Il termometro, la febbre, la malattia. Sulle elezioni in Emilia-Romagna

“Per chi è crocefisso alla sua razionalità straziante, / macerato dal puritanesimo, non ha più senso / che un’aristocratica, e ahi, impopolare opposizione”. Sono versi del più impegnato dei poeti civili, il più citato e il meno letto, Pier Paolo Pasolini. Per caso, o forse non del tutto, mi sono ricapitati tra le mani proprio nel giorno della conclusione della peggiore delle campagne elettorali possibili (e, lo so, mi sorprendo a dirlo dopo ogni campagna elettorale, ormai: a testimonianza del fatto che riusciamo sempre a migliorarci nel nostro peggiorare, raggiungendo abissi impensabili, dicendo cose che si pensavano indicibili, ascoltando parole che si pensavano inaudite e inudibili). Continua a leggere

Se l'economia è sostenibile

Ciò che sostiene è ciò che serve da appoggio, che fa da supporto: ad altro più grande, più importante, che mantiene alto, elevato. La trave di sostegno è ciò su cui tutto poggia, senza la quale l’edificio crollerebbe. Sostenere un’opinione, essere sostenitore di qualcosa, significa propugnare un argomento, anche vigorosamente, con la dovuta convinzione. Continua a leggere

2000-2020: Bilancio di un ventennio

Non è facile tracciare un bilancio di questo ventennio. Ma la tentazione della cifra tonda è forte: in fondo ricordiamo i ’60 come gli anni del boom, i ’70 come quelli della protesta, gli ’80 del riflusso, i ’90 non lo so più. Proviamo quindi ad analizzare insieme gli anni 2000, che sono quelli della pervasività tecnologica, e gli anni ’10, che ricorderemo come quelli della grande crisi (iniziata prima, è vero) da cui non ci siamo più ripresi. Continua a leggere

Se gli schei entrano in Borsa. Trasformazioni del sistema produttivo in Veneto.

Capitale. Cioè soldi? Non solo. Capitale, dal latino caput, significa che riguarda, appunto, il capo: che è importante, dunque, essenziale. Così tanto che è questione di vita e di morte. Come nella pena capitale. E che assurge al ruolo principale: come la capitale di uno stato. I derivati della parola, tra cui capitalismo, hanno la stessa origine. Il capitalista, che possiede capitali, ha dunque un ruolo cruciale. E tutti noi, che cerchiamo di capitalizzare i nostri vantaggi acquisiti, o le nostre qualità, di fatto vorremmo fare altrettanto, legittimamente. Avere un ruolo. Essere importanti. Se possibile, essere tra i capi: tra coloro che muovono le cose nel mondo, che hanno potere su di esso.
Al capitale, cruciale per il funzionamento del capitalismo, sono state dedicate opere monumentali: anche in chiave critica, da Marx a Piketty. Perché la sua funzione è effettivamente centrale, fondativa. Senza di esso l’impresa non funziona. Ne ha bisogno come dell’ossigeno. E’ la più preziosa delle merci, se vogliamo, e dei fattori di produzione: perché li rappresenta tutti.
Ora, il capitale non è solo denaro, schei. E soprattutto non è solo possesso proprio. Il capitale è fluido: circolante, per definizione. Ma assume anche varie forme. I depositi in banca, certo; le proprietà (quando va bene anche le idee e le capacità innovative) trasformabili in capitale corrente, attraverso fidi, prestiti, garanzie e fideiussioni. Un ruolo che avevano le banche, e che in teoria dovrebbero avere ancora. Ma che – soprattutto negli ultimi anni, soprattutto nel Nordest, in particolare con i crac delle banche venete – hanno mostrato di non saper svolgere appieno, e spesso di svolgere malissimo.
Ci sono però anche altri luoghi, e altri soggetti, che possono fornire capitali. I fondi di investimento, magari il venture capital. E naturalmente la Borsa: parola che deriva dal significato di sacca, di contenitore; ma che più probabilmente, nel suo significato di Borsa valori, deriva dal nome di una famiglia nobile di Bruges, i Van der Beursen, che aveva nel suo stemma tre borse, da cui presero il nome il palazzo e poi la piazza in cui localmente si riunivano i mercanti, che poi chiamarono borse le altre piazze con funzioni analoghe in altre città, e dove si svolgevano fiere, scambi.
La quotazione di borsa è un tipico mezzo contemporaneo per acquisire capitali. La sua caratteristica più interessante, sociologicamente (e localmente, per il Veneto) è che presuppone l’uscita dal provincialismo, delle relazioni personali tra simili, dal dialetto e dalle strette di mano, e anche dalla logica del “faso tuto mi”, per aprirsi alla navigazione nel grande mondo del capitalismo globale. Di fatto per le piccole e medie imprese, che rappresentano gran parte del tessuto produttivo del Nordest, è certamente una grande opportunità, ma anche un atto di coraggio culturale, e di innovazione psicologica: in fondo l’apertura a capitali che vengono da fuori (letteralmente da non si sa dove, e detenuti da sconosciuti) presuppone una parziale e utilissima cessione di sovranità, che fa felicemente a pugni con il sovranismo (psicologico, e culturale, prima ancora che politico) di tanta mentalità locale. Non solo: la quotazione in borsa presuppone meccanismi di trasparenza e di controllo esterno (perché bisogna rendere conto al mercato di ciò che si fa) che, anch’essi, sono spesso culturalmente ostici. E’ dunque significativo che cominci a diffondersi maggiormente, anche tra imprese di scala minore, non solo tra i colossi globali, per cui è già la norma: una tendenza preziosa, originale rispetto al contesto, foriera di ulteriore innovazione.
Il passo successivo è comprendere che “capitale” ha anche altri significati, non meno importanti: tra cui quello di capitale culturale. Il possesso di conoscenze, competenze e titoli di studio. Sulla cui valorizzazione il Veneto – e l’impresa veneta – è ancora indietro. Ma questa è un’altra storia.
Aprire il capitale significa uscire dal provincialismo, in “Corriere della sera – Corriere Imprese Nordest”, 9 dicembre 2019, rubrica “Le parole del Nordest”, p.3

Immigrati e espulsioni. Quello che si dovrebbe fare e non si fa.

Ma prevenire, mai? E’ la prima e più ovvia questione che dovremmo porci, quando si parla di devianza – o delle espulsioni di immigrati che delinquono. E invece è sempre l’ultima. Con il risultato che non capiamo cosa sta succedendo, figuriamoci trovare delle soluzioni sensate. Facciamoci qualche domanda. Continua a leggere

Pietre d'inciampo e cittadinanze onorarie. Le cose serie e le pratiche inutili.

La disfida delle cittadinanze onorarie mostra tutta la miseria del dibattito politico odierno. Quella delle pietre d’inciampo è anche peggio. Modi diversi di giocare politicamente con la memoria. Cominciamo inciampando. Continua a leggere

La memoria è una cosa seria. Sulle cittadinanze onorarie a Liliana Segre

La disfida delle cittadinanze onorarie e delle pietre d’inciampo mostra tutta la miseria del dibattito politico odierno. Con elementi di strumentalità evidenti, polemiche inutili, esiti scoraggianti. Continua a leggere

Italiani all’estero

Di imam, di conflitti culturali e d'altro ancora

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Perché i giovani se ne vanno dall’Italia

Era ora che si aprisse un dibattito vero sulle emigrazioni italiane verso l’estero: anche se sorprende la sorpresa per la scoperta – sono riprese, a ritmi crescenti, da anni. Ed è bene che si provi – finalmente – a mettere sul tavolo soluzioni, e non solo slogan. Ma per poterlo fare con cognizione di causa, bisogna avere un’idea realistica di quello che sta succedendo: e, ancora, non ci siamo.

La prima cosa da fare è collegare – e insieme separare – il dibattito sull’immigrazione e quello sull’emigrazione. Collegarli concettualmente, perché rispondono alla stessa ricerca di orizzonti migliori, che produce la mobilità umana, qualunque nome le si voglia dare: capire che i desideri e i bisogni di chi arriva sono gli stessi di chi parte può aiutarci a ri-umanizzare il dibattito e al contempo a razionalizzarlo, uscendo dalla logica (illogica) degli slogan contrapposti, inutili e fuorvianti. Separarli funzionalmente, perché l’una non è causa dell’altra: le partenze non sono conseguenze degli arrivi (anzi, propriamente non c’entrano quasi niente: tranne per i livelli più bassi e che presuppongono meno – o nessuna – istruzione). Se anche non ci fossero gli arrivi, le partenze ci sarebbero comunque. E se anche non ci fossero le partenze, gli arrivi ci sarebbero comunque. Perché corrispondono a segmenti differenti di mercato del lavoro.

Dobbiamo ammetterlo una volta per tutte. I nostri emigranti partirebbero comunque, perché cercano chances e opportunità che da noi, semplicemente, non ci sono: non in maniera assoluta, ma in termini relativi – non abbastanza, non per tutti. I salari sono troppo bassi, e se hai una qualificazione di qualche tipo ti conviene spenderla altrove. Lo stesso motivo per cui non siamo attrattivi: perché mai uno straniero, dato il differenziale salariale, dovrebbe venire da noi? E infatti arriva solo chi accede a ruoli apicali, ben pagati per definizione (manager, dirigenti, tecnici, poco altro), e chi al contrario trova un miglioramento anche solo nell’accedere a un lavoro purchessia, rifiutato dagli italiani (i lavori dirty, dangerous and demeaning, sporchi, pericolosi e degradanti – e, aggiungiamo, malpagati e non protetti – che infatti gli immigrati accettano anche in presenza di qualificazioni più elevate).

Dopodiché, bisogna uscire dal solo paradigma salariale. Chiunque abbia qualche esperienza della nostra emigrazione – giovanile ma non solo – sa che il differenziale salariale ha un buon effetto di spinta (o se si preferisce di attrazione), ma un assai più modesto effetto di ritorno. In altre parole, chi parte, attratto da salari più elevati, ma anche e forse soprattutto da paesi meglio funzionanti, con maggiore attenzione al merito, sistemi di welfare più protettivi, aperti alle differenze (di tutti i tipi: culturali, nazionali, etniche, religiose, sessuali), più rispettosi dell’uguaglianza di genere, molto meno gerontocratici, con maggiore mobilità sociale, poi, in buona parte, anche a parità di offerta salariale, non tornerebbe indietro. Ecco perché lavorare sui salari di ingresso (incentivi, cuneo fiscale e quant’altro) è ovviamente doveroso e necessario, ma è solo un pre-requisito, di per sé insufficiente. E lavorare sul resto è naturalmente un lavoro di lungo periodo e assai più complicato, a cui nessuna elite (tanto meno in ambito politico) ha mai voluto veramente mettere mano. Perché ci sono precise rendite politiche legate a questi elementi: dalla chiusura mentale (pluralismo culturale e religioso, orientamento sessuale) alla xenofobia (con annessa logica del capro espiatorio nei confronti degli immigrati: “prima gli italiani”, o i veneti, a scelta) fino alla gerontocrazia (che include tanti aspetti: da quota 100 a una mentalità che non farebbe mai entrare un trentacinquenne – peggio se donna – in un consiglio d’amministrazione). E perché presuppone lungimiranza e investimenti: in una parola costa in conoscenze (a cominciare dall’abc della demografia), in capacità di visione (che non è data: si conquista, con la cultura e il confronto) e in investimenti, cioè in denaro (che andrebbe tolto alle rendite e ai settori parassitari).

Per cui, prendiamo questo dibattito come un inizio di discussione. Sperando – e non è per nulla scontato – che continui.

Emigrare, quel doppio filo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 30 ottobre 2019, editoriale, p.1