La società trans. Sulla transizione di genere

Molti lo considerano un lusso inutile, quando non una perversione della modernità. E quando la regione Veneto l’ha istituito, con il sostegno convinto del presidente Zaia, che l’ha definito “una scelta di civiltà” (come per altri temi che riguardano la libertà di scelta, inclusa quella di morire con dignità attraverso il suicidio assistito, la cui regolazione è stata invece bocciata), ci sono stati molti mugugni ed esplicite proteste anche nella sua maggioranza. Parliamo del “Centro di riferimento regionale per l’incongruenza di genere e il cambio di sesso”, assegnato ufficialmente da marzo 2023 all’ospedale di Padova.

Perché non è una fisima né uno scandalo? Perché è doveroso occuparsene? Perché non siamo solo una società in cui ci sono delle persone, che chiamiamo trans, che non si identificano con il proprio corpo e che vorrebbero attivare o almeno vedere riconosciuta una qualche forma di transizione di genere, ed è doveroso tenerne conto. Ma perché siamo una società trans: in perenne transizione, trasformazione, accelerazione. Pensiamo solo a come saremo cambiati non tra dieci anni o tra cinque, ma anche solo tra due, a causa dei giganteschi processi trasformativi innescati dall’intelligenza artificiale: anche sul piano dell’identità, della personalità, dei diritti di ciascuno di noi. Ecco, quello dell’identificazione di genere, che implica quello della transizione, è un pezzo, uno dei tanti, di questa trasformazione. Ma anche uno dei più simbolici e significativi, perché va a toccare non solo degli elementi interiori, ma può anche (non sempre, e in forme molto diverse) toccare l’esteriorità del corpo, la sua visibilità e la sua manipolabilità, la sua riconoscibilità per gli altri (perché sono gli altri che hanno il problema maggiore, non i diretti interessati, che se ne fanno una ragione e vorrebbero solo essere liberi di attivare scelte individuali di cambiamento). Peraltro, questo avviene anche in altri ambiti, anche se ci facciamo meno caso: l’aggiungere al corpo chip, protesi meccaniche, potenziamenti farmacologici, manipolazioni genetiche, è un modo di avvicinarci a quel transumano che è una delle grandi questioni del nostro tempo, e di cui la transizione di genere non è in fondo che un elemento, un caso persino minore. Allo stesso tempo è una formidabile occasione per farci uscire da un binarismo forzato che è sì un potente archetipo culturale, ma anche una evidente forzatura ideologica: che presuppone una coerenza e una linearità di identificazioni che è più difficile trovare nella realtà di quanto si creda. Basti pensare alla fragilità intrinseca, alla rigidità spesso farlocca, di distinzioni e separazioni date per assodate: non solo quella tra maschile e femminile (come vediamo dai casi in oggetto, non evidente e immediata per tutti), ma anche tra eterosessuale e omosessuale (come se non si passasse attraverso fasi, sperimentazioni, identificazioni diversificate, spesso sovrapposte, non di rado ambigue, e cambiamenti), e potremmo ovviamente arrivare a bello e brutto, buono e cattivo, destra e sinistra, oriente e occidente.

Ci sono persone, molte, che fanno fatica a identificarsi con il proprio corpo: con la chirurgia estetica abbiamo sdoganato – e consideriamo lecita – l’idea di modificarlo, che non fa più scandalo ed è anzi sempre più diffusa. La questione dell’identità di genere va molto più nel profondo, tuttavia. Perché la non identificazione tra il proprio sesso biologico e la propria identità di genere (o la messa in discussione del rapporto tra le due cose), tra quello che appare e come ci si sente – conosciuta sotto il nome di disforia di genere – è un malessere, o un problema, che produce una profonda sofferenza, con sintomi di ansia, depressione, autolesionismo, tendenze suicidarie. E se si può uscirne, perché non farlo?

Non si tratta, tra l’altro, dell’invenzione di qualche fantomatico propalatore di una inesistente teoria gender. Il fatto che solo il centro di Padova riceva 14 nuovi pazienti a settimana (che significa oltre 700 l’anno – mentre a livello nazionale si parla di 400mila persone coinvolte) significa che il problema è più diffuso di quel che crediamo. Il fatto poi che tra questi ci siano anche degli over 60 mostra che il problema non è nuovo: nuovo è solo che finalmente se ne possa parlare, e ci sia la possibilità (riconosciuta dalla società attraverso il riconoscimento del servizio sanitario pubblico come livello essenziale di assistenza: un elemento fondamentale per questioni simboliche oltre che economiche) di affrontarlo.

Il luogo dove parlarne e praticarlo, abbiamo visto, c’è: e si occupa di consulenza, accertamento, accompagnamento, assistenza, sostegno, terapia ormonale e chirurgia demolitiva (questi ultimi richiesti solo da una parte delle persone che manifestano una disforia di genere). Si chiede solo di aggiungere l’ultimo tassello, che una quota minoritaria delle persone coinvolte richiede: la chirurgia ricostruttiva, che un altro paio di realtà italiane già riconoscono. Ci sembra un tassello legittimo. Che la regione Veneto, che si è mostrata all’avanguardia nell’affrontare il tema, ed è giusto dargliene atto, potrebbe attivare senza difficoltà. Come in ogni cammino, una volta fatto il primo passo, gli altri vengono da sé.

 

Siamo una società “trans”, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 marzo 2024, editoriale, p. 1-7