuno si sogna di difenderlo, ci mancherebbe. Ma forse è il caso di sgombrare il caso da alcune falsità. Paura. La attribuiamo ai bambini, ma chi è che ce l’ha, o la induce? Con questa scusa si è perfino fatta cacciare da un’asilo privato una maestra che portava l’hijab, e in diverse scuole mamme italiane si sono mobilitate contro mamme immigrate con il capo – non il volto – coperto: ci rendiamo conto? Sicurezza. In tutta Europa non si annovera un solo precedente di rapina in banca o di attentato effettuato con un burqa. Il problema allora è un altro: culturale. Non siamo abituati a questo genere di vestiario e non ci piace. Legittimo. E di questo sì, è giusto parlare.

Il ricorso alla legge aiuta, ma non troppo. La legge (152 del 1975, art. 5) pretende la riconoscibilità del viso: “E’ vietato prendere parte a pubbliche manifestazioni, svolgentisi in luogo pubblico o aperto al pubblico, facendo uso di caschi protettivi o con il volto in tutto o in parte coperto mediante l’impiego di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”. Però la legge parla di pubbliche manifestazioni (erano gli anni degli scontri con la polizia nel corso di manifestazioni politiche), non del semplice camminare per strada (per il quale è sufficiente consentire il riconoscimento su richiesta delle forze dell’ordine). E diverse sentenze hanno riconosciuto eccezioni per motivi diversi: inclusi quelli religiosi. Tanto è vero che un sindaco della provincia di Como che si ostinava a multare una musulmana italiana è stato costretto dal giudice ad annullare le sanzioni.

Uno dei cardini su cui si basa la civile convivenza è il rispetto della legge: quale che sia. Sul viso completamente velato, sono personalmente contrario. Lo sono anche la maggior parte dei musulmani e delle musulmane. E ci dovesse essere una legge chiara, va rispettata. Ma in Europa c’è più di un dubbio. E infatti a chiunque cammini per Londra, Parigi, Amsterdam o Berlino capita di incontrare donne con il volto velato con molta maggiore frequenza che in qualunque città italiana. Sono paesi incivili? Più indietro, sul piano dei diritti, di quel faro della civiltà che è Montegrotto? Qui, davvero, siamo al grottesco: tutto, pur di avere una foto sui giornali…

Forse non è inutile farsi anche un’altra domanda: perché questi episodi accadono sempre e solo nel Nord Italia? Siamo forse più femministi? O non è che tutto questo ha a che fare con una campagna anti-islamica che prende qualunque spunto, incluso il sacrosanto diritto a riunirsi a pregare, per manifestarsi? Talvolta, di fronte a questi episodi, viene da pensare che sì, c’è davvero in corso una guerra culturale che riguarda l’islam. Ma non l’hanno dichiarata i musulmani.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 28 settembre 2009, p. 1-11

Troppi mandati: in regione non è democrazia (Galaneide)

Troppi mandati: in regione non è democrazia (Galaneide)

In un significativo articolo pubblicato domenica, il direttore di questo giornale ha analizzato ragioni e sragioni politiche della campagna per “salvare il soldato Galan”.

Già il riferimento cinematografico dà l’idea di una campagna assurda e inutile: nel caso del film di Spielberg si trattava di salvare il soldato Ryan, a cui erano già morti tre fratelli, e che lo stato maggiore aveva dato ordine di rispedire a casa. Nella campagna per salvare quel soldato coraggioso, testardo e un po’ ottuso, moriranno molti altri uomini, anche migliori di lui: al punto che alla fine del film Ryan si domanda se abbia davvero meritato di essere sopravvissuto.

La metafora è troppo intrigante per non applicarla anche al caso politico riferito al soldato Galan. Davvero merita di sopravvivere a tutto e a tutti, a dispetto e contro tutti? Basta continuare a ripetere come un mantra che ha governato bene per convincersene?

Ma, al di là di questo, la domanda che qui ci facciamo precede il giudizio politico e di merito. E’ legata alle forme e ai metodi della democrazia. Nella convinzione che spesso la forma è il contenuto. E se il metodo è difettoso anche il risultato lo sarà.

La domanda vera che dobbiamo porci è infatti: ma ha senso, è giusto, è coerente con il principio democratico, che qualcuno resti incistato al potere, avvitato sulla medesima poltrona per quattro mandati? Vale per Galan come per Dürnwalder, ricordava giustamente Monestier. Ci aggiungeremmo Formigoni, di cui si dice con assoluta impudenza che debba essere “presidente a vita”, come se la Lombardia fosse roba sua.

Ricordiamo che la stessa critica, a giusto titolo, il Pdl la faceva, nella recente campagna elettorale, a Zanonato: ed era in effetti il punto più debole del sindaco. Che, peraltro, almeno i mandati non li ha fatti consecutivamente.

Ricordiamo al Pdl che unanimemente ricandida Galan che la stessa critica, a giusto titolo, il Pdl la faceva, nella recente campagna elettorale, a Zanonato: ed era in effetti il punto più debole del sindaco. Che, peraltro, almeno i mandati non li ha fatti consecutivamente.

Il problema, lo ricordiamo, è di principio e di metodo. E proprio per questo è sembrato inquietante l’unanimismo con cui i dirigenti del Popolo della Libertà riuniti a Cortina si sono stretti intorno a Galan per reincoronarlo patriarca, più che governatore, del Veneto. Dà l’idea di un distacco siderale tra un’élite politica che si autoriproduce e i principi a cui dovrebbe ispirarsi.

La democrazia è un dettaglio? E il principio di alternanza, che ne è alla base, un ammennicolo? La questione della lunghezza della permanenza al potere e del numero dei mandati è all’origine stessa della democrazia: perché ci si accorse ben presto che un potere conquistato democraticamente poteva trasformarsi nel suo opposto, in una forma di paternalismo totalitario o peggio, se lasciato troppo tempo nelle stesse mani. Ecco perché tutte le democrazie mature hanno adottato vincoli inderogabili, che per le cariche più importanti sono normalmente di due mandati.

La decisione di chi mandare al potere la prende il popolo sovrano attraverso le elezioni. Ma, anche se vuole legittimamente rimandarci le stesse forze politiche (e quindi l’alternanza non si produce fra schieramenti diversi), il vincolo dei due mandati costringe a un rinnovamento almeno della classe dirigente. Uno strumento indispensabile affinché non si creino centri di potere autoreferenti e autocentrati, composti da amici degli amici disposti in cerchi concentrici intorno al potente di turno, inevitabilmente proni e disincentivati al dissenso. E’ ciò che consente di mantenere un principio di freschezza e di possibilità di ringiovanimento alla democrazia, destinata altrimenti all’immobilismo e alla senescenza.

Vero, non c’è un vincolo a farlo. Per qualche incomprensibile motivo il vincolo in Italia esiste ad altri livelli (dai sindaci ai presidenti della repubblica) ma non per i governatori, che non hanno ovviamente interesse ad introdurlo in proprio. Ma nondimeno si tratta di un principio fondamentale di coerenza con il principio democratico stesso. E, dopo tutto, è curioso che la difesa inerziale della posizione opposta venga da uno schieramento ideologicamente contrario al posto fisso e, ultimamente, assai critico, almeno a parole, con le élite…

Poi, naturalmente, i princìpi sono una cosa e la pratica un’altra. E anche su questo, come sempre, si deciderà una sera a cena, ad Arcore, alla faccia di quell’altro principio che è il federalismo. Ma questo fa parte delle storture della democrazia e della partitocrazia, non dei suoi princìpi. I mezzi, anche in questo caso, produrranno il fine: che non è il governo del popolo, ma la spartizione del potere.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 24 settembre 2009, p. 1-9

Una sana competizione dentro il Pd ma senza perdere le radici territoriali

Una sana competizione dentro il Pd ma senza perdere le radici territoriali

La concorrenza fa bene: anche ai partiti. E’ quello che sta avvenendo nel PD: finalmente si discute, ci si divide, si litiga. Ma a partire da presupposti trasparenti, e non attraverso complotti di corridoio. L’esatto contrario di quanto avvenuto fino ad ora, che tanto è costato alla credibilità del partito.

A livello nazionale, i tre candidati giocano una partita aperta. Pierluigi Bersani è il leader del ‘partito degli amministratori’, la parte più moderna di un mondo antico, di cui la benedizione dalemiana è l’aspetto più ingombrante e caratterizzante. Dario Franceschini rivendica invece il ‘progetto nuovo’, allargato alla società civile e più caratterizzato contro le vecchie componenti. Ignazio Marino, l’outsider, gioca più una partita di principi e d’opinione. I bookmakers interni danno vincente Bersani nell’apparato e quindi al congresso, Franceschini tra i simpatizzanti e quindi alle primarie, mentre Marino rappresenterebbe una candidatura d’élite, sostenuta soprattutto da giovani, intellettuali e nuovi iscritti.

E in Veneto? Il rischio è che, appiattendosi sulle mozioni nazionali, pur decisive nell’articolare la futura geografia interna del PD, i candidati perdano in specificità territoriale, e non riescano a rendere visibile quel partito radicalmente ‘nordista’ e federalista, sanamente critico rispetto al PD romanocentrico, che la stragrande maggioranza di iscritti e simpatizzanti vorrebbe: senza più candidati paracadutati dall’alto e strategie decise a Roma, con gli splendidi risultati visti per esempio alle europee (nemmeno un veneto eletto a Strasburgo).

Il senso del congresso, e più ancora delle primarie, tanto più per un partito al suo primo vero appuntamento di democrazia interna, è di parlare di contenuti e selezionare i migliori. I contenuti stanno emergendo con l’avanzare del dibattito. Quanto alla selezione dei migliori, essa potrà avvenire solo se i candidati non saranno ingabbiati nelle mozioni nazionali, di cui si ergano a rappresentanti. Se, cioè, non ci si limiterà a una replica in sedicesimo degli equilibri nazionali, con candidati che rappresentano le mozioni, e votati solo perché indicati dalle rispettive componenti, a prescindere dalle loro qualità e capacità.

Se i congressi sono la prima tappa, la seconda, per produrre uno svecchiamento e un rinnovamento reale, è che si avviino primarie a tappeto: per selezionare i gruppi dirigenti e ancor più, dall’anno prossimo, per stabilire le liste dei candidabili, dal livello regionale in su. Se gli apparati si mostrano incapaci di superare gli steccati del passato, sarà decisiva la partecipazione e la spinta dei simpatizzanti.

Per un partito che porta l’aggettivo democratico nella sua stessa ragione sociale, questo processo è indispensabile. I partiti schiacciati sul leader, i cui congressi sono delle mere passerelle di gruppi dirigenti, si possono consolare con il potere e le prebende, premiati come sono, attualmente, da un consenso diffuso. Il PD no: il consenso lo deve riconquistare. E, in Veneto, partendo da una situazione particolarmente svantaggiata e sfavorevole, anche per sua responsabilità. Partire dal territorio e da un meccanismo coinvolgente di selezione della sua classe dirigente è la sua sola possibilità di farcela.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 18 settembre 2009, p. 17