Le polemiche inutili (e i veri problemi) sul 25 aprile

Quella sul 25 aprile è una polemica fastidiosa e stucchevole: come quasi tutte le polemiche che dividono per principio – e non sul merito – maggioranza e opposizione (e pure la maggioranza al suo interno, come tradizione da quando c’è questo governo). E come tutte le occasioni per posizionarsi senza ragionare sul perché ci si posiziona: in cui lo scopo non è dire, ma dirsi. Continua a leggere

Il sindaco e la bambina: quando gli adulti perdono la bussola

Il caso della bambina di Minerbe a cui è stato dato tonno e cracker invece del pranzo in mensa con gli altri suoi compagni, come ‘punizione’ indiretta ai genitori che erano in arretrato con i pagamenti, si presta a qualche riflessione, anche al di là del merito della vicenda. Continua a leggere

La retorica della cittadinanza

Quando la politica si riduce a retorica non può che produrre risultati maldestri. Se poi la retorica (che dopo tutto presuppone il ben scrivere e parlare) è di qualità mediocre, si riduce a chiacchiera deteriore: frasi fatte, appelli ai buoni sentimenti, desiderio conformista di intercettare consensi. Continua a leggere

Tentata strage sul bus: le parole per dirlo, le domande da farsi

Ieri sono intervenuto a caldo: con quanto segue, pubblicato nel mio blog sul Corriere del Veneto.

E’ terrorismo, perché voleva seminare il terrore.
E’ razzismo, perché uno con la pelle di un colore voleva fare fuori dei ragazzini con la pelle di un altro colore. Continua a leggere

Dopo Christchurch: Le parti invertite del terrore

Christchurch: che tristezza, un nome così, per una strage di musulmani in moschea… Ma è un’ironia che non dispiacerebbe al suo autore, e forse perfino inconsapevolmente cercata. Lui, che nel suo improbabile pantheon ha messo di tutto: perfino il doge veneziano Sebastiano Venier, o il condottiero Marcantonio Bragadin, di cui probabilmente tutto ignora, salvo forse il fatto che è stato martirizzato dai Turchi. Questi rimandi alla storia lontana, come alla contemporaneità, a terroristi anti-islamici come Anders Breivik e delinquenti xenofobi come Luca Traini, o a vittime innocenti del terrorismo islamico in Europa, poco ci spiegano, tuttavia, di quanto accaduto, e ancora meno sono in grado di spiegare le ragioni – per quanto di ragioni si possa parlare – di una voglia di rivincita identitaria contro innocenti e pacifiche famiglie musulmane che stavano pregando, portata fino alla strage. Continua a leggere

Noi e gli stranieri: come abbiamo potuto diventare così?

La notizia è in sé – purtroppo – banale. Un fatto di cronaca come tanti: un automobilista che investe e ferisce gravemente dei pedoni. Aggiungiamoci qualche aggravante: l’automobilista investitore era palesemente ubriaco, e stava scappando da un posto di blocco; e gli investiti erano una famiglia che si stava mangiando un gelato – il ferito più grave è un bimbo di pochi mesi, sbalzato dal suo passeggino e finito violentemente a terra (mentre scriviamo, sappiamo solo che gli è già stata amputata una gamba, e del resto non si sa). Infine, i dettagli di contorno, che rendono la notizia più morbosamente accattivante: nazionalità e caratteristiche di investitore ed investiti – che è quello che veramente ci interessa. Perché, ammettiamolo, ormai le cose funzionano così: che mezza Italia, o forse un po’ di più, di fronte a una notizia come questa, spera che l’investitore sia straniero, per poter legittimare la propria rabbia o il proprio schietto odio nei confronti degli immigrati; e l’altra metà, o forse un po’ di meno, spera che non lo sia, per evitare che il fatto diventi l’ennesimo episodio di una campagna anti-immigrati già anche troppo aperta ed esplicita. Nel caso di specie c’è un ulteriore piccante dettaglio: l’investitore non solo è italiano, ma è un militante venetista, un po’ xenofobo e sostenitore di politici xenofobi quanto è opportuno in quegli ambienti; e gli investiti sono una famiglia di pacifici immigrati albanesi ben integrati. Ciò che ha consentito a una parte della seconda metà scarsa di italiani di stigmatizzare e in qualche modo di godere dell’inaspettato rovesciamento di prospettiva rispetto alla narrazione anti-immigrati dominante. Continua a leggere

"E adesso, pedala…" La bicicletta tra fatica e libertà

“Hai voluto la bicicletta? E adesso, pedala…” A tutti è capitato di sentir pronunciare questa frase: fuori contesto, cioè lontani da una bicicletta. Come metafora popolare, significativa di altro: non di un premio, ma piuttosto di una punizione. O quanto meno della vita intesa come fatica, prevalenza del senso del dovere sul godimento e sul piacere, necessità. E, anche, come una specie di automatismo, accettato senza discutere, perché si è sempre fatto così. Continua a leggere

Suicidi in azienda. Ragioniamo sui perché

E’ sempre difficile, e richiede delicatezza, entrare nella vita e ancora più nella morte altrui. Ma è utile provarci, se possiamo ricavarne qualche lezione utile per tutti. E’ il caso della storia dell’imprenditore Emanuele Vezù, suicidatosi nella sua impresa di Vigonza. Così simile ad altre storie che abbiamo raccontato in questi anni. Anche se – ed è bene ricordarlo – si tratta oggi di un caso isolato: non più di una serie di episodi concatenati, che insieme diventavano fatto sociale, come in passato. Non sappiamo se vuol dire che la crisi è meno grave, o che abbiamo imparato a reagire, ma ne prendiamo atto, come di cosa in sé positiva. Continua a leggere

E se non avessimo più proprietà? Se non possedessimo più le case?

Senza proprietà

4 Marzo 2019

di Stefano Allievi. Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

Difficile pensare un mondo senza più proprietà, soprattutto in Italia, dove ad esempio – potendo scegliere – la percentuale di chi decide di acquistare una casa invece di vivere in affitto è ancora molto alta. Ma come sarebbe il mondo se…

Potremmo diventare una società senza beni immobili di proprietà individuale. Una società leggera, fluida, liquida: con più navi in movimento che porti dove volersi ancorare. Sembra strano a dirlo: in Italia, in particolare. Dove le case di proprietà sono il 72,3% del totale (la percentuale è alta anche per le seconde case: oltre il 15% degli italiani ne ha una; in Olanda e in Germania sono poco più del 5%, per dire).

Pochi paesi hanno percentuali di proprietà delle prime case più alte delle nostre: dalla Spagna (il 77,8%) alla Norvegia (82,7%). La maggior parte ne ha meno: la Francia il 64,9%, il Regno Unito il 63,4%, la Germania il 51,7% – la metà del totale. Ma soprattutto, la tendenza, ovunque, è verso il calo: sempre più si predilige l’affitto, soprattutto tra i giovani.

Paradossalmente, è tra gli immigrati che si riscontra, in molte città europee, una percentuale di case in proprietà superiore a quella degli autoctoni: ma è perché loro hanno molte più difficoltà a trovare case in affitto – una delle molte forme di discriminazione che subiscono. Assistiamo dunque a un fenomeno imprevisto.

Pezzi significativi della società sono, o si sentono interiormente, sempre più mobili, e in ogni caso sempre meno bisognosi di ancorarsi, anche simbolicamente, al mattone.

La casa di proprietà non è più uno status symbol, e nemmeno una necessità economica. E la cosa non è senza conseguenze pratiche: che ce ne andiamo o meno, il fatto di metterlo in conto ci fa pensare alla casa meno come un fine e più come un mezzo.

E quindi meno come un deposito in cui sta il nostro passato, e più come la cabina di una nave o un appartamento affittato per le vacanze, dove abita solo il nostro presente: e che bisogna essere pronti a lasciare portandosi via solo l’essenziale. Cosa che, grazie alla tecnologia, è diventata più semplice: per molti di noi, le cose a cui teniamo veramente, anche in termini di ricordi, si sono smaterializzate – dalle nostre foto alla nostra musica, dai nostri libri al nostro lavoro, fino alle nostre esperienze relazionali, tutto sta nel nostro computer o, attraverso i cloud, la mail e i social, addirittura in un computer qualsiasi, con cui collegarci alle nostre abituali realtà di riferimento. E spesso portare con noi il nostro laptop, o al limite anche solo il nostro cellulare, è tutto quello che ci serve veramente per tenere in piedi la nostra vita e i nostri rapporti, anche di amicizia – essi pure deterritorializzati.

Praticamente, un ideale filosofico, e anche religioso, praticato in passato da pochi, che si democratizza, diventando esperienza di massa: praticata non per una scelta ascetica, ma al contrario di benessere personale, di leggerezza – non solo materiale.

Risultato: il mattone costa sempre molto, specie in città, ma vale meno, nelle nostre vite. Non è più il “bene rifugio” per definizione. In fondo ce ne è più del necessario. La popolazione cala, le case disponibili aumentano di numero: molti le hanno ma non ci abitano e non le usano, o solo in alcuni periodi dell’anno. E l’aumentata mobilità (per studio e lavoro, ma anche solo per piacere), spesso a tempo determinato, ci spinge a non cercare più un radicamento: nemmeno come “abito mentale”.

La fragilità dei rapporti familiari (la metà dei matrimoni finisce in divorzi, che a loro volta producono famiglie ricostituite altrove) è un ulteriore fattore di mobilità: le radici sono sempre più provvisorie – semmai dovremmo parlare di modalità di radicamento temporaneo, un ossimoro di per sé interessante.

E così, come a proposito della mobilità, che fa sì che il mondo si divida sempre più tra chi si muove spesso e chi è radicato nel proprio luogo d’origine, anche a proposito della proprietà, il mondo si dividerà sempre più tra chi ne sente il bisogno, e chi non lo sente più.

In mezzo ci saranno agenzie che saranno proprietarie di molte case, e le gestiranno, o ci aiuteranno a farlo, come già succede nelle forme sempre più diffuse di affitto temporaneo – tipo Airbnb, per capirci. Mentre alcuni di noi torneranno nomadi, come all’origine dell’uomo: proprietari al massimo di una tenda, con pochi beni trasportabili di contorno – un tappeto, una teiera… – e il resto sarà affidato alle nostre protesi tecnologiche.

[pubblicato su Confronti 03/2019]