Il 25 aprile continua ad essere percepito da alcuni come una data e una festa “divisiva”. Eppure è dalla Liberazione dal nazifascismo che nasce logicamente la Repubblica, che festeggiamo il 2 giugno. E in cui tutti, salvo forse i Savoia, ci riconosciamo.
Quest’anno c’è una differenza, però. Al governo non c’è chi l’ha sempre considerata come una “sua” festa, un motivo d’orgoglio e una rivendicazione di identità. C’è proprio chi, o anche chi, l’ha considerata – pure con polemiche recenti sul ruolo dei partigiani, o ambigui tentativi di ridurla alle sue pagine oscure (dalle foibe ai conflitti tra fazioni o alle vendette personali: che ci sono state, ma non ne inquinano il messaggio e il risultato) – divisiva e non inclusiva. Quale occasione migliore, allora, per i discendenti politici di chi all’epoca è stato sconfitto, ma ora gode dei vantaggi del regime repubblicano costruito dopo quello totalitario, e della legittimità democratica conquistata grazie ai suoi meccanismi elettorali (che il fascismo non consentiva), per fare un passo avanti, per andare oltre, per mostrare definitivamente di essere statisti, di essere al governo di tutti e per tutti, e non solo di una parte che si sente ancora – per giunta a torto – minoranza e vittima incompresa?
Certo, il 25 aprile ci mostra la vittoria di una parte d’Italia. Qualcuno direbbe la sua parte migliore. Certamente non solo la sua parte vincente: quella che come noto scrive la storia. Perché è molto di più: è la parte che ha dato luogo al tutto – i padri e le madri della Repubblica, della democrazia, e della costituzione che di questi valori si è fatta garante trasformandoli in mezzi. Grazie a quella vittoria, combattuta dagli alleati e da una parte minoritaria della meglio gioventù italiana (i partigiani di varia tendenza, diversi e divisi tra loro ma tutti accomunati dal desiderio di sconfiggere il fascismo), e sostenuta da molti di più, oggi siamo il paese che siamo. Con terribili difetti, è vero: ma democratico, e libero. Con una costituzione avanzata e civile, capace di evolvere e di includere diversità che il fascismo avrebbe considerato inaccettabili e avrebbe combattuto. Un paese in cui sono garantiti i diritti di tutti. Anche delle minoranze. Anche di chi, se allora avesse vinto, non li avrebbe garantiti a tutti, li avrebbe esplicitamente conculcati ad alcuni, e limitati a molti, come già aveva fatto, trasformandoli in privilegi di pochi.
C’è un modo di uscire dal meccanismo delle retoriche contrapposte, e pronunciare parole non banali, in qualche modo significative, oggi? Forse sì. Celebrando il 25 aprile, come giusto. Ricordando e raccontando chi ha combattuto e si è sacrificato nella resistenza, affrontando il nemico, che era nemico dell’Italia e degli italiani, non solo degli antifascisti: aveva tolto loro le libertà e li aveva portati in guerra, perseguitando e sterminando una parte di loro, gli ebrei, oltre gli oppositori politici. Un regime indifendibile sotto tutti i punti di vista, con gli occhi di oggi. Ma anche riconoscendo che molti hanno servito il loro paese, o hanno creduto di farlo, in altro modo. Il 25 aprile è padre del 2 giugno, ma anche figlio dell’8 settembre. Il giorno in cui molti si sono trovati di fronte a un bivio, hanno dovuto scegliere, e hanno scelto. Chi andando in montagna a combattere come partigiano. Chi cercando di dare una mano continuando a fare il proprio lavoro di prima: il contadino, l’operaio, l’impiegato di una istituzione, il carabiniere – schierandosi silenziosamente, nel fare più che nel dire. Chi scappando, invece: in esilio, rifiutandosi di contrapporre italiano a italiano, o semplicemente sfollato altrove, rifiutandosi di obbedire ad una autorità non più riconosciuta, ma incapace di assumere altro ruolo. E poi, sì, c’è stato chi ha creduto di dover rimanere fedele alla patria aderendo a una sua caricatura, la Repubblica di Salò. Il volto peggiore del fascismo: un regime in declino che portava con sé i valori antidemocratici e sopraffattori del precedente, aggravandoli, con il sostegno di una potenza totalitaria straniera, i nazisti. Ma in cui tuttavia qualcuno si riconobbe per ideale, e non ha senso negarlo oggi.
Mi sento titolato per dirlo. Io non c’ero. Ma mia madre il 25 aprile si trovava in galera, a San Vittore, con destinazione già prenotata in Germania, in quanto sorella e collaboratrice di un combattente partigiano. Mio zio era comandante di stato maggiore delle brigate Garibaldi. Un militare, un soldato che dopo l’8 settembre aveva scelto di continuare a combattere, ma dall’altra parte: un partigiano liberale, in contrapposizione continua con il suo commissario politico comunista. Ucciso il 26 aprile: da un tedesco, come scritto nei libri di storia. Da partigiani di orientamento diverso dal suo, come pure capitava in quei giorni, come si è tramandato nelle zone dove ha combattuto – fino ad oggi, come ho potuto verificare anche personalmente. Ecco, quella vita, e quella morte, mi hanno sempre spinto a cercare di uscire dalla retorica, dalla visuale a senso unico, dalla contrapposizione manichea tra buoni e cattivi, dove i buoni sarebbero stati tutti da una parte sola. Non è così, non è stato così. La resistenza ha le sue pagine buie, alcune orribili. Così come ci sono state figure positive, che è giusto ricordare, altrove. E in mezzo molti, eroi e anti-eroi della quotidianità. Martiri e banditi. E persone qualsiasi.
Sarebbe un passo avanti se riuscissimo a riconoscerlo, tutti. Che la ragione politica stava essenzialmente da una parte, pur con i suoi torti (al suo interno c’erano anche sostenitori di un totalitarismo diverso, inaccettabile con gli occhi di oggi nonostante incarnasse per molti dei valori nobili e positivi). Mentre altre ragioni, e altri torti, stavano anche altrove, e ovunque. E sarebbe semplicemente onesto se da parte del governo, e del capo del governo prima di chiunque altro, venissero finalmente parole chiare su questo. Un riconoscimento esplicito che quel 25 aprile ha aperto al mondo di oggi, e il mondo di oggi è molto meglio di quello di prima del 25 aprile. Basterebbe questo. E aiuterebbe il mondo a cui Giorgia Meloni e altri (incluso l’incauto La Russa) appartengono a uscire da un complesso di minorità che non ha più ragione d’essere, acquisendo una legittimità culturale (quella politica gliel’hanno data le elezioni) che ancora non ha, perché ancora ambiguamente ammicca ad un passato che dovrebbe imparare a superare. Nel nome della libertà, della democrazia, e della repubblica: che non hanno colore. Chi oggi governa avrebbe tutto da guadagnarne. Sfuggendo a un’accusa che da parte di molti è solo strumentale, polemica: ma di fatto sostenuta da intollerabili e inaccettabili ambiguità. E aiutando il paese ad andare oltre. Facendo esplicitamente propri i valori fondanti della nostra convivenza civile. E facendo in modo che siano i valori di tutti, nessuno escluso.
25 aprile: le parole per dirlo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere di Verona”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 25 aprile 2023, editoriale, p.1
Turismo, retribuzioni e qualità del lavoro. Sulle dichiarazioni di Cipriani e il caso Harry’s Bar
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaLe dichiarazioni di Arrigo Cipriani – che non trova lavoratori per il suo Harry’s Bar – sono un buono spunto per affrontare il tema del lavoro, e nello specifico del turismo, in Italia. Non perché siano originali: non lo sono. Né perché facciano capire cosa succede nel settore: non lo fanno. Ma perché aiutano a comprendere un certo modo di intendere il lavoro e la società (e di fare imprenditoria) che è di molti: e che è parte del problema, non della soluzione.
L’imprenditore avrebbe due metri per giudicare il proprio prodotto: il giudizio dei clienti che pagano, e quello dei dipendenti che paga. Il primo si utilizza spesso, il secondo di rado, anche nelle ricerche di settore. Eppure le due cose sono collegate: e misurare il grado di soddisfazione dei lavoratori è un buon modo per capire se un’impresa o un settore ha un futuro. Chiedere loro un’opinione, invece di dire loro come dovrebbero pensarla, potrebbe essere assai utile a chi con la concorrenza – dunque con la qualità e la professionalità, oltre che con il prezzo – si misura. Tra gli imprenditori invece (quelli che si lamentano in pubblico, almeno: altri riflettono, ma fanno meno notizia) prevale il vittimismo: se non trovi dipendenti è colpa delle loro pretese eccessive, o del contesto (dello stato, delle tasse – con molte buone ragioni, naturalmente), comunque non tua. In particolare, non delle condizioni di lavoro e delle opportunità di crescita e di carriera offerte. Non è solo questione di salari, infatti: anche se contano, visto che con un salario medio del settore oggi si vive molto peggio di qualche decennio fa. E, a costo di ribadire l’ovvio, se per l’imprenditore è vera la massima di Benjamin Franklin, per cui “il tempo è denaro”, perché non dovrebbe esserlo anche per i lavoratori?
Per questo l’accusa del datore di lavoro ai lavoratori di pensare solo ai soldi – avanzata da Cipriani – risulta paradossale. E ricorda più l’inconsapevolezza degli aristocratici russi raccontati da Čechov o da Gogol rispetto ai loro schiavi e servitori, che non la razionalità dell’imprenditore capitalista di Weber o la dinamica disrupting della distruzione creatrice di Schumpeter.
Parliamo di un settore in cui i minimi contrattuali, ma anche i salari medi – ed è risaputo e ammesso anche dai datori di lavoro più avvertiti – sono troppo bassi per gli orari e i turni richiesti (basti pensare alla diffusione del lavoro grigio, con solo una parte del salario pagata in regola, e orari dichiarati ben diversi da quelli praticati). In più, alle condizioni lavorative e stipendiali descritte, si aggiungono condizioni di vita (orario allungato, lavoro serale, festivo e nei periodi di vacanza) e alloggiative (visto che spesso lo si deve svolgere fuori sede) svantaggiate e talvolta indecenti. Una facile riprova è che quegli stessi giovani italiani che vengono accusati di indulgere in pigri lussi garantiti dal reddito di cittadinanza (che non c’è nemmeno più: occorrerà aggiornare il repertorio delle lamentele), all’estero svolgono quegli stessi lavori qui rifiutati, e un perché ci sarà. Come ci sarà un perché se il settore alberghiero e della ristorazione ha visto, nell’immediato post-Covid, una massiccia migrazione di lavoratori anche stranieri verso lavori, qualifiche e salari operai, che la manifattura ha offerto nel momento della ripresa post-pandemica: evidentemente era più attrattiva, e quello che spaventa, quindi, non è la fatica, che la fabbrica non risparmia.
Una riflessione tutto ciò la meriterebbe. Perché, è vero, il settore macina record ogni anno, e il Veneto ne è regione trainante. La crescita, tuttavia, è in parte significativa figlia non di meriti propri (se si può parlare di merito di fronte alle meraviglie della natura o ai lasciti artistici e architettonici dei nostri antenati – chi sta a Venezia, per esempio, non ha alcun merito sulla sua bellezza, e spesso molti demeriti su come la peggiora), o di una capacità imprenditoriale specifica (che alcuni hanno e altri no), ma di una congiuntura globale, che vede crescere il numero di persone nel mondo che il turismo se lo possono permettere: tanto che aree comparabili (e meno dotate per storia e natura di qualità intrinseche) crescono più velocemente, attraggono di più, e hanno un tasso di fidelizzazione (banalmente, di ritorni) superiore. E di questo si dovrebbe ragionare.
Poi, certo, ha ragione Cipriani: è cambiata la società e sono mutate le priorità individuali. Anche rispetto alla centralità del lavoro nella vita quotidiana. Solo che forse è un bene su cui dovremmo riflettere, o almeno un dato intorno a cui riorganizzarci, non un male da stigmatizzare. E su cui anche gli imprenditori hanno molto da dire, da riflettere, da sperimentare. Qualcuno lo sta già facendo: anche nella propria vita privata. Per ripensare il futuro, guarderei lì, evitando di rimpiangere nostalgicamente un passato che – grazie a Dio – non tornerà più.
Non è solo questione di soldi. Cipriani e i lavoratori, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 4 luglio 2023, editoriale, p.1
Coppie omogenitoriali e bambini: la politica dei fatti e quella delle ideologie
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaTalvolta tocca agli amministratori insegnare la politica ai politici: come la si fa, e i principi (quelli costituzionali) sulla base dei quali la si sostiene. È successo anche a proposito del riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali. La procura di Padova ha impugnato gli atti registrati dal sindaco Giordani in questi anni e chiede di disconoscere 33 genitori di altrettante coppie omosessuali, tutte al femminile, in maniera retroattiva, anche a bimbi che vivono con le loro genitrici da sei anni! In un caso, infatti, si tratta addirittura della registrazione dell’atto di nascita di una bimba nata da una delle due mamme di una coppia omogenitoriale, avvenuta in Canada nell’agosto 2017 e regolarmente sposata in quel paese: e peraltro, in questo caso, ciascuna mamma ha un figlio biologico, con il risultato che i figli non saranno più legalmente fratelli, ma, pur convivendo, avranno ciascuno un cognome diverso (e, a proposito, per evitare scivolamenti su un altro argomento sensibile, in discussione in parlamento proprio in questi giorni, la gestazione per altri non c’entra assolutamente nulla, trattandosi in tutti i casi di situazioni in cui una madre biologica c’è). La procura chiede – puramente e semplicemente – di togliere il secondo genitore dallo stato di famiglia: con tutte le implicazioni pratiche, dalla scuola alla sanità, e simboliche, sui princìpi e sui diritti, che si possono immaginare. Un effetto della sciagurata circolare Piantedosi di marzo, che in obbedienza ai dettami del nuovo governo e alla sua agenda, diciamo così, valoriale, e nel vuoto legislativo che caratterizza la materia, si è imposta nelle sue conseguenze ai sindaci con una discutibile interpretazione, che peraltro non ha forza di legge e potrebbe essere incostituzionale, in quanto diversifica e ridimensiona i diritti dei bambini.
La posta in gioco è il diritto alla genitorialità di entrambi i genitori: la procura chiede infatti la rettifica del cognome, cancellando quello del genitore non biologico, forzando quindi un cambio dell’identità burocratica dei figli (risolvibile, eventualmente, all’atto pratico, con una lunga procedura di adozione: ma non se ne capisce francamente la ratio). Il sindaco di Padova, come quelli di altre grandi città, da Milano a Roma, è colpevole di avere registrato entrambe le madri, che sono i genitori effettivi.
Al di là del merito della questione, va sottolineato il pacato coraggio civile del sindaco (molti altri – la maggioranza – preferiscono lavarsene le mani). Che in nome di un onesto pragmatismo mirato alla soluzione dei problemi, e dell’obbedienza ai principi e valori costituzionali, da sei anni procede a queste trascrizioni, sempre comunicandole alla procura, che in passato non ha mai eccepito. Va a onore del sindaco il fatto di procedere in questa direzione semplicemente perché ci crede e pensa sia giusto, senza altre ambizioni e senza agende nascoste, essendo già al suo secondo mandato alla guida di una piccola e sonnacchiosa città di provincia, senza le tentazioni glamour e senza la visibilità e le opportunità politiche di chi governa la capitale statuale e la (ex) capitale morale.
Va sottolineato anche perché è un comportamento molto più responsabile di chi, in parlamento (e non solo da destra: per opposte ragioni, anche da sinistra) ha preferito fino ad ora l’ignavia del non legiferare e del non prendere decisioni, rifiutando la faticosa ricerca del compromesso, pur di ribadire la propria posizione di principio e di conseguenza la propria rispettiva rendita elettorale. Si chiama etica della responsabilità – questa dei sindaci, che altri politici hanno mostrato e mostrano di non avere – e dovrebbe insegnare qualcosa. Se non altro sulla differenza tra la politica utile e quella che non lo è.
Il coraggio civile, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 21 giugno 2023, editoriale, p.1
Accordi con la Tunisia e politiche migratorie: cosa (non) cambia
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Politica / Politics /da AugustaDell’accordo sui migranti tra Italia e Tunisia, il tratto positivo principale – e quello che infatti viene proposto all’opinione pubblica con più convinzione dai rispettivi governi – è che ci sia stato. Per il resto, cambierà poco o nulla. Il che, se non altro, evita che si cambi in peggio. Ma non è davvero un risultato per cui sbracciarsi dall’entusiasmo.
Bene che l’accordo ci sia stato. Bene che abbia coinvolto l’Unione Europea ai suoi massimi livelli. Simbolicamente, per l’Italia, significa l’ingresso ufficiale nel club che conta, per così dire, e la fine di quella che qualcuno, all’opposizione, considera tuttora la presunta impresentabilità della destra. Questa impresentabilità non c’è o è stata ampiamente superata a pieni voti, e non possiamo che gioirne: le due occasioni recenti di contatto tra Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni (la visita in occasione dell’alluvione in Emilia-Romagna e la presenza congiunta in Tunisia) sono lì a testimoniarlo. Ma, per il resto, quanto avvenuto ricorda un po’ la perfida battuta di Kissinger rivolta ai governanti italiani quando si recavano negli Stati Uniti: per i quali sembrava che il risultato fosse ottenuto al momento della discesa della scaletta dell’aereo.
Bene, benissimo, infatti, la cooperazione economica. Ma assai ridotta nell’entità e tragicamente tardiva. La Tunisia è stata il paese che ha fatto da innesco per tutte le primavere arabe, portando all’abbattimento del regime di Ben Ali, dopo vent’anni di potere assoluto sotto la protezione dell’occidente. Ed è stata uno straordinario esempio di successo di transizione democratica, ottenuta in nome di quelli che l’Europa considera i suoi principi fondativi: fu approvata una nuova costituzione, alle elezioni vinsero gli islamisti, ma poi ci furono nuove elezioni, e persero, senza che nessuno abbia messo in questione la legittimità del processo elettorale. Ma la colpa storica dell’Europa – una macchia da cui è difficile ripulirsi – è stata di non aiutarla, questa difficile transizione (si doveva promuovere allora, un serio piano Marshall europeo). Con il risultato che poi è venuta la crisi economica, il terrorismo dell’Isis, il crollo del turismo – completatosi nel periodo della pandemia – e dunque dell’economia: e oggi trattiamo con un autocrate antidemocratico che, per mantenere il consenso interno, ha fatto degli immigrati il proprio capro espiatorio (non diversamente dai partiti che hanno vinto le elezioni in Italia, per certi versi, ma con la radicale differenza che qui – nonostante le grida di qualcuno – la democrazia c’è ancora, e i risultati elettorali ne sono precisamente il frutto).
Bene, dunque, dicevamo, l’aiuto economico, bene gli accordi sull’energia e per l’interscambio di studenti nell’ambito dei programmi Erasmus (speriamo che poi le nostre ambasciate e consolati non continuino nella prassi di rendere il loro ingresso in Italia una corsa a ostacoli, con il risultato che ne beneficiano solo altri paesi europei). Male invece subordinare gli aiuti alle ricette, già fallimentari altrove, del Fondo Monetario Internazionale. E male, malissimo, chiudere tutt’e due gli occhi e anche le orecchie e la bocca, e non pronunciare parola sul tipo di regime che si sta incoraggiando. In Tunisia la democrazia è sospesa dal 2021, il governo è stato dimissionato, il parlamento è stato sciolto, l’indipendenza della magistratura è stata sospesa (abolendo l’equivalente del Consiglio Superiore della Magistratura), è impedita l’attività dei partiti (alle ultime elezioni hanno potuto partecipare solo dei candidati senza sigle, con il risultato che la partecipazione al voto si è ridotta a meno di un decimo del corpo elettorale), e l’espressione di qualsiasi forma di dissenso è vietata. C’è solo l’esecutivo. Il presidente Kaïs Saïed, in sostanza. Che pure gode di consenso popolare – la sua proposta di nuova costituzione, peraltro più islamista della precedente (ma su questo sembra che nessuno abbia niente da dire), ha ottenuto una maggioranza plebiscitaria, seppure con solo un terzo di elettori recatisi alle urne – grazie alla condanna morale delle cricche corrotte e del familismo e famelicismo dei partiti.
Infine: male per le politiche migratorie, che avrebbero dovuto essere la parte principale degli accordi. Si parla come sempre della fine del processo e mai dell’inizio. Si chiede la collaborazione della Tunisia per il controllo delle partenze irregolari e per i rimpatri (collaborazione già autorevolmente smentita, peraltro) ma non si offre nulla in termini di flussi di ingresso regolari, di cui pure abbiamo urgentissimo bisogno e che potremmo contribuire a formare, con reciproco vantaggio. Con il risultato paradossale che in assenza di lavoratori regolari, non potremo lamentarci di avere, da quel paese, quasi solo irregolari, e tra essi, devianti.
L’esternalizzazione delle frontiere ha già fallito – ed è anzi diventata un’arma di migrazione di massa in mano ai paesi coinvolti – quando è stata applicata in Turchia su richiesta della Germania. Non c’è una ragione al mondo per cui debba funzionare in Tunisia su richiesta dell’Italia. Il che mostra, ancora una volta, quanto il dibattito politico sia indietro rispetto alla realtà.
I migranti e il nodo Tunisia. Cosa (non) cambia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 giugno 2023, editoriale, p.1
Demografia e migrazioni. Cosa dice l’Economist e perché ci riguarda
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaLe pagine dell’Economist di questi giorni sono piene di riflessioni sulla demografia mondiale, e i suoi legami con l’economia, le migrazioni e l’innovazione. Varrebbe la pena che qualche decisore pubblico nostrano, pur zoppicante con l’inglese (ci si può sempre far aiutare dal traduttore di Google), facesse lo sforzo di leggerle. Per capire quali e quanti scenari si aprono. E quanti rischiano di chiudersi.
Il principale di questi articoli ci annuncia, fin dal titolo, che “Una nuova era di migrazioni di massa è cominciata”. E non lo nota con aria preoccupata, lanciando allarmi su una nuova possibile emergenza, o su una presuntissima sostituzione etnica. Al contrario.
Il fatto è che la cattiva notizia è il crollo demografico dell’Occidente. Quella buona sarebbe che la disoccupazione interna ai paesi ricchi non è mai stata così bassa (con una media del 4,8%). E quindi l’unico modo per legare i due temi è ricorrere all’immigrazione. Cosa che sta già succedendo: nei fatti, e a prescindere dalle narrazioni fuorvianti e cieche (manco vedono i dati trasformarsi e i fatti accadere) della politica. Il mondo ricco infatti è già nel pieno di un boom di immigrazioni: che sono in crescita in Gran Bretagna (1,2 milioni di arrivi nel 2022, più che in qualsiasi periodo precedente, nonostante Brexit), Australia (il doppio che nel periodo pre-Covid), Stati Uniti (se ne aspettano quest’anno un terzo in più rispetto a prima della pandemia), Canada (nel 2022 più del doppio del record precedente), ma anche Germania (più che nel periodo della grande crisi del 2015, quando in poco più di un anno aprì le porte a 1,5 milioni di richiedenti asilo sparsi nei Balcani) e persino Spagna.
Si dirà che l’Economist è la Bibbia dell’ordine neoliberale, e fa solo gli interessi degli imprenditori, del capitalismo di Davos (se non altro, è il riferimento della loro ala più liberal e illuminata). E si dirà che in Italia la situazione è diversa. Ma non ne sarei così sicuro. Seppure in proporzioni un po’ diverse, il problema tocca anche noi: persino di più. Perché, è vero, da noi la disoccupazione è decisamente più elevata. Ma siamo messi molto peggio di altri paesi sviluppati in altri due indici. Siamo il paese con il bilancio demografico più catastrofico: da noi ogni anno i nuovi morti sono il doppio dei nuovi nati, con un differenziale che equivale alla popolazione di Bologna, settima città italiana per numero di abitanti – che evapora ogni anno. E abbiamo un bilancio migratorio tra i peggiori del mondo sviluppato: in sostanza, c’è in corso un’evasione di cui si parla assai meno della tanto gettonata invasione, per la semplice ragione che la prima non porta alcun dividendo elettorale. E questo ci riporta alla disoccupazione, e in buona parte la spiega. Esportiamo lavoratori istruiti (il tasso di laureati tra gli expat è il doppio della media nazionale) perché non abbiamo abbastanza posti (o a salari accettabilmente decenti) da offrire loro, ma abbiamo enorme bisogno di manodopera meno qualificata, perché tali sono i lavoratori di cui c’è carenza: l’80% degli immigrati, secondo dati ufficiali del ministero del lavoro – che tutti gli anni produce un rapporto sull’immigrazione in Italia che apparentemente nessun politico legge – hanno una qualifica riconducibile a quella operaia; e il grosso dei lavori per cui c’è penuria, dalle colf e badanti al settore cook and clean, dai braccianti alle cooperative della logistica e del trasporto, sono poco appetibili per laureati e diplomati qualificati, anche a prescindere da considerazioni salariali, su cui comunque ci sarebbe parecchio da fare (e va ricordato: un giovane di 25 anni che entra oggi nel mercato del lavoro guadagnerà circa il 25% in meno di un giovane di 25 anni entrato nel mercato del lavoro 25 anni fa: niente da dire, su questo, da parte di governo, imprese, sindacati?).
Altra notizia di rilievo è che i paesi che attirano più immigrati soffrono meno il calo dei salari, contrariamente a una vulgata proto-marxista, sull’esercito industriale di riserva, fatta propria in Europa soprattutto dalle destre, insieme a pezzi di sinistra radicale. I salari calano perché non c’è innovazione da un lato, e non ci sono controlli dall’altro, semmai. E perché una quota significativa di immigrati è irregolare e quindi più ricattabile: il che dovrebbe spingerci a regolarizzarli, e ad aprire canali regolari di ingresso, non a respingerli.
L’Economist conclude che presto la svolta anti-immigrazionista dei paesi sviluppati negli anni 2010 sarà vista come una aberrazione. La società civile organizzata, il mondo dell’impresa, le istituzioni internazionali, stanno cominciando ad accorgersene. Ora attendiamo la politica e la pubblica opinione, che continuano invece ad alimentare il corto circuito che spinge nella direzione opposta.
Chi chiede migranti e chi lo farà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2023, editoriale, p.1
Le ragioni del Pride
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaA qualcuno non piace perché sarebbe un’esibizione, un’inutile ostentazione. Certo, questo elemento (in alcuni) c’è. Chiunque indossi simboli e richiami identitari, politici o religiosi o calcistici, fa questo. Lo fa anche chiunque esibisce abiti griffati o ostenta auto di lusso davanti al bar preferito. Lo fa chi mostra con orgoglio il suo abito da lavoro come uno status (ricordiamo i camici bianchi durante la pandemia?). Lo fanno i militari, i religiosi, gli scout… E tanti altri, di cui non si dice che esibiscono e ostentano.
A qualcun altro non piace perché ci sono degli eccessi di cattivo gusto. E occasionalmente ci sono. Anche se davanti al cattivo gusto altrui, in quasi ogni ambito della vita sociale (ma anche della politica, che così spesso e così volentieri lo esibisce, lucrandone per giunta un dividendo, o nella pubblicità, o in TV), non ci sentiamo in diritto di reagire, di protestare, e nemmeno di farlo notare: lo subiamo, lo accettiamo, come accettiamo l’esistenza dell’imbecillità – come un dato. E certo non amiamo sentircelo dire, quando il cattivo gusto è il nostro.
Ad altri, infine, non piace che ci siano talvolta provocazioni irreverenti e anche offensive: blasfeme, nell’opinione di qualcuno. Può spiacere, e lo si capisce: e tuttavia, oltre al fatto che la provocazione e l’irriverenza caratterizzano spesso anche la critica sociale, la comicità e l’arte, e sono utili canali di riflessività per la società, a qualcuno potrà servire riflettere su quanto, troppo spesso, simboli e credenze cui si mostra irriverenza sono stati usati contro le minoranze, e quella che si riconosce nel Pride in particolare, come oggetti contundenti, armi improprie, strumenti di battaglia – per negarli, i diritti, la legittimità di un comportamento, la dignità sociale.
Così reagendo, ci sfugge il significato profondo di questo dirsi e di questo mostrarsi, anche con fierezza, con orgoglio (pride, appunto). Che è quello di manifestare un’adesione al patto sociale, ma a modo proprio: il dire ci sono anch’io, e ho diritto anch’io di esserci, a modo mio, ma con voi, di fronte a voi, con tutti voi, e con gli stessi diritti (a essere parte, a essere preso in considerazione) di tutti voi. È una rivendicazione basilare di cittadinanza, di un diritto universale, non particolare, ad essere parte dello stesso tutto.
Manifestare, manifestarsi, vuol dire questo. E vuol dire anche, almeno per un giorno, occupare il territorio, le strade, le piazze che in altri giorni sono ancora, troppo spesso, luoghi di offesa, di discriminazione, di insulto (“frocio”, o simili, condito di aggettivi pesanti o intimazioni a non esistere), di violenza agita, non solo verbale, dunque di negazione di un diritto. E un diritto, se non è di tutti, è solo il privilegio di alcuni, anche se questi sono o pretendono di essere la maggioranza. E quindi è una presa di parola, il Pride. Per una volta, parliamo noi. Occupiamo noi le strade e le piazze, le città, a modo nostro.
Dovrebbe colpire, invece, che tutto questo avvenga in maniera normalmente pacifica, colorata, divertente e divertita. Quando c’è stata violenza, sono stati altri i suoi attori: i gruppi omofobi, e talvolta, in passato, le forze dell’ordine. Sono altri, gli altri, i violenti, gli aggressori, i portatori di istanze monocolore quando non di un’anima nera, seriosa e rabbiosa, da usare contro gli altri.
Per questo, anche io, persona che i più definirebbero cisgender (ma bisogna stare attenti alle etichette semplificatrici: sotto c’è sempre qualcosa di più complesso e articolato) o eterosessuale nei suoi ruoli pubblici (marito di una persona di altro sesso, padre: ruoli che al mondo LGBTQ+ sono formalmente negati), oggi sarò al Pride. Per rivendicare i diritti di tutte le diversità: tutte quelle, almeno, che non confliggono con le regole del patto sociale. E questa è una di quelle, anche se molti pensano che non sia così, solo perché, pur esistendo il fenomeno da quando esiste l’umanità, il suo riconoscimento e la sua progressiva accettazione pubblica è storia recente (non diversamente dai diritti delle donne, verrebbe da dire). E anch’io sarò più colorato del solito: e, forse, se non più divertente, almeno più divertito del solito.
Pride, una presa di parola, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 3 giugno 2023, editoriale, p.1
Oltre la logica binaria: sul (cosiddetto) gender
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaSiamo abituati a ragionare per opposizioni binarie, per diadi contrapposte: bene/male, bello/brutto, buono/cattivo. Quando si cade o scade nella cronaca, parlando di valori, di scelte sociali o di politica, significa: pro/contro (provax/novax, e tante altre), destra/sinistra, amico/nemico. Chi non è con me è contro di me.
Sono modi di ragionare comprensibili, che ci aiutano a de-finirci. Le de-finizioni, come i con-fini, sono strumenti che ci aiutano a comprendere la realtà, ma non a descriverla correttamente. Ne abbiamo bisogno, ma per andare oltre. Esattamente come le definizioni servono a ridurre un universo complesso a variabili semplici: ma sono uno strumento, non un fine, un punto di partenza, non di arrivo. E i confini (cum-finis: la fine che abbiamo in comune con l’altro, non solo che ci separa dall’altro) sono luoghi di attraversamento (o dovrebbero esserlo), non muri: servono per definire un pezzo (solo un pezzo) della nostra multiforme identità, che è fatta di tanti elementi e di tanti apporti (i confini degli stati, ad esempio, definiscono quella nazionale, spesso nemmeno quella linguistica o religiosa, e certamente non quella culturale, che è fatta di una miriade di frammenti che si configurano diversamente per ciascuno di noi). Anche i confini, insomma, sono ciò che ci aiuta a muoverci nel mondo (così come le definizioni ci aiutano a capirlo), ma anche ad andare oltre gli schematismi e le semplificazioni prodotti da diversità spesso solo immaginarie, o artificiosamente costruite. È una cosa che facciamo regolarmente nella nostra vita, molto più di quanto ne abbiamo contezza. Ma che non ci raccontiamo volentieri, perché ci piace pensarci come persone tutte d’un pezzo, non contraddittorie, coerenti, lineari. Ciò che non siamo e non saremo mai.
Tutto questo dovrebbe essere ovvio, ma nel dibattito pubblico sparisce. Pensiamo al vivace, ideologico, frequentissimo discutere sul (cosiddetto) gender. Alla fine, il discorso si riduce a questo: definirsi (e obbligare gli altri a definirsi) attraverso un solo carattere (maschio/femmina: ma anche gay o trans sono identità riduttive, se isolate, per così dire a prescindere), o accettare che nella vita sociale, nella produzione culturale, e persino nella natura, da che mondo è mondo, sono sempre state possibili, e lo sono sempre di più mano a mano che aumenta la diversificazione interna e la complessità delle società, infinite sfumature intermedie, che bisogna fare la fatica di ascoltare e comprendere. Tanto più perché queste diversità si intersecano con altre, andando a formare tante configurazioni diverse quante sono quelle che potrebbe produrre un caleidoscopio.
Ecco, mi pare di capire che quello che soprattutto chiedono le giovani generazioni, che sono indubbiamente sempre più coinvolte nelle, e anche attratte dalle, discussioni sul genere, sia semplicemente questo: di mettersi in ascolto. Per loro, checché se ne dica (a differenza di non pochi adulti, qualunque posizione sostengano), si tratta di ragionamenti che li vedono coinvolti in prima persona, esperienzialmente proprio, perché in questi processi si mettono in gioco davvero: chiedendo che venga preso in considerazione anche il proprio sentire, il loro volersi identificare (parlare, vestire…) diversamente, dunque il proprio orientamento di genere, l’autodefinizione, il nome stesso, con la possibilità di cambiarlo assumendo un alias caratteristico di quello che per gli altri è un altro genere, non corrispondente a quello biologico di chi lo richiede.
Chiedono, semplicemente (ma è proprio questa la fatica, per la società degli adulti), di uscire da una logica rigidamente, cartesianamente, direi ideologicamente e persino stupidamente binaria. Per la quale – contro ogni evidenza – c’è solo il bianco e il nero, la destra e la sinistra, il vero e il falso, il buono e il cattivo, l’alto e il basso, il cielo e la terra, il giorno e la notte, e naturalmente il maschio e la femmina. Non è così: lo sappiamo persino noi. Un minimo di riflessione, e ancora meglio di esperienza, di corpo, di cuore, ce ne farebbe accorgere facilmente. Ma preferiamo rifugiarci in antiche certezze, che usiamo come cittadelle identitarie, per chiuderci dentro rassicurati, e come armi, per far la guerra agli altri, che non assomigliano a noi. Solo che questi altri, che a qualcuno sembrano alieni, sono i nostri figli. E non ascoltarli non è mai una buona politica.
Il gender e i giovani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 maggio 2023, editoriale, p.1
Più migranti, e più figli: non è un’alternativa. E a proposito di Nordest…
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Interviste / Interviews, Società / Society /da AugustaFACCE DISPARI
Stefano Allievi ci spiega perché “non bastano più figli, servono migranti regolari”
Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, il suo ultimo libro è il “Dizionario del Nordest”. E dice: “Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. Solo con nuovi ingressi potremo salvare l’Italia”
Sociologo, studioso dei fenomeni migratori, milanese che ha scelto il Nordest dove vive da venticinque anni, Stefano Allievi è infaticabile autore di saggistica e infaticabile lettore di poesia (“per igiene mentale”). Ordinario di Sociologia all’università di Padova, il suo ultimo libro è il ‘Dizionario del Nordest’ uscito per Ronzani Editore, in cui sostiene, per dirla in sintesi, che il Nordest non esiste più. E poiché è capitato di sentirlo nel giorno degli Stati Generali della Natalità, non si è fatto sfuggire l’occasione per ricordare che, secondo lui, solo con l’arrivo dei migranti il Nordest (esista o meno) e l’Italia si possono salvare
Professore, cos’è il Nordest?
È retorica e aspirazione. Serve a vendere prodotti, soprattutto politici, con il richiamo a una identità molto ampia. Ma tra il Friuli e il Veneto ci sono enormi differenze, per non parlare del Trentino o addirittura dell’Emilia-Romagna, inglobata nella stessa circoscrizione elettorale alle Europee. Il Nordest è una invenzione politica e giornalistica, che ha funzionato per un bel po’ di tempo come chiave di presunta unicità: “Siamo la locomotiva d’Italia, quelli che lavorano più degli altri” e così via. Ma è da una ventina d’anni che il Nordest è un magma senza caratteri comuni, né politici né economici. Nello stesso Veneto, il Polesine, Belluno, Verona o Venezia sono tanti mondi a sé.
Come definire questo “magma”, che esiste ma non c’è?
Una sorta di metropoli diffusa che non è metropoli ma è sparpagliata tra città medie, piccole e campagne. Con un tessuto sociale provinciale, al cui interno ci si conosce bene e non si parla male, in pubblico, degli altri. Ci si protegge reciprocamente, non si è entusiasti di chi viene da fuori e i migranti sono brutti e cattivi, anche se il Veneto registra un saldo demografico negativo e una drammatica carenza di manodopera, perché a differenza della Lombardia il calo della natalità non è compensato dagli afflussi dall’Italia e dall’estero.
Cambieranno le cose con politiche più incisive a favore della natalità?
Sono auspicabili ma insufficienti in un Paese che ha perso in un anno 400 mila persone. Le politiche più “nataliste” del mondo, ammesso che le finanziassimo, avrebbero effetti sul mercato del lavoro tra vent’anni: vuol dire che intanto migliaia di aziende già senza manodopera avranno chiuso o si saranno spostate all’estero, con una enorme perdita di produzione e di ricchezza nazionale. Ci siamo mossi tardi: dell’inverno demografico bisognava accorgersi tanto tempo fa. Invece ci siamo svegliati solo da un paio d’anni, quando oltre a parlare degli sbarchi abbiamo constatato quanti giovani italiani emigrino per non restare in un Paese per vecchi.
Crede che l’arrivo di migranti possa risolvere i problemi economici piuttosto che aggravare quelli sociali?
Smettiamola con la retorica dell’invasione: l’allarme è ingiustificato. E poi gli arrivi irregolari non sono frutto del destino, ma li abbiamo creati noi. Quarant’anni fa non c’erano i barchini perché si poteva andare e tornare dall’Europa, non solo dall’Italia, senza tutte le attuali restrizioni che hanno prodotto evidenti risultati: morti in mare, migranti con livello d’istruzione sempre più basso e aumento dei minori non accompagnati, che rappresenta una bomba sociale. Non avveniva dai tempi di Neanderthal che dalle caverne invece degli adulti uscissero i bambini per procacciare il cibo.
Porti aperti?
Porti chiusi ai migranti irregolari, aperti ai flussi regolari. La soluzione va cercata negli accordi diretti con i Paesi di origine, stabilendo una quota annua di arrivi per ciascuno. Gli hub in Tunisia non risolvono, rivelano piuttosto una visione ancora sottilmente colonialista rispetto a Paesi che hanno un’opinione pubblica, dei media e un elettorato cui rispondere. Gli accordi diretti permetterebbero anche una selezione a monte e renderebbero realistico l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non abbiamo bisogno solo di richiedenti asilo, ma dei migranti economici. Chi dice il contrario va contro i giovani italiani. Sembra un’eresia per la vox populi, ma gli addetti ai lavori lo sanno.
Spieghi alla vox populi.
Quando il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati non sarà più di 3 a 2 ma di uno a uno, quella generazione dovrà mettersi sulle spalle un peso insostenibile. All’università i ragazzi mi rispondono: allora anch’io lascio l’Italia. Già oggi, per semplificare con un parametro approssimativo ma facilmente memorizzabile, un giovane di 25 anni guadagna il 25 per cento in meno del suo coetaneo di 25 anni fa.
Perché non si fanno figli?
Non riduciamo tutto a questione di edonismo. In Italia il 45% delle donne in età fertile non ha figli, ma solo il 5% tra loro dichiara di non volerli. È che il nostro, pur essendo un Paese familista, non offre grandi servizi alla famiglia. Dai nidi alle scuole a tempo pieno ai congedi a cose più banali, come i fasciatoi al ristorante o lo skipass gratuito per i piccoli. Difatti le italiane emigrate in Germania o in Olanda fanno figli e li conciliano bene con il lavoro.
Il periodo della pandemia è stato un’occasione di cambiamento sciupata?
Non solo: ha aggravato la situazione, perché le donne hanno sofferto di più la perdita di lavoro e si è aggravato il divario tra garantiti e non garantiti. Non è un dramma all’orizzonte. Ci siamo già dentro.
25 aprile: le parole per dirlo
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Articoli di Società / Society Articles, Politica / Politics, Società / Society /da AugustaIl 25 aprile continua ad essere percepito da alcuni come una data e una festa “divisiva”. Eppure è dalla Liberazione dal nazifascismo che nasce logicamente la Repubblica, che festeggiamo il 2 giugno. E in cui tutti, salvo forse i Savoia, ci riconosciamo.
Quest’anno c’è una differenza, però. Al governo non c’è chi l’ha sempre considerata come una “sua” festa, un motivo d’orgoglio e una rivendicazione di identità. C’è proprio chi, o anche chi, l’ha considerata – pure con polemiche recenti sul ruolo dei partigiani, o ambigui tentativi di ridurla alle sue pagine oscure (dalle foibe ai conflitti tra fazioni o alle vendette personali: che ci sono state, ma non ne inquinano il messaggio e il risultato) – divisiva e non inclusiva. Quale occasione migliore, allora, per i discendenti politici di chi all’epoca è stato sconfitto, ma ora gode dei vantaggi del regime repubblicano costruito dopo quello totalitario, e della legittimità democratica conquistata grazie ai suoi meccanismi elettorali (che il fascismo non consentiva), per fare un passo avanti, per andare oltre, per mostrare definitivamente di essere statisti, di essere al governo di tutti e per tutti, e non solo di una parte che si sente ancora – per giunta a torto – minoranza e vittima incompresa?
Certo, il 25 aprile ci mostra la vittoria di una parte d’Italia. Qualcuno direbbe la sua parte migliore. Certamente non solo la sua parte vincente: quella che come noto scrive la storia. Perché è molto di più: è la parte che ha dato luogo al tutto – i padri e le madri della Repubblica, della democrazia, e della costituzione che di questi valori si è fatta garante trasformandoli in mezzi. Grazie a quella vittoria, combattuta dagli alleati e da una parte minoritaria della meglio gioventù italiana (i partigiani di varia tendenza, diversi e divisi tra loro ma tutti accomunati dal desiderio di sconfiggere il fascismo), e sostenuta da molti di più, oggi siamo il paese che siamo. Con terribili difetti, è vero: ma democratico, e libero. Con una costituzione avanzata e civile, capace di evolvere e di includere diversità che il fascismo avrebbe considerato inaccettabili e avrebbe combattuto. Un paese in cui sono garantiti i diritti di tutti. Anche delle minoranze. Anche di chi, se allora avesse vinto, non li avrebbe garantiti a tutti, li avrebbe esplicitamente conculcati ad alcuni, e limitati a molti, come già aveva fatto, trasformandoli in privilegi di pochi.
C’è un modo di uscire dal meccanismo delle retoriche contrapposte, e pronunciare parole non banali, in qualche modo significative, oggi? Forse sì. Celebrando il 25 aprile, come giusto. Ricordando e raccontando chi ha combattuto e si è sacrificato nella resistenza, affrontando il nemico, che era nemico dell’Italia e degli italiani, non solo degli antifascisti: aveva tolto loro le libertà e li aveva portati in guerra, perseguitando e sterminando una parte di loro, gli ebrei, oltre gli oppositori politici. Un regime indifendibile sotto tutti i punti di vista, con gli occhi di oggi. Ma anche riconoscendo che molti hanno servito il loro paese, o hanno creduto di farlo, in altro modo. Il 25 aprile è padre del 2 giugno, ma anche figlio dell’8 settembre. Il giorno in cui molti si sono trovati di fronte a un bivio, hanno dovuto scegliere, e hanno scelto. Chi andando in montagna a combattere come partigiano. Chi cercando di dare una mano continuando a fare il proprio lavoro di prima: il contadino, l’operaio, l’impiegato di una istituzione, il carabiniere – schierandosi silenziosamente, nel fare più che nel dire. Chi scappando, invece: in esilio, rifiutandosi di contrapporre italiano a italiano, o semplicemente sfollato altrove, rifiutandosi di obbedire ad una autorità non più riconosciuta, ma incapace di assumere altro ruolo. E poi, sì, c’è stato chi ha creduto di dover rimanere fedele alla patria aderendo a una sua caricatura, la Repubblica di Salò. Il volto peggiore del fascismo: un regime in declino che portava con sé i valori antidemocratici e sopraffattori del precedente, aggravandoli, con il sostegno di una potenza totalitaria straniera, i nazisti. Ma in cui tuttavia qualcuno si riconobbe per ideale, e non ha senso negarlo oggi.
Mi sento titolato per dirlo. Io non c’ero. Ma mia madre il 25 aprile si trovava in galera, a San Vittore, con destinazione già prenotata in Germania, in quanto sorella e collaboratrice di un combattente partigiano. Mio zio era comandante di stato maggiore delle brigate Garibaldi. Un militare, un soldato che dopo l’8 settembre aveva scelto di continuare a combattere, ma dall’altra parte: un partigiano liberale, in contrapposizione continua con il suo commissario politico comunista. Ucciso il 26 aprile: da un tedesco, come scritto nei libri di storia. Da partigiani di orientamento diverso dal suo, come pure capitava in quei giorni, come si è tramandato nelle zone dove ha combattuto – fino ad oggi, come ho potuto verificare anche personalmente. Ecco, quella vita, e quella morte, mi hanno sempre spinto a cercare di uscire dalla retorica, dalla visuale a senso unico, dalla contrapposizione manichea tra buoni e cattivi, dove i buoni sarebbero stati tutti da una parte sola. Non è così, non è stato così. La resistenza ha le sue pagine buie, alcune orribili. Così come ci sono state figure positive, che è giusto ricordare, altrove. E in mezzo molti, eroi e anti-eroi della quotidianità. Martiri e banditi. E persone qualsiasi.
Sarebbe un passo avanti se riuscissimo a riconoscerlo, tutti. Che la ragione politica stava essenzialmente da una parte, pur con i suoi torti (al suo interno c’erano anche sostenitori di un totalitarismo diverso, inaccettabile con gli occhi di oggi nonostante incarnasse per molti dei valori nobili e positivi). Mentre altre ragioni, e altri torti, stavano anche altrove, e ovunque. E sarebbe semplicemente onesto se da parte del governo, e del capo del governo prima di chiunque altro, venissero finalmente parole chiare su questo. Un riconoscimento esplicito che quel 25 aprile ha aperto al mondo di oggi, e il mondo di oggi è molto meglio di quello di prima del 25 aprile. Basterebbe questo. E aiuterebbe il mondo a cui Giorgia Meloni e altri (incluso l’incauto La Russa) appartengono a uscire da un complesso di minorità che non ha più ragione d’essere, acquisendo una legittimità culturale (quella politica gliel’hanno data le elezioni) che ancora non ha, perché ancora ambiguamente ammicca ad un passato che dovrebbe imparare a superare. Nel nome della libertà, della democrazia, e della repubblica: che non hanno colore. Chi oggi governa avrebbe tutto da guadagnarne. Sfuggendo a un’accusa che da parte di molti è solo strumentale, polemica: ma di fatto sostenuta da intollerabili e inaccettabili ambiguità. E aiutando il paese ad andare oltre. Facendo esplicitamente propri i valori fondanti della nostra convivenza civile. E facendo in modo che siano i valori di tutti, nessuno escluso.
25 aprile: le parole per dirlo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, “Corriere di Bologna”, “Corriere di Verona”, “Corriere del Trentino”, “Corriere dell’Alto Adige”, 25 aprile 2023, editoriale, p.1
Migrazioni: perseverare è diabolico. Tutti gli errori del governo
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaNon sappiamo cosa fare? Facciamo qualcosa che non serve a niente. Tanto per fare. Sembra questa la logica che presiede alle ultime decisioni del governo sul tema delle migrazioni. Una più sbagliata dell’altra. Una più contraddittoria rispetto all’altra. Tutte contraddittorie con degli obiettivi di ragionevole gestione del fenomeno. Ma se errare è umano, e può capitare, quando si è presi alla sprovvista (il problema semmai è lì: essere presi alla sprovvista da un fenomeno che è uguale a se stesso da anni), perseverare è diabolico, e denota ostinazione, più che intelligenza delle cose.
Mettiamola così. Da un lato abbiamo una crisi demografica devastante, che è cominciata negli anni Novanta. È da allora che abbiamo più morti che nati, anche se ce ne siamo accorti solo ora, che il saldo negativo è arrivato a meno 400mila: una città come Bologna che sparisce ogni anno. Ma i suoi effetti sul mercato del lavoro si misurano ora, dato che chi va in pensione adesso è sostituito da una coorte che è grande poco più della metà: con il risultato di una drammatica domanda di lavoro che non riesce a intercettare alcuna offerta semplicemente perché non c’è, non è mai nata – un dato aritmetico che dovrebbe capire anche un bambino. Dall’altro abbiamo gli arrivi: irregolari perché non esistono (più) canali regolari di ingresso per motivi di lavoro. Qualcuno ha pensato di fare due più due? Purtroppo no. Nessuna organizzazione, nessuna programmazione. Si dichiara un inesistente stato di emergenza (che non c’è: nonostante tutto, il numero di nuovi arrivati è gestibile, e inferiore, come visto, ai bisogni del mercato del lavoro, aggravati dal fatto che sta di nuovo aumentando il numero degli emigranti – è l’evasione, il dato più drammatico, non la presunta invasione) e ci si inventa un commissario straordinario con poteri speciali per gestire gli arrivi, allo scopo di continuare a non far nulla di serio nel gestire le partenze, e affinché l’immigrazione e il mercato del lavoro possano incontrarsi.
Con quali effetti? In concreto significherà più CAS (centri di accoglienza straordinari) gestiti dai prefetti, che sono le strutture che hanno funzionato peggio, talvolta al limite e oltre il limite dell’illegalità, perché senza alcun obiettivo di integrazione. Non a caso cinque regioni hanno rifiutato di aderire al progetto che istituisce il commissario (alcune delle quali, come Emilia e Toscana, sono tra quelle che l’immigrazione la gestiscono meglio). E sei sindaci (Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma e Napoli) hanno scritto al governo per protestare. Vero, tutte realtà governate dal centrosinistra. Ma anche, semplicemente, quelle con più immigrati, spesso meglio integrati, e che sanno che il tessuto produttivo ne richiede ancora di più. E che, essendo in prima fila nel controllo del territorio, hanno paura, a seguito delle decisioni governative, di avere più irregolari anziché meno, e quindi più insicurezza anziché meno.
Una pensata ulteriore è infatti l’abolizione della protezione speciale: che consentiva di dare un permesso di soggiorno per motivi di lavoro anche a persone che non erano pienamente richiedenti asilo, ma avevano altri motivi umanitari (peraltro l’Italia, anche con essa, approva meno della metà delle richieste di asilo: la Germania e altri ben più della metà). Togliere la protezione speciale non è in connessione logica con gli obiettivi dichiarati. Farà diminuire gli sbarchi? No. Farà aumentare i rimpatri? No. Consentirà una migliore integrazione? No. Aiuterà la stessa gestione della cosiddetta emergenza? No. Precisamente il contrario. Addirittura, dovranno lasciare gli SPRAR (oggi SAI) coloro che sono già inseriti in un percorso virtuoso di integrazione. Esattamente come accaduto ai tempi in cui Salvini era ministro dell’interno, e aveva introdotto questa norma per la prima volta. Con il brillante risultato di avere più irregolari sul territorio, più disordine, più persone per strada, quindi più percezione di insicurezza, e meno occupabili. Sì, perché a paradosso si aggiunge paradosso, a dimostrazione che non c’è alcun governo delle migrazioni. Tutto ciò accade perché la politica rifiuta di ammettere quello che la demografia e il mercato del lavoro ci mostrano tutti i giorni: che abbiamo bisogno di immigrati (i tanto disprezzati migranti economici), che ne avremo bisogno sempre di più, e che se non arriveranno ci impoveriremo enormemente, come dimostrato dai calcoli della Banca d’Italia citati persino dal DEF (Documento di economia e finanza) del governo. Perché la recessione economica accompagna e segue la recessione demografica in cui siamo in mezzo. Solo un dato: passeremo dagli attuali 3 lavoratori attivi ogni 2 pensionati, all’1 a 1 nel 2040. Come pensiamo di sopravvivere, quanto poveri e indebitati vogliamo lasciare i nostri figli, che peraltro sull’immigrazione non la pensano come noi, solo per nutrire le nostre paure e le rendite politiche di alcuni? Non solo: le diarie per gli immigrati, invece di salire, calano da anni. Risultato? Niente formazione e orientamento al lavoro, niente insegnamento della lingua italiana, niente politiche dell’alloggio, e niente (o molti meno) diritti. Dell’istruzione in passato si diceva: se pensi che sia un costo, prova l’ignoranza. Dell’integrazione si può dire lo stesso. Se pensi che sia un costo, prova il suo contrario. Che, detto brutalmente, è la dis-integrazione. Anche delle buone pratiche già esistenti (non parliamo di inventarne di nuove).
Nel frattempo, si lancia in pompa magna un condivisibilissimo piano Mattei per l’Africa, che dovrebbe essere la versione nostrana del piano Marshall. Peccato che il piano Marshall prevedesse l’investimento di oltre il 10% del bilancio federale USA a favore delle popolazioni europee, per quattro anni. E il nostro cominci invece con il taglio dei fondi alla cooperazione. Possiamo immaginare con quali efficacissimi risultati.
L’errore si ripete, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto, Corriere di Bologna, Corriere del Trentino, Corriere dell’Alto Adige”, editoriale, p.1
Quando il sovranismo fa male alla nazione. Su carne, insetti e altre sciocchezze
/in Uncategorized /da AugustaLa sovranità alimentare rischia di essere una bella battaglia ideologica, e un boomerang pratico. Rischia infatti di ritorcersi contro la patria economia, oltre che contro la nazionale intelligenza.
Intanto: il nemico. Non c’è. Non c’è nessuna Europa che vuole obbligarci a mangiare grilli o deglutire carne sintetica. Anche perché non c’è nessun obbligo: semmai un aumento della libertà individuale e di scelta di ciascuno. Con tutte le precauzioni, etichettature e informazioni del caso, come giusto che sia, e che già l’Europa prevede, peraltro. Dietro ci sono buonissime ragioni. Perché insetti e grilli sono una risorsa di proteine abbondante e a disposizione: e peraltro fanno parte della dieta alimentare dell’uomo dall’inizio della sua storia. Ho mangiato in Africa termiti e cavallette, e non vedo una differenza di principio, e nemmeno di superiore civiltà, rispetto all’inghiottire moeche, lumache o gamberetti, francamente. Dopodiché, siamo liberi di non farlo, se non ci va. Ma anche di scegliere il cibo che più ci piace, compatibilmente con le nostre tasche, come già accade: siamo infatti i più importanti consumatori di sushi d’Europa, e i terzi per il kebab (nonostante le ordinanze sovraniste contro di esso…), pur godendo le decantate meraviglie della dieta mediterranea.
Quella contro la carne e le proteine sintetiche è una battaglia, se possibile, ancora più implausibile. Immaginiamo che, per coerenza, i sovranisti nostrani rifiutino anche le vitamine sintetiche, inghiottendo quando hanno il raffreddore solo quintalate di arance anziché comode compresse solubili in acqua (incidentalmente, anche arance, limoni e mandarini sono originari dall’estremo oriente: come faremmo se li avessimo sovranisticamente rifiutati in passato?).
La dico semplice. Il nutrimento per tutti, a prezzi abbordabili, sarebbe una svolta gigantesca nella storia dell’umanità. L’uscita dal bisogno, e letteralmente dalla fame, che ancora attanaglia molti. E non solo. La carne sintetica avrebbe (ha già) un impatto ambientale molto minore degli allevamenti intensivi (con le conseguenze devastanti che conosciamo, in termini di inquinamento, di salute, di consumo di territorio, risorse, acqua, antibiotici e altri farmaci non proprio naturali, di conseguenze più ampie sul cambiamento climatico – e magari di condizioni degli animali). L’ho assaggiata: e, francamente, non è più artificiale della maggior parte del cibo che compriamo al supermercato – che, peraltro, di naturale spesso ha molto poco (visto che siamo in periodo di Vinitaly, vale la pena ricordare che la viticoltura è la più grande consumatrice di chimica dell’agroalimentare europeo). Non solo: impedirne la produzione in Italia, vantando la primazia mondiale del divieto, mentre il mondo va nella direzione opposta, significa danneggiare le imprese italiane che già lavorano nel settore – altri andranno avanti nella ricerca, nella produzione e nella vendita e faranno profitti, noi contempleremo sovranamente il nostro ombelico impoverito. Salvo importare prodotti altrui, quando ci servirà.
Semmai, immagino altri scenari, legati a diseguaglianze fattuali più che a vaghi principi ideali. È solo questione di poco perché vi sia un ordinario doppio mercato, due filiere parallele: la carne artificiale per i più, nel consumo ordinario, da grande distribuzione, casalingo, e quella ‘vera’, più cara, per le occasioni speciali, magari al ristorante. Un po’ come già oggi sono separate la filiera del cibo ordinario e di quello biologico, o del pesce allevato e quello pescato. Il mercato del lusso e quello della gente comune. Sapendo che già oggi la chimica, tra additivi, integratori e quant’altro, è quella che rende i nostri anziani più restii ad abbandonare questa terra – e noi tutti più longevi. Immaginiamo che i sovranisti alimentari, coerentemente, non ne facciano uso.
Dopodiché, tutto ciò non è in contraddizione con la doverosa valorizzazione dei prodotti del territorio, il km zero, la biodiversità, la sostenibilità, la lotta per un consumo equo, per un pagamento giusto dei lavoratori della terra, la promozione dei sistemi locali del cibo, l’agricoltura familiare, la pesca e l’allevamento tradizionali (che non hanno nulla a che fare con gli allevamenti intensivi di carne pur nostrana, tuttavia).
Sono due binari paralleli, che vanno percorsi entrambi. E lo si può fare. Anche importando costumi e prodotti altrui integrandoli nella nostra cultura. L’abbiamo sempre fatto, del resto. Il pomodoro è peruviano, la melanzana indiana, il peperoncino della Guyana, il mais messicano, il riso arabo, il pesco cinese, la patata americana, come il tabacco – e potremmo continuare. Oggi li produciamo noi, come il kiwi di cui siamo il maggiore produttore al mondo. Non credo che ne faremmo volentieri a meno, in nome di una discutibile dieta sovranista.
No alla sovranità alimentare, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 31 marzo 2023, editoriale p.1