Uomini contro le donne. Giulia, Sara e le altre.

Un altro femminicidio. Che però è categoria astratta, con un che di giuridico e di impersonale. Diciamola diversamente. Un altro assassinio di una donna da parte di un uomo. Con una sola motivazione: perché lei era una donna e lui un uomo. Se non ragioniamo così, se non ce la diciamo così, l’uccisione di Sara Buratin rischia di essere solo un caso di violenza tra tanti (proprio perché l’ennesimo, sempre meno rilevante in sé), un numero aggiunto a una statistica, e niente più. Non possiamo, oltre tutto, derubricarlo a violenza generica: è violenza di genere, che è cosa diversa. Sono ancora troppo freschi il dolore, l’emozione, la partecipazione, la mobilitazione seguiti all’omicidio di Giulia Cecchettin: che ci hanno fatto ragionare, riflettere, fare autocritica anche (come uomini, anzi, come maschi, in primo luogo). Purtroppo, come si è visto, non tutti, non abbastanza, non sufficientemente a fondo.

Forse il solo modo di capire veramente cosa è successo, è vederlo da dentro, come sanno fare solo l’introspezione e l’empatia, o l’arte, attraverso la capacità di mettersi davvero nei panni degli altri, e dentro le cose. Provare a immaginare, se non capire, quello che avrebbe potuto pensare e sentire Sara nei suoi ultimi istanti. Sapere di avere condiviso con il tuo uomo quasi due decenni di vita in comune, le parole dette, le risate serene, le tenerezze scambiate, l’intimità complice, pelle contro pelle, l’amore dichiaratosi vero e duraturo, la nascita di una figlia, i momenti della sua crescita, le gioie banali ma profonde che sono di tutte le famiglie, un repertorio di avvenimenti, di aneddoti e di ricordi, di pasti consumati insieme, di compleanni, di vacanze. E capire solo all’ultimo, mentre la lama affonda nel collo, che è stato capace di premeditare il tuo omicidio, di usare una scusa banale per venire a casa, di colpirti vigliaccamente alle spalle in maniera efferata, una, due, venti coltellate, lasciandoti lì, nel tuo sangue, e poi scappare, sì, scappare, altrettanto vigliaccamente, senza pensare a te, senza pensare a tua figlia, che adesso hai orrore a pensare vostra, anche sua, la rabbia, la disillusione, lo schifo che proveresti ora, a pensare di essere stata così tanto tempo con un uomo capace di tutto questo – se fossi sopravvissuta…

No, non è un altro caso di omicidio-suicidio. È persino sbagliato definirlo così, perché mette le due cose sullo stesso piano. E non lo sono. Perché l’assassino ha potuto scegliere: la vittima no. E comunque il secondo, il suicidio, non spiega né tanto meno giustifica, o sminuisce, il primo. Anche Filippo, l’assassino di Giulia, ha detto che voleva farla finita, ma non ne ha avuto il coraggio. Alberto ha solo portato a termine il suo proposito, tutto qui. Questo, di certo, non lo rende migliore, non lo scusa, non produce attenuanti o sfumature nel giudizio. No, non è un fatto solo individuale, una storia irripetibile. E lo sappiamo proprio perché si ripete. Con agghiacciante e inesorabile frequenza. È il segno di un modo di pensare specifico, figlio di una cultura e di un’epoca. Che, certo, ha millemila spiegazioni anche individuali. Che, certo, vanno analizzate nella loro soggettività. Ma anche ricondotte alla loro radice (non ragione: non c’è ragione) comune: che è un’idea di donna, e di uomo, e di potere nella relazione tra i due. Che rende la donna proprietà dell’uomo. Di cui può disporre, come un padrone dispone di uno schiavo, che considera oggetto, merce in fondo, e non persona. Perché lei è una donna e tu un uomo, appunto. Senza bisogno di (altre) ragioni.

Poi, certo, si può provare a confrontare, a comparare. Scoprire che in fondo entrambi, Alberto, l’assassino di Sara, e Filippo, il killer di Giulia, differenza d’età (non diciamo di maturità, che non c’era) a parte, erano uomini incapaci di una relazione adulta, consapevole, veramente di scambio, disponibile a valorizzare l’altra persona; anzi svalorizzandola al punto da renderla cosa, priva di individualità e personalità, di cui è possibile e lecito sbarazzarsi. Uomini taciturni, solitari, o meglio soli, anche quando in compagnia. Non perché amanti di una solitudine consapevole e scelta, ma perché incapaci di relazione all’interno delle relazioni che pure instauravano, e da cui dipendevano. Poi, certo, non in tutti i casi è così. Quello che hanno veramente in comune, di fondo, è l’essere uomini contro le donne. Come abbiamo cercato di dire. Come temiamo di dover ripetere ancora.

 

Uomini contro le donne, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 marzo 2024, editoriale, p.1-5