Un altro femminicidio. Che però è categoria astratta, con un che di giuridico e di impersonale. Diciamola diversamente. Un altro assassinio di una donna da parte di un uomo. Con una sola motivazione: perché lei era una donna e lui un uomo. Se non ragioniamo così, se non ce la diciamo così, l’uccisione di Sara Buratin rischia di essere solo un caso di violenza tra tanti (proprio perché l’ennesimo, sempre meno rilevante in sé), un numero aggiunto a una statistica, e niente più. Non possiamo, oltre tutto, derubricarlo a violenza generica: è violenza di genere, che è cosa diversa. Sono ancora troppo freschi il dolore, l’emozione, la partecipazione, la mobilitazione seguiti all’omicidio di Giulia Cecchettin: che ci hanno fatto ragionare, riflettere, fare autocritica anche (come uomini, anzi, come maschi, in primo luogo). Purtroppo, come si è visto, non tutti, non abbastanza, non sufficientemente a fondo.
Forse il solo modo di capire veramente cosa è successo, è vederlo da dentro, come sanno fare solo l’introspezione e l’empatia, o l’arte, attraverso la capacità di mettersi davvero nei panni degli altri, e dentro le cose. Provare a immaginare, se non capire, quello che avrebbe potuto pensare e sentire Sara nei suoi ultimi istanti. Sapere di avere condiviso con il tuo uomo quasi due decenni di vita in comune, le parole dette, le risate serene, le tenerezze scambiate, l’intimità complice, pelle contro pelle, l’amore dichiaratosi vero e duraturo, la nascita di una figlia, i momenti della sua crescita, le gioie banali ma profonde che sono di tutte le famiglie, un repertorio di avvenimenti, di aneddoti e di ricordi, di pasti consumati insieme, di compleanni, di vacanze. E capire solo all’ultimo, mentre la lama affonda nel collo, che è stato capace di premeditare il tuo omicidio, di usare una scusa banale per venire a casa, di colpirti vigliaccamente alle spalle in maniera efferata, una, due, venti coltellate, lasciandoti lì, nel tuo sangue, e poi scappare, sì, scappare, altrettanto vigliaccamente, senza pensare a te, senza pensare a tua figlia, che adesso hai orrore a pensare vostra, anche sua, la rabbia, la disillusione, lo schifo che proveresti ora, a pensare di essere stata così tanto tempo con un uomo capace di tutto questo – se fossi sopravvissuta…
No, non è un altro caso di omicidio-suicidio. È persino sbagliato definirlo così, perché mette le due cose sullo stesso piano. E non lo sono. Perché l’assassino ha potuto scegliere: la vittima no. E comunque il secondo, il suicidio, non spiega né tanto meno giustifica, o sminuisce, il primo. Anche Filippo, l’assassino di Giulia, ha detto che voleva farla finita, ma non ne ha avuto il coraggio. Alberto ha solo portato a termine il suo proposito, tutto qui. Questo, di certo, non lo rende migliore, non lo scusa, non produce attenuanti o sfumature nel giudizio. No, non è un fatto solo individuale, una storia irripetibile. E lo sappiamo proprio perché si ripete. Con agghiacciante e inesorabile frequenza. È il segno di un modo di pensare specifico, figlio di una cultura e di un’epoca. Che, certo, ha millemila spiegazioni anche individuali. Che, certo, vanno analizzate nella loro soggettività. Ma anche ricondotte alla loro radice (non ragione: non c’è ragione) comune: che è un’idea di donna, e di uomo, e di potere nella relazione tra i due. Che rende la donna proprietà dell’uomo. Di cui può disporre, come un padrone dispone di uno schiavo, che considera oggetto, merce in fondo, e non persona. Perché lei è una donna e tu un uomo, appunto. Senza bisogno di (altre) ragioni.
Poi, certo, si può provare a confrontare, a comparare. Scoprire che in fondo entrambi, Alberto, l’assassino di Sara, e Filippo, il killer di Giulia, differenza d’età (non diciamo di maturità, che non c’era) a parte, erano uomini incapaci di una relazione adulta, consapevole, veramente di scambio, disponibile a valorizzare l’altra persona; anzi svalorizzandola al punto da renderla cosa, priva di individualità e personalità, di cui è possibile e lecito sbarazzarsi. Uomini taciturni, solitari, o meglio soli, anche quando in compagnia. Non perché amanti di una solitudine consapevole e scelta, ma perché incapaci di relazione all’interno delle relazioni che pure instauravano, e da cui dipendevano. Poi, certo, non in tutti i casi è così. Quello che hanno veramente in comune, di fondo, è l’essere uomini contro le donne. Come abbiamo cercato di dire. Come temiamo di dover ripetere ancora.
Uomini contro le donne, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 marzo 2024, editoriale, p.1-5
La società trans. Sulla transizione di genere
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaMolti lo considerano un lusso inutile, quando non una perversione della modernità. E quando la regione Veneto l’ha istituito, con il sostegno convinto del presidente Zaia, che l’ha definito “una scelta di civiltà” (come per altri temi che riguardano la libertà di scelta, inclusa quella di morire con dignità attraverso il suicidio assistito, la cui regolazione è stata invece bocciata), ci sono stati molti mugugni ed esplicite proteste anche nella sua maggioranza. Parliamo del “Centro di riferimento regionale per l’incongruenza di genere e il cambio di sesso”, assegnato ufficialmente da marzo 2023 all’ospedale di Padova.
Perché non è una fisima né uno scandalo? Perché è doveroso occuparsene? Perché non siamo solo una società in cui ci sono delle persone, che chiamiamo trans, che non si identificano con il proprio corpo e che vorrebbero attivare o almeno vedere riconosciuta una qualche forma di transizione di genere, ed è doveroso tenerne conto. Ma perché siamo una società trans: in perenne transizione, trasformazione, accelerazione. Pensiamo solo a come saremo cambiati non tra dieci anni o tra cinque, ma anche solo tra due, a causa dei giganteschi processi trasformativi innescati dall’intelligenza artificiale: anche sul piano dell’identità, della personalità, dei diritti di ciascuno di noi. Ecco, quello dell’identificazione di genere, che implica quello della transizione, è un pezzo, uno dei tanti, di questa trasformazione. Ma anche uno dei più simbolici e significativi, perché va a toccare non solo degli elementi interiori, ma può anche (non sempre, e in forme molto diverse) toccare l’esteriorità del corpo, la sua visibilità e la sua manipolabilità, la sua riconoscibilità per gli altri (perché sono gli altri che hanno il problema maggiore, non i diretti interessati, che se ne fanno una ragione e vorrebbero solo essere liberi di attivare scelte individuali di cambiamento). Peraltro, questo avviene anche in altri ambiti, anche se ci facciamo meno caso: l’aggiungere al corpo chip, protesi meccaniche, potenziamenti farmacologici, manipolazioni genetiche, è un modo di avvicinarci a quel transumano che è una delle grandi questioni del nostro tempo, e di cui la transizione di genere non è in fondo che un elemento, un caso persino minore. Allo stesso tempo è una formidabile occasione per farci uscire da un binarismo forzato che è sì un potente archetipo culturale, ma anche una evidente forzatura ideologica: che presuppone una coerenza e una linearità di identificazioni che è più difficile trovare nella realtà di quanto si creda. Basti pensare alla fragilità intrinseca, alla rigidità spesso farlocca, di distinzioni e separazioni date per assodate: non solo quella tra maschile e femminile (come vediamo dai casi in oggetto, non evidente e immediata per tutti), ma anche tra eterosessuale e omosessuale (come se non si passasse attraverso fasi, sperimentazioni, identificazioni diversificate, spesso sovrapposte, non di rado ambigue, e cambiamenti), e potremmo ovviamente arrivare a bello e brutto, buono e cattivo, destra e sinistra, oriente e occidente.
Ci sono persone, molte, che fanno fatica a identificarsi con il proprio corpo: con la chirurgia estetica abbiamo sdoganato – e consideriamo lecita – l’idea di modificarlo, che non fa più scandalo ed è anzi sempre più diffusa. La questione dell’identità di genere va molto più nel profondo, tuttavia. Perché la non identificazione tra il proprio sesso biologico e la propria identità di genere (o la messa in discussione del rapporto tra le due cose), tra quello che appare e come ci si sente – conosciuta sotto il nome di disforia di genere – è un malessere, o un problema, che produce una profonda sofferenza, con sintomi di ansia, depressione, autolesionismo, tendenze suicidarie. E se si può uscirne, perché non farlo?
Non si tratta, tra l’altro, dell’invenzione di qualche fantomatico propalatore di una inesistente teoria gender. Il fatto che solo il centro di Padova riceva 14 nuovi pazienti a settimana (che significa oltre 700 l’anno – mentre a livello nazionale si parla di 400mila persone coinvolte) significa che il problema è più diffuso di quel che crediamo. Il fatto poi che tra questi ci siano anche degli over 60 mostra che il problema non è nuovo: nuovo è solo che finalmente se ne possa parlare, e ci sia la possibilità (riconosciuta dalla società attraverso il riconoscimento del servizio sanitario pubblico come livello essenziale di assistenza: un elemento fondamentale per questioni simboliche oltre che economiche) di affrontarlo.
Il luogo dove parlarne e praticarlo, abbiamo visto, c’è: e si occupa di consulenza, accertamento, accompagnamento, assistenza, sostegno, terapia ormonale e chirurgia demolitiva (questi ultimi richiesti solo da una parte delle persone che manifestano una disforia di genere). Si chiede solo di aggiungere l’ultimo tassello, che una quota minoritaria delle persone coinvolte richiede: la chirurgia ricostruttiva, che un altro paio di realtà italiane già riconoscono. Ci sembra un tassello legittimo. Che la regione Veneto, che si è mostrata all’avanguardia nell’affrontare il tema, ed è giusto dargliene atto, potrebbe attivare senza difficoltà. Come in ogni cammino, una volta fatto il primo passo, gli altri vengono da sé.
Siamo una società “trans”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 marzo 2024, editoriale, p. 1-7
La normalità dell’immigrazione, l’ipocrisia di chi è “contro”
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaLe migrazioni sono come i trasporti, la sanità, il commercio, l’istruzione, l’assistenza sociale, la manutenzione delle strade o del verde pubblico: un dato strutturale della società. Come tale, e come ogni elemento che impatta sulla vita collettiva, va gestito, governato: bisogna, insomma, occuparsene. Se non lo si fa, lo capiamo tutti, è un disastro. Se nessuno programmasse gli orari degli autobus, le prenotazioni delle visite e la gestione del pronto soccorso, gli spazi di mercato e il rilascio delle licenze, la costruzione e la gestione delle scuole, l’aiuto ai disabili o alle vittime di violenza, il rattoppo delle buche e lo sfalcio dell’erba, sarebbe il caos: e infatti, quando non funzionano, ce ne accorgiamo eccome, delle conseguenze, e protestiamo. Mentre, se governati, tutti questi fenomeni, tutti questi processi, sono un aiuto fondamentale per la nostra vita: non un problema, ma una soluzione a un problema. E infatti questo chiediamo a chi ci rappresenta, dai sindaci alle regioni fino al governo nazionale. E questo la politica dovrebbe fare.
Invece, quando si tratta di migrazioni, ci limitiamo a essere “contro”: che è come essere contro i trasporti, la sanità, il commercio, l’istruzione, l’assistenza sociale, la manutenzione, e già che ci siamo anche il maltempo. Nessuno vuole occuparsene: né i sindaci, che infatti, in grandissima maggioranza, evitano accuratamente di farlo, e spesso strumentalizzano i migranti come capro espiatorio di problemi di cui sono la conseguenza e non la causa; né la regione, che non dà indicazioni e non ha alcuna cabina di regia, né per l’accoglienza né per l’integrazione (e quando si è mossa, l’ha fatto più per ostacolare l’integrazione che per gestirla: dalle leggi “prima i veneti” a quelle contro le moschee); mentre il governo è obbligato a farlo, ma lo fa nella stessa logica, cercando di limitare gli arrivi ma senza governarne le conseguenze, con provvedimenti spot e in qualche modo emergenziali anziché con un strategia di lungo periodo. Con il risultato paradossale di ottenere precisamente quello che tutti a parole dicono di voler evitare: il caos.
È un corto circuito che ci coinvolge tutti, non solo chi ci governa, perché i primi complici sono i cittadini e gli elettori. Tu, cittadino, sei contro gli immigrati, quindi dai il voto a chi te lo chiede per lo stesso motivo; una volta eletto questi non farà nulla per risolvere problemi che gli garantiscono una facile rendita elettorale, e dopo tutto rispondono al mandato ricevuto: e così i problemi si incancreniscono, nella comoda complicità di tutti, perché di ogni problema è più facile non occuparsene, ancora meglio se legittimati da qualche semplice slogan ideologico, che tirarsi su le maniche e affrontarli.
Dopodiché tutti quanti vogliamo mangiare al prezzo minore possibile il cibo raccolto dagli immigrati, beviamo il (e ci arricchiamo con) il vino vendemmiato da loro, abitiamo nelle case costruite da loro (che poi ci rifiutiamo di dar loro in affitto) e da loro pulite, acquistiamo merci movimentate da loro (dal carico e scarico in magazzino al camioncino che le consegna fino alla bancarella in piazza), ci vantiamo di record turistici che senza il loro lavoro in hotel e ristoranti non raggiungeremmo mai, affidiamo loro i nostri anziani non autosufficienti, i nostri malati e i nostri bambini perché se ne prendano cura, e nemmeno ci accorgiamo che sono una quota sempre più rilevante di coloro che, come operai, producono le merci che vendiamo, utilizziamo ed esportiamo – e sono nostri clienti come consumatori. Ma siamo “contro”, e quindi non gestiamo il fenomeno, e ci laviamo la coscienza con quello. Possiamo dire che è una intollerabile ipocrisia? Che chiedere il voto, e darlo, per questa ragione è un’impostura, e per giunta una truffa che ci autoinfliggiamo, facendo del male a noi stessi oltre che a loro?
Non c’è esempio migliore che quello dell’accoglienza per dimostrarlo. Non apriamo canali regolari di ingresso, e quindi arrivano irregolarmente e chiedono asilo. Il governo li ridistribuisce sul territorio, ma i comuni, con il sostegno masochistico dei loro cittadini, che sono “contro”, non attivano i SAI (che sono protocolli per l’accoglienza gestiti dalle amministrazioni, con la collaborazione del privato-sociale), e quindi le prefetture finanziano i CAS (centri di accoglienza straordinaria, a scopo di lucro), i cui bandi peraltro spesso finiscono per andare deserti perché offrono cifre ridicolmente basse, e con gli ultimi decreti approvati dal governo escludono esplicitamente proprio le attività che favoriscono l’integrazione, a partire dall’insegnamento dell’italiano. Risultato? L’integrazione funziona male (o funziona comunque, ma con più difficoltà e maggiori costi umani e materiali; e non grazie alla politica, ma nonostante essa), e il ciclo ricomincia. Fino a quando andremo avanti con questa assurda pantomima?
L’ipocrisia di quelli che sono “contro” e non se ne occupano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 24 marzo 2024, editoriale pp. 1-6
Neanche il coraggio di manifestare… Il dramma a Gaza, l’indifferenza da noi
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da AugustaLe notizie e le immagini che arrivano da Gaza hanno un’evidenza devastante. La disperazione, la fame, la sofferenza sono sempre più chiaramente documentate. Il massacro di bambini, di donne, di civili (inclusi medici, insegnanti, reporter, infermieri, operatori umanitari…), di persone comunque innocenti è sotto gli occhi di tutti. Così come lo è l’arroganza che fa dire ad autorevoli membri del governo israeliano, senza alcuna resipiscenza, che non si fermeranno, che su quelle terre vogliono eradicare la presenza organizzata palestinese, deliberando sotto gli occhi del mondo, in questo stesso momento, nuove operazioni militari e nuovi insediamenti illegali di coloni, che protrarranno quell’orrore e ne saranno complici. Tutto ciò è di solare evidenza. Nessuno può dire di non sapere.
Certo, tutto questo avviene in reazione all’orribile massacro, che va condannato con ogni forza, del 7 ottobre, in cui sono state uccise oltre milleduecento persone, ugualmente in gran parte civili, anche qui donne, bambini, anziani, a cui vanno aggiunti centinaia di feriti, e i prigionieri ancora nelle mani di Hamas. E chi tale azione ha pianificato e perpetrato, sapeva che ci sarebbe stata una reazione dura, e puntava precisamente a scatenarla. Non ci sono giustificazioni, quindi (come potrebbero?), e i palestinesi dovranno fare i conti anche al loro interno, con i complici e i suscitatori del massacro, e con chi – moltissimi – ha simpatizzato con loro e le loro tecniche di guerra. Ma la reazione israeliana è andata ormai oltre qualsiasi proporzionalità: la rappresaglia – di questo si tratta, e va chiamata con il suo nome – ha perso ogni rapporto con il danno subìto. Senza dimenticare che la storia del conflitto israelo-palestinese non comincia il 7 ottobre: c’è un pregresso, da ambo le parti, di stragi, attentati, uccisioni di civili, mancato riconoscimento dell’esistenza politica e umana dell’altro, ma anche l’ordinarietà di un’occupazione militare che va avanti da decenni, con la sua lunga teoria di sofferenze quotidiane, di angherie volute, di soprusi istituzionalizzati, di colonizzazioni illegali, che vuol dire furti di terra, di case, di speranza e di futuro. Siamo arrivati a un grado di cinismo e di disumanizzazione raccapricciante, non solo dell’avversario, ma anche di sé: le grida di gioia e il disprezzo esibito di terroristi e di soldati quando si colpisce l’avversario sono parte di questo processo.
Eppure, di fronte a tutto ciò, siamo sorprendentemente inerti. Qualche blanda dichiarazione. Quasi nessuna manifestazione di peso significativo. Forse il solo vero atto politico compiuto, a cui è doveroso plaudere (ma che era maturato già prima del 7 ottobre), è stato il rifiuto dell’accreditamento del nuovo ambasciatore israeliano, grande supporter delle colonizzazioni illegali. Tutto questo ci dice qualcosa su di noi. In altri paesi europei, dalla Spagna alla Germania, dall’Olanda alla Francia, passando per la Gran Bretagna, ci sono state mobilitazioni anche numericamente massicce: di adulti, non solo di studenti. E il linguaggio mediamente usato dalla politica e dai media europei – anche in Israele (a testimonianza del fatto che in questione non è un popolo o una nazione, che resta una democrazia e su altri piani un esempio, ma le scelte del suo governo) – è assai meno blando e accondiscendente rispetto alle ragioni del governo di Israele di quello corrente da noi. Il ceto politico, quanto meno, si mostra circospetto: e lo si è visto mobilitarsi in prima persona, mettendoci doverosamente la faccia, più per la morte di Navalny che per quella di oltre trentamila palestinesi, per un terzo bambini.
Di fronte a questo, le poche e certo non oceaniche manifestazioni degli studenti italiani, di giovani e giovanissimi che vanno in piazza contro quanto sta accadendo, e contro la nostra indifferenza, sono un qualcosa che dovrebbe farci riflettere. Certo, sono piene di ingenuità, di semplificazioni della realtà, spesso anche di unidirezionalità, di strumentalizzazioni. Ma almeno dicono qualcosa, e sollevano una domanda: la cui risposta non dovrebbe stare nei manganelli e nel paternalismo facile (“se fate i bravi e rispettate le norme non vi succede niente”), ma richiedere un supplemento di riflessione. E magari anche di partecipazione.
La nostra colpevole inerzia, in “Corriere della sera. Corriere del Veneto”, 17 marzo 2024, editoriale, pp.1-3
Immigrati: politica senza strategia. Tra nuovi sbarchi e vecchie ossessioni ideologiche.
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaGli sbarchi non si fermano, e le morti nel Mediterraneo neppure: è di questi giorni l’ennesima tragedia, con forse una sessantina di morti, a fronte di venticinque sopravvissuti, raccolti e salvati per caso dalla Ocean Viking, la nave dell’organizzazione francese SOS Méditerranée. E questa è la prima notizia d’attualità. La seconda è che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ritenuto di non concedere la procedura d’urgenza per l’esame di un aspetto del cosiddetto decreto Cutro: la garanzia finanziaria da quasi cinquemila euro che gli immigrati, anche appena sbarcati, che non vogliono entrare nei CPR, i Centri per il rimpatrio, dovrebbero versare allo stato. È in apparenza un tecnicismo, ma potrebbe avere conseguenze anche sull’applicazione dell’accordo tra Italia e Albania per la gestione in terra albanese delle pratiche dei richiedenti asilo che tentano di arrivare in Italia. Insieme, queste due notizie mostrano l’assenza totale di una strategia seria di gestione delle migrazioni, e il ricorso a sole iniziative di facciata, quasi sempre contraddittorie e prive di un obiettivo pratico reale.
Cominciamo dagli sbarchi. Che, di per sé, non sono certo colpa del governo: né di questo né dei precedenti. Ma che mostrano la mancanza di coraggio degli uni e degli altri nell’affrontare il problema alla radice. La questione è più semplice di quello che sembra. In passato esistevano dei flussi regolari di manodopera immigrata, e una quota percentuale molto più piccola di ingressi irregolari. Da alcuni decenni a questa parte, per rispondere alle paure della pubblica opinione – di per sé comprensibili, ma che andrebbero informate e guidate, non seguite – sono stati progressivamente chiusi la gran parte dei canali regolari di ingresso, in particolare per lavoro. L’inevitabile risultato è stato il rovesciarsi delle percentuali: una maggioranza di immigrazioni irregolari, e una quota percentuale relativamente piccola di ingressi regolari. L’unica cosa seria da fare per combattere le immigrazioni irregolari sarebbe dunque (ri-)aprire canali di immigrazione regolare con gli stessi paesi di origine e di transito da cui arrivano i flussi irregolari, coinvolgendoli nella responsabilità della gestione dell’irregolarità in cambio del vantaggio di canali sicuri, di cui peraltro abbiamo noi stessi un enorme bisogno (quantificabile in almeno duecentomila ingressi l’anno per l’Italia, e due milioni per l’Europa, solo per mantenere in relativo equilibrio la forza lavoro necessaria, a fronte di una demografia completamente squilibrata, in cui calano drammaticamente le nascite e aumentano i pensionati). Per non dover ammettere questa evidente verità, di cui stiamo già pagando il prezzo, ci si limita a ostacolare con provvedimenti improvvisati una immigrazione irregolare che, in mancanza di alternative, non potrà che crescere. Come si fa con i provvedimenti, meramente punitivi, contro le ONG, con l’assegnazione di porti lontani (che produce solo più costi e più morti, senza alcun vantaggio per nessuno), o l’impedimento di salvataggi multipli. La stessa Ocean Viking era appena ripartita dopo un fermo amministrativo di mesi, proprio per questa ragione: che è come se a ciascuno di noi, dopo aver salvato la vittima di un incidente stradale, sulla strada per l’ospedale ci fosse vietato – per legge! – di salvare un altro ferito trovato lungo il percorso.
La seconda questione riguarda la singolare proposta, uscita dal cappello di un consiglio dei ministri dell’autunno scorso e mai discussa prima, di inventarsi una cauzione da 4938 euro che gli immigrati provenienti da paesi detti ‘sicuri’ dovrebbero pagare per non entrare nei CPR. A parte l’inapplicabilità e la totale assenza di senso della realtà (si parla di fidejussioni, trattandosi di persone neosbarcate che difficilmente quella cifra la possiedono, quando anche per un italiano una polizza fidejussoria presuppone dichiarazione dei redditi, proprietà, un lavoro fisso e banalmente una residenza), anche questa norma, come quelle sulle ONG e molte altre, mostra di essere improntata a un inutile cattivismo, che pare ben più reale del buonismo di cui sono accusate, un giorno sì e l’altro pure, le organizzazioni che queste politiche contrastano. E destinata, come del resto l’accordo con l’Albania, non a risolvere un problema, ma solamente a mandare un segnale politico e propagandistico all’opinione pubblica: un modo di dire che si sta facendo qualcosa, tamponando o terziarizzando il fenomeno, senza nemmeno cominciare ad affrontarlo davvero.
Veniamo, per l’appunto, alla ratio degli accordi siglati. Pensare di gestire le richieste d’asilo, rivolte all’Italia, dall’Albania è come pensare di risolvere il problema dei ritardi nella sanità aprendo un ospedale a Tirana, portandoci medici, infermieri e pazienti italiani: sarebbe un costo enorme (non solo le centinaia di milioni di euro per attrezzare una base, ma costi di gestione gonfiati oltre tutto anche dalle indennità di trasferta all’estero…), non velocizzerebbe le pratiche (se lo facesse non si capisce perché le stesse persone non potrebbero analizzarle negli stessi tempi in Italia), creerebbe un sacco di problemi pratici (possiamo immaginare celerità ed efficacia, oltre che rispetto dei diritti, di udienze svolte tramite interprete con giudici e avvocati in videoconferenza). Si tratta di un fallimento annunciato, a cui tuttavia la lentezza di risposta della UE rischia di dare un alibi: se non si riesce a farlo in tempo per le elezioni europee (questa era probabilmente la vera ragione della decisione: raggiungere un elettorato spaventato con un messaggio di furbesca anche se inefficiente protezione), sarà pur sempre possibile dare colpa all’Europa della mancata attuazione.
Non che non si debbano fare accordi con gli altri paesi: al contrario, è la cosa giusta da fare. Ma su altre basi. E, aggiungiamo, con altri obiettivi: selezionare e formare la manodopera in accordo con i bisogni dell’economia, per esempio. Non fare finta che se ne possa fare a meno lanciando segnali generici e anche un po’ obliqui di rifiuto e di esternalizzazione. Prendere in mano, insomma, i problemi, nei loro termini reali. Con più spirito pragmatico e meno vocazione ideologica. Allo scopo di risolverli, non di rilanciare slogan più o meno nazionalistici (che peraltro vanno contro l’interesse nazionale).
L’accordo Italia-Albania ha i piedi d’argilla, perciò l’Europa lo boccia, in “Il Riformista”, 16 marzo 2024, p. 6
La politica, il conformismo, il dissenso. Riflessioni a partire dal caso Da Re
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da AugustaL’espulsione dell’europarlamentare Toni Da Re dalla Lega è notizia di costume, non solo politica, che può suscitare qualche riflessione più larga del suo caso personale e di quello del suo partito. Toni Da Re è certamente personaggio sanguigno: e, peraltro, il suo consenso personale era dovuto precisamente a questo. Le sue esternazioni – ad esempio sull’immigrazione e altri temi – spesso discutibili e tranchant. Ma il ‘reato’ per cui è stato punito non è questo: quelle stesse posizioni sono apertamente condivise e spesso incoraggiate, nel suo ex partito. Quello che non è incoraggiato, anzi è proprio vietato, come si è visto, è la critica al leader, che diventa immediatamente reato di lesa maestà.
Ufficialmente, come noto, è stato infatti espulso per aver dato del “cretino” al suo capo politico, Salvini: in realtà il suo dissenso è più largo e radicato nel tempo. Ecco, la questione del dissenso è una prima chiave di lettura: la Lega non lo tollera. Non a caso era stata definita, fin dai suoi albori, l’ultimo partito leninista, in cui il centralismo democratico di antica memoria comunista è il metodo di governo interno, ferreo, del partito stesso. Il che ha prodotto una antropologia persino umiliante per chi la rappresenta. Raro il dibattito interno, clamorosa la mancanza di discussione a fronte di svolte a 180 gradi della linea politica e delle alleanze, ridondante la presenza di yesmen e di yeswomen, irritante il livello di culto della personalità: già con il suo fondatore, Bossi. Solo per fare un ironico confronto, se nel Partito Democratico fossero stati espulsi tutti i dirigenti, rappresentanti e militanti che hanno considerato cretino il o la loro leader di turno, e l’hanno esplicitato in varia forma, avrebbe certamente più epurati che iscritti.
Quella dell’essere proni al leader, che dopo tutto è il garante ultimo di una carriera politica che è anche un redditizio modo di sfangarsela nella vita, non è tuttavia solo una prerogativa della destra, e per motivi per così dire di destra: perché ama l’uomo (o la donna) forte al comando. Fu così anche per Berlusconi, certo, e non sembra di vedere un gran dissenso intorno a Meloni, che ha affidato il controllo interno del partito alla sorella, ma non è che con Renzi e molti altri, anche di partiti minuscoli della galassia di centro, di destra o di sinistra, del passato o del presente, questo atteggiamento sia da meno, o meno visibile. In altre stagioni politiche tanto Almirante che Berlinguer erano oggetto di un’obbedienza e di un consenso acritico che è il minimo considerare preponderanti. Quello dell’obbedienza cieca, pronta, prona e assoluta non è un tema di parte, ma della politica nel suo complesso, e in particolare dei leader carismatici, capaci di trascinare consenso. Ed è questo che dovrebbe farci riflettere. La politica incoraggia un modo di essere e di appartenere – appunto obbediente, acritico, privo di coraggio e di responsabilità – che invece chiediamo alla scuola di insegnare, per statuto e mestiere. E non notiamo la contraddizione. In altre aree della vita sociale (a scuola appunto, in famiglia, ma è il mestiere anche di educatori, psicologi, coach sportivi, animatori, per non parlare del mondo dell’arte in tutti i suoi aspetti: cantanti, attori, registi…) diciamo di voler incoraggiare l’autonomia, lo spirito critico, la creatività, il libero pensiero, il coraggio di difendere le proprie opinioni e di pagarne le conseguenze, di essere minoranza, di cercare strade solitarie, l’anticonformismo anche. In politica, invece, vengono premiate le qualità, o i vizi, opposti: l’obbedienza, l’acriticità, la subordinazione a costo dell’umiliazione personale, il conformismo – le proprie idee devono essere le idee del capo e del partito, altrimenti è meglio non dichiararle. E su questo sarebbe utile riflettere. Finché non cambieranno i meccanismi premiali e la forma organizzativa stessa della politica (ma vale anche per altri ambiti di impegno collettivo, come la religione, per non parlare del mondo militare) ci sarà uno scollamento tra i valori dichiarati rilevanti nel privato e quelli praticati in pubblico. A cui corrisponde una specifica forma di schizofrenia, per la quale tuttavia non si vedono terapeuti, né forme di guarigione.
La lesa maestà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 marzo 2024, editoriale, p. 1-2
Uomini contro le donne. Giulia, Sara e le altre.
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaUn altro femminicidio. Che però è categoria astratta, con un che di giuridico e di impersonale. Diciamola diversamente. Un altro assassinio di una donna da parte di un uomo. Con una sola motivazione: perché lei era una donna e lui un uomo. Se non ragioniamo così, se non ce la diciamo così, l’uccisione di Sara Buratin rischia di essere solo un caso di violenza tra tanti (proprio perché l’ennesimo, sempre meno rilevante in sé), un numero aggiunto a una statistica, e niente più. Non possiamo, oltre tutto, derubricarlo a violenza generica: è violenza di genere, che è cosa diversa. Sono ancora troppo freschi il dolore, l’emozione, la partecipazione, la mobilitazione seguiti all’omicidio di Giulia Cecchettin: che ci hanno fatto ragionare, riflettere, fare autocritica anche (come uomini, anzi, come maschi, in primo luogo). Purtroppo, come si è visto, non tutti, non abbastanza, non sufficientemente a fondo.
Forse il solo modo di capire veramente cosa è successo, è vederlo da dentro, come sanno fare solo l’introspezione e l’empatia, o l’arte, attraverso la capacità di mettersi davvero nei panni degli altri, e dentro le cose. Provare a immaginare, se non capire, quello che avrebbe potuto pensare e sentire Sara nei suoi ultimi istanti. Sapere di avere condiviso con il tuo uomo quasi due decenni di vita in comune, le parole dette, le risate serene, le tenerezze scambiate, l’intimità complice, pelle contro pelle, l’amore dichiaratosi vero e duraturo, la nascita di una figlia, i momenti della sua crescita, le gioie banali ma profonde che sono di tutte le famiglie, un repertorio di avvenimenti, di aneddoti e di ricordi, di pasti consumati insieme, di compleanni, di vacanze. E capire solo all’ultimo, mentre la lama affonda nel collo, che è stato capace di premeditare il tuo omicidio, di usare una scusa banale per venire a casa, di colpirti vigliaccamente alle spalle in maniera efferata, una, due, venti coltellate, lasciandoti lì, nel tuo sangue, e poi scappare, sì, scappare, altrettanto vigliaccamente, senza pensare a te, senza pensare a tua figlia, che adesso hai orrore a pensare vostra, anche sua, la rabbia, la disillusione, lo schifo che proveresti ora, a pensare di essere stata così tanto tempo con un uomo capace di tutto questo – se fossi sopravvissuta…
No, non è un altro caso di omicidio-suicidio. È persino sbagliato definirlo così, perché mette le due cose sullo stesso piano. E non lo sono. Perché l’assassino ha potuto scegliere: la vittima no. E comunque il secondo, il suicidio, non spiega né tanto meno giustifica, o sminuisce, il primo. Anche Filippo, l’assassino di Giulia, ha detto che voleva farla finita, ma non ne ha avuto il coraggio. Alberto ha solo portato a termine il suo proposito, tutto qui. Questo, di certo, non lo rende migliore, non lo scusa, non produce attenuanti o sfumature nel giudizio. No, non è un fatto solo individuale, una storia irripetibile. E lo sappiamo proprio perché si ripete. Con agghiacciante e inesorabile frequenza. È il segno di un modo di pensare specifico, figlio di una cultura e di un’epoca. Che, certo, ha millemila spiegazioni anche individuali. Che, certo, vanno analizzate nella loro soggettività. Ma anche ricondotte alla loro radice (non ragione: non c’è ragione) comune: che è un’idea di donna, e di uomo, e di potere nella relazione tra i due. Che rende la donna proprietà dell’uomo. Di cui può disporre, come un padrone dispone di uno schiavo, che considera oggetto, merce in fondo, e non persona. Perché lei è una donna e tu un uomo, appunto. Senza bisogno di (altre) ragioni.
Poi, certo, si può provare a confrontare, a comparare. Scoprire che in fondo entrambi, Alberto, l’assassino di Sara, e Filippo, il killer di Giulia, differenza d’età (non diciamo di maturità, che non c’era) a parte, erano uomini incapaci di una relazione adulta, consapevole, veramente di scambio, disponibile a valorizzare l’altra persona; anzi svalorizzandola al punto da renderla cosa, priva di individualità e personalità, di cui è possibile e lecito sbarazzarsi. Uomini taciturni, solitari, o meglio soli, anche quando in compagnia. Non perché amanti di una solitudine consapevole e scelta, ma perché incapaci di relazione all’interno delle relazioni che pure instauravano, e da cui dipendevano. Poi, certo, non in tutti i casi è così. Quello che hanno veramente in comune, di fondo, è l’essere uomini contro le donne. Come abbiamo cercato di dire. Come temiamo di dover ripetere ancora.
Uomini contro le donne, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 marzo 2024, editoriale, p.1-5
Fine vita: modello veneto, modello emiliano
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles /da AugustaLa regione Emilia-Romagna, con una delibera, ha stabilito che chi chiede il suicidio assistito (in cui, lo ricordiamo, è il paziente ad autosomministrarsi il farmaco letale), ha diritto ad ottenerlo entro tempi certi (42 giorni), rispettando determinate condizioni. L’atto recepisce una sentenza della Corte costituzionale del 2019, rimasta finora inapplicata, tanto che l’associazione Luca Coscioni ha raccolto in ogni regione le firme per chiedere l’approvazione di una norma specifica. La sentenza, infatti, dichiara non perseguibile penalmente l’assistenza al suicidio assistito di chi lo chiede; spetta tuttavia alla politica attuarne nella pratica le linee di indirizzo. Ma a livello nazionale – per ignavia, come in molti altri casi – persiste il vuoto legislativo.
Il Veneto aveva scelto la strada dell’approvazione di una legge regionale, ma, nonostante l’appoggio del governatore Zaia, il consiglio regionale l’ha respinta. L’Emilia-Romagna, come si è visto, ha scelto una strada diversa: che è stata criticata sia dall’opposizione di centro-destra che dalla stessa associazione che ha raccolto le firme, che avrebbe preferito una discussione pubblica sul tema.
In termini di metodo non abbiamo una opinione precisa riguardo a quale sia la strada migliore. Visto che il diritto in qualche modo c’è già e si tratta solo di applicarne l’esercizio, evitando l’incongruenza di applicazioni differenziate tra città e città e città e tra ospedale e ospedale, anche all’interno della stessa regione, una discussione pubblica anche locale – in attesa che la faccia il parlamento nazionale – è pleonastica, e una delibera applicativa può benissimo sostituirla: per dirla in sintesi, il meglio (la discussione democratica) rischia di essere nemico del bene, e a volere troppo si rischia di non avere nulla. Anche perché, come si è visto nel caso Veneto, la discussione finisce per non avere nulla a che fare con il caso concreto, e si impaluda nelle nebbie dell’ideologia e di vaghissimi principi mal motivati, ricorrendo a espressioni vuote di contenuto, come un generico diritto alla vita che la norma non mette in alcun modo in questione (semmai, se proprio si pensa sia così, lo fa la sentenza della corte, e su quel piano e a quel livello bisognerebbe discutere). Per spiegare il paradosso in cui siamo, è un po’ come se, una volta approvata una norma sui limiti di velocità, chi non è d’accordo si limitasse a non approvare le delibere applicative: rimarrebbe la norma ma non si avrebbe la sua applicazione. Mentre a chi critica la decisione emiliana da destra, cercando di impedire l’applicazione certa e omogenea del diritto (come è stato fatto anche in Veneto), verrebbe da ricordare che l’unica cosa seria da fare, allora, sarebbe riempire il vuoto legislativo con una norma approvata dal parlamento nazionale: ma è precisamente questa la responsabilità che la politica non vuole assumersi, pur avendocela.
A noi, in un certo senso, l’approccio emiliano, più pragmatico e meno ideologico, ricorda differenze simili in altri ambiti, tra Emilia-Romagna e Veneto. Si pensi all’autonomia. In Veneto un grande squillar di trombe, la celebrazione di un referendum, la pretesa di applicarla a tutte le materie possibili e immaginabili, per principio; in Emilia-Romagna nessun referendum, pochissima retorica, nessun uso elettorale dell’argomento, ma la medesima richiesta, limitata tuttavia ad alcune poche materie in cui si è convinti di poter ragionevolmente far meglio dello stato. E si pensi all’economia: le imprese innovative ci sono dall’una e dall’altra parte, ma in Veneto si dorme ancora sugli allori del non più esistente modello Nordest, ripetendo debolmente la retorica su di esso e una defunta presunzione di essere migliori, mentre in Emilia il pragmatismo e la capacità di costruzione di rapporti con le istituzioni (regione e comuni) e l’università hanno creato un ecosistema il cui effetto è che le imprese crescono di più, fanno più export, producono più occupazione, elaborano più brevetti, offrono salari più elevati, producono meno emigrazione qualificata (anzi, la importano).
Ecco, forse anche nella traduzione dei valori in politica (e la discussione bioetica ne è un ottimo esempio), dovremmo riflettere sul pragmatismo emiliano. Giusto o sbagliato che possa essere, un modello, nella pratica, funziona, producendo un risultato pratico, l’altro no. E forse vale la pena di rifletterci.
in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 febbraio 2024, editoriale, p.1
Giovani migranti e violenza di genere. Una riflessione sui fatti di Catania
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles /da AugustaLo stupro di Catania è un fatto spregevole: di cui è doveroso parlare, anche perché ci spinge a prendere posizione, a schierarci. Una parte della politica e della pubblica opinione, anche da noi, è già arrivata alle conclusioni: è la “prova” che gli stranieri non si possono integrare, che c’è in corso una guerra di civiltà, per cui vanno respinti. E se provassimo, invece, a cambiare punto di vista e narrazione?
L’evento è noto. Un gruppo di sette ragazzi, quasi tutti minorenni, di origine egiziana, sbarcati sulle nostre coste come MSNA (così il gergo burocratico definisce i minori stranieri non accompagnati) ha sequestrato una ragazzina di tredici anni nei bagni pubblici di un parco di Catania, ha immobilizzato il suo fidanzato anch’esso minorenne, e l’hanno violentata in due, mentre gli altri stavano a guardare. Un atto schifoso, coraggiosamente denunciato dalla vittima, per il quale tutti noi vogliamo che paghino, e duramente, i colpevoli.
L’immigrazione c’entra e non c’entra (anche se viene facile additarla come capro espiatorio autoevidente): pochi mesi fa, sempre in Sicilia, questa volta a Palermo, sette ragazzi italiani hanno sequestrato una ragazza in un cantiere, e l’hanno violentata in sei, mentre uno, che la conosceva, filmava il tutto. Con la stessa logica, avremmo dovuto lanciare una campagna contro, che so, i palermitani. Estremizzando il paradosso, potremmo dire che gli immigrati si sono integrati così bene che hanno copiato da noi. Naturalmente non è così. Semmai entrambi gli episodi ci fanno riflettere, e ce n’è davvero bisogno, sulla maschilità tossica, la violenza di branco, la logica del potere di genere e le sue perversioni, la povertà e la sopraffazione insiti nell’immaginario sessuale maschile, secoli di prevaricazione diffusa e quotidiana sulle donne, un’idea predatoria del sesso e forse dell’affettività, il ruolo della pornografia, e tante altre cose – sgradevoli, orribili – su cui è effettivamente doveroso riflettere. Prendiamo tuttavia per buona la cornice interpretativa per cui l’immigrazione giochi un ruolo. In che modo? In come la percepiamo, innanzitutto: in come facilmente attribuiamo agli altri, senza conoscerli, i difetti che forse condividiamo con loro. Ma anche, è giusto rilevarlo, per l’arretratezza di certi costumi, che abbiamo ben ragione a stigmatizzare, in cui la sopraffazione misogina è spesso ancora più pervasiva e quotidiana, e la differenza di potere più accentuata: che tuttavia non sono monopolio o esclusiva di nessuno, e hanno a che fare più con l’arretratezza economica e lo sviluppo civile che non con il colore della pelle, la religione, o la banale provenienza da altrove. Ugualmente, prendiamo il caso dei MSNA, categoria di cui fanno parte i ragazzi di Catania. Constatiamo che sono invenzione recente: in passato erano quasi inesistenti (c’erano i minori, sì, ma al seguito delle famiglie). Oggi i canali regolari di ingresso per migranti non ci sono praticamente più (li abbiamo chiusi noi), con gli adulti siamo severi e cerchiamo di respingerli, con i minori – ipocritamente ma giustamente – molto meno, per cui da alcuni anni a questa parte il fenomeno è in tumultuosa crescita, e sta diventando una piccola bomba sociale a carico della collettività. Perché noi giustamente li iscriviamo a scuola e li mettiamo in comunità (o, almeno, lo facevamo, quando i numeri erano modesti), ma loro spesso vengono con un obiettivo diverso, di mantenimento della famiglia, e non di rado – salvo i pochi meritoriamente salvati da chi se ne occupa – finiscono per scappare dall’una e dall’altra. Se va bene, per ingrossare le fila del lavoro minorile e irregolare. Se va male, per entrare nel mercato della prostituzione e dello spaccio. Ecco, forse una domanda è lecito farsela: se prima non esistevano e oggi sì, non è che un ruolo ce l’ha il modo in cui gestiamo i flussi migratori? E la soluzione è persistere nella chiusura dei canali regolari, o al contrario rovesciare la logica, aprendoli e controllandoli? Spendere sempre meno, come si sta facendo, in politiche di integrazione, tagliando persino i corsi di conoscenza della lingua e della cultura (in cui ci sta anche una diversa concezione dei rapporti di genere), o al contrario spendere di più? E ancora, mettere i MSNA in centri invivibili (visitate quelli presenti nella vostra città, anche in Veneto), ammucchiati in condizioni igieniche e di sovraffollamento allucinanti, senza iniziative e senza progetto, allo sbando, alla rinfusa, o farsi finalmente carico del fenomeno? Che vuol dire anche, semplicemente, occuparsene, visto che la Sicilia ne ospita oltre un quinto, seguono Lombardia, Emilia-Romagna, Calabria, Campania, Puglia, Lazio, Toscana, Friuli, Piemonte, Liguria, e solo al dodicesimo posto c’è il Veneto, appena prima di Abruzzo, Marche, Basilicata, Molise…
Giovani migranti e violenze, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 7 febbraio 2024, editoriale, p.1-3
Italiani all’estero: le implicazioni difficili della cittadinanza facile
/in Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles /da AugustaLa questione delle richieste di cittadinanza dei discendenti di italiani all’estero è emersa da poco, ma ha radici lontane, che vale la pena ricordare.
La legge sulla cittadinanza risale al 1992, e già allora se ne erano messe in evidenza le criticità. Il principio su cui si basa è quello noto come jure sanguinis: chi, nato all’estero, può vantare un antenato italiano, per quanto lontano nel tempo, può ottenere la cittadinanza italiana sulla base di una semplice richiesta documentata. Al contrario, per chi non ha sangue italiano, qualunque cosa possa significare questa espressione (probabilmente nulla, dal punto di vista tanto biologico quanto culturale), e anche se nato, socializzato e istruito in Italia (cosa che sul piano della vicinanza culturale significa parecchio), conquistare la cittadinanza è una corsa a ostacoli: almeno dieci anni di residenza continuativa in Italia per chi ci è arrivato; e per chi ci è nato, invece, il compimento del diciottesimo anno di età con residenza ininterrotta (ed entro il diciannovesimo, chissà perché: come se un diritto potesse scadere – mentre quello dei discendenti da italiani non decade mai, anche se l’emigrazione risale a centocinquant’anni prima…). Poiché lo stato si prende tre anni di tempo per rispondere, e spesso non rispetta le regole che si è dato, significa che un o una giovane nati in Italia possono rischiare di ottenere la cittadinanza a ventidue o ventitré anni, facendo dell’Italia una dei paesi europei in cui è più difficile e complicato ottenerla. Il capolavoro si è compiuto poi con la legge del 2001 sul voto agli emigranti, fortissimamente voluta dall’allora ministro per gli italiani all’estero Mirko Tremaglia, di Alleanza Nazionale, ma votata per ignavia, come la precedente, dai partiti di tutto l’arco costituzionale: anche da chi sapeva che era una follia ideologica senza alcuna vera motivazione pratica. Il paradosso che ne è derivato è che chi in Italia ci è nato, ci vive, ci paga le tasse, ne conosce la lingua, fa molta più fatica ad ottenere la cittadinanza di chi qui non ha alcun legame né alcun interesse: e il primo non vota alle politiche, il secondo sì. Nel concreto, il pronipote di un Veneto emigrato in Brasile nel 1870, di cui nessun discendente è mai più rientrato nemmeno come turista, può ottenere la cittadinanza subito, mentre un brasiliano nato in Italia, che non conosce altro paese che questo, deve aspettare il compimento della maggiore età solo per inoltrare la domanda, a meno che un suo genitore non si sposi con un italiano/a.
C’è poi la questione dei motivi: chi chiede la cittadinanza italiana vivendoci, di solito si sente italiano, questa è la sua lingua, la sua patria, il suo orizzonte di lungo periodo. Chi la chiede dall’estero nella grande maggioranza dei casi vuole solo poter viaggiare più comodo, entrare negli USA senza visto, o ottenere la libera circolazione in tutta l’Unione Europea (cosa sulla quale l’UE potrebbe prima o poi eccepire).
Per anni questa è stata solo un’incongruenza politica, con pochi effetti pratici perché le nostre ambasciate e consolati davano seguito alle domande, per usare un eufemismo, con opportuna lentezza. Oggi che qualche precursore, non ottenendo risposte, è riuscito a vedersi riconosciuto il diritto per via giudiziale, è cominciato l’effetto emulazione (al tribunale di Venezia queste cause costituiscono già i due terzi del contenzioso civile, con i costi e i ritardi per le cause ‘autoctone’ che questo implica). La situazione è quella documentata su queste pagine da numerosi casi veneti: paesi in cui le richieste di cittadinanza dall’estero sono superiori al dieci per cento della popolazione, anagrafi in tilt e minacciate di ricorsi al TAR e risarcimenti, centocinquantamila domande presentate solo in Veneto e solo dal Brasile nell’ultimo anno, pletore di avvocati, consulenti e intermediari che ci campano sopra (c’è sempre business dove lo stato non applica ciò che promette), e il rischio di un effetto valanga con potenziali distorsioni persino della democrazia: con un minimo di organizzazione questi neo-cittadini non residenti potrebbero distorcere il risultato elettorale a loro favore, decidendo sindaci e maggioranze.
Ce ne sarebbe abbastanza per far diventare questa una notizia politica di rilievo nazionale, e pure urgente. Rimane invece, per ora, cronaca locale, derubricata a intoppo burocratico, a problema amministrativo. Come spesso succede, manca il coraggio di affrontare il problema alle radici.
(nella foto: il Comune di Val di Zoldo espone la bandiera brasiliana. L’ente locale ha 2.745 abitanti, di cui 1.720 residenti all’estero, la metà dei quali vive in Brasile: in questo momento ha 551 pratiche pendenti di discendenti di italiani residenti in questo paese)
Finti e veri italiani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 4 febbraio 2024, editoriale, p.1
Fine vita: il festival dell’ipocrisia che ha sconfitto Zaia
/in Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles /da AugustaBisogna dare atto al governatore Zaia di averci messo la faccia, e di avere avuto il coraggio di andare contro la sua stessa maggioranza: primo e unico presidente di regione, fino ad ora, ad averlo fatto. Prima anche, quindi, dei governatori di centro-sinistra.
Forse ha giocato anche il limite ai mandati. A fine corse è possibile assumere posizioni più coraggiose, tanto, non dovendo essere rieletti, non si è obbligati a corteggiare i propri elettori. Peraltro, in questo caso è una scelta vantaggiosa, che pur facendogli perdere qualche sostegno interno, gli consente di conquistare praterie di consenso personale fuori dal suo recinto politico naturale, visto che i sondaggi sono unanimi nel mostrare che la maggioranza degli italiani, e anche la maggioranza dei veneti (che, da un pezzo, non è più la Vandea italiana), è a favore della regolamentazione del suicidio assistito. Ma la sua posizione non è frutto di calcolo: Luca Zaia ha mostrato in questi anni un’encomiabile coerenza sul tema dei diritti civili – si pensi alle sue posizioni sulle tematiche LGBTQ+. Con questa scelta Zaia diventa anche una figura nazionale di riferimento, e rafforza significativamente un ruolo e una traiettoria politica che ha sempre dichiarato di considerare legata strettamente al territorio, proiettandosi volente o nolente su un palcoscenico molto più ampio.
Il voto contrario di ieri sancisce anche la trasformazione definitiva della Lega da partito laico (quale l’aveva voluto Bossi, che si era inventato solo in un secondo tempo una improbabile consulta cattolica affidandola a Irene Pivetti, che peraltro ha smesso di esistere quasi subito) a ultracattolico. Almeno nominalmente, perché poi, alla maniera del rosario di Salvini (anche lui in origine un laicissimo comunista padano) si tratta di un cristianesimo esibito: quanto vissuto e pregato, è materia di valutazione più complessa e opinabile. Ma è tendenza tipica degli identitaristi di oggi – si pensi a quanto avviene oltreoceano – la propensione a pagare alla religione quello che gli inglesi chiamano lip service, che non è propriamente un attestato di coerenza. Dimenticando peraltro che anche i cattolici – lungi dall’essere rappresentati dai gruppuscoli vociferanti di questi giorni, che tuonano e minacciano sfracelli elettorali ma sono composti da poche manciate di militanti – sono divisi sostanzialmente a metà, così come lo sono i laici, su questi temi.
Quanto accaduto ieri è quindi un’occasione persa della politica regionale: anche di opposizione, visto il voto contrario pure di una consigliera del PD, diventata determinante nell’affossare una legge che non è passata, per l’appunto, per un voto. Il consiglio regionale ha mostrato ancora una volta di interessarsi poco di cose che interessano invece molto gli elettori, e di pensarla diversamente da loro: rendendo vacuo domandarsi perché la fiducia nella politica cali e l’astensionismo cresca.
Il voto contrario in definitiva è ascrivibile a ideologia, ipocrisia, e anche qualche evitabile grettezza. Quest’ultima l’ha mostrata chi è ricorso persino all’argomentazione del costo, e del conseguente risparmio che il respingimento della proposta di legge consente: in realtà modestissimo, perché riguarda pochissimi casi, e irrilevante rispetto al bilancio sanitario della regione, oltre che moralmente discutibile. L’ipocrisia, venata da ideologia, l’ha mostrata chi ha argomentato e votato, apparentemente, senza aver letto nemmeno i dispositivi e le sentenze, evocando un vago diritto alla vita (come se il diritto a disporne in casi drammatici e dolorosissimi non lo fosse: lo è invece di più, perché è il diritto a una vita vivibile) o un’ancor più evanescente difesa della famiglia, che la legge non metteva in questione in nessun modo. Facendo finta di non vedere che le cose resteranno esattamente come stanno, con il diritto al suicidio assistito (che non ha nulla a che fare con l’eutanasia), garantito e non punibile: ma che, semplicemente, sarà di più lunga, incerta e difficile applicazione in termini di tempistica, e diverso da ospedale a ospedale, da città a città. Cosa, naturalmente, insensata.
Il coraggio di Luca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 18 gennaio 2024, editoriale, p. 1