Oltre la logica binaria: sul (cosiddetto) gender

Siamo abituati a ragionare per opposizioni binarie, per diadi contrapposte: bene/male, bello/brutto, buono/cattivo. Quando si cade o scade nella cronaca, parlando di valori, di scelte sociali o di politica, significa: pro/contro (provax/novax, e tante altre), destra/sinistra, amico/nemico. Chi non è con me è contro di me.

Sono modi di ragionare comprensibili, che ci aiutano a de-finirci. Le de-finizioni, come i con-fini, sono strumenti che ci aiutano a comprendere la realtà, ma non a descriverla correttamente. Ne abbiamo bisogno, ma per andare oltre. Esattamente come le definizioni servono a ridurre un universo complesso a variabili semplici: ma sono uno strumento, non un fine, un punto di partenza, non di arrivo. E i confini (cum-finis: la fine che abbiamo in comune con l’altro, non solo che ci separa dall’altro) sono luoghi di attraversamento (o dovrebbero esserlo), non muri: servono per definire un pezzo (solo un pezzo) della nostra multiforme identità, che è fatta di tanti elementi e di tanti apporti (i confini degli stati, ad esempio, definiscono quella nazionale, spesso nemmeno quella linguistica o religiosa, e certamente non quella culturale, che è fatta di una miriade di frammenti che si configurano diversamente per ciascuno di noi). Anche i confini, insomma, sono ciò che ci aiuta a muoverci nel mondo (così come le definizioni ci aiutano a capirlo), ma anche ad andare oltre gli schematismi e le semplificazioni prodotti da diversità spesso solo immaginarie, o artificiosamente costruite. È una cosa che facciamo regolarmente nella nostra vita, molto più di quanto ne abbiamo contezza. Ma che non ci raccontiamo volentieri, perché ci piace pensarci come persone tutte d’un pezzo, non contraddittorie, coerenti, lineari. Ciò che non siamo e non saremo mai.

Tutto questo dovrebbe essere ovvio, ma nel dibattito pubblico sparisce. Pensiamo al vivace, ideologico, frequentissimo discutere sul (cosiddetto) gender. Alla fine, il discorso si riduce a questo: definirsi (e obbligare gli altri a definirsi) attraverso un solo carattere (maschio/femmina: ma anche gay o trans sono identità riduttive, se isolate, per così dire a prescindere), o accettare che nella vita sociale, nella produzione culturale, e persino nella natura, da che mondo è mondo, sono sempre state possibili, e lo sono sempre di più mano a mano che aumenta la diversificazione interna e la complessità delle società, infinite sfumature intermedie, che bisogna fare la fatica di ascoltare e comprendere. Tanto più perché queste diversità si intersecano con altre, andando a formare tante configurazioni diverse quante sono quelle che potrebbe produrre un caleidoscopio.

Ecco, mi pare di capire che quello che soprattutto chiedono le giovani generazioni, che sono indubbiamente sempre più coinvolte nelle, e anche attratte dalle, discussioni sul genere, sia semplicemente questo: di mettersi in ascolto. Per loro, checché se ne dica (a differenza di non pochi adulti, qualunque posizione sostengano), si tratta di ragionamenti che li vedono coinvolti in prima persona, esperienzialmente proprio, perché in questi processi si mettono in gioco davvero: chiedendo che venga preso in considerazione anche il proprio sentire, il loro volersi identificare (parlare, vestire…) diversamente, dunque il proprio orientamento di genere, l’autodefinizione, il nome stesso, con la possibilità di cambiarlo assumendo un alias caratteristico di quello che per gli altri è un altro genere, non corrispondente a quello biologico di chi lo richiede.

Chiedono, semplicemente (ma è proprio questa la fatica, per la società degli adulti), di uscire da una logica rigidamente, cartesianamente, direi ideologicamente e persino stupidamente binaria. Per la quale – contro ogni evidenza – c’è solo il bianco e il nero, la destra e la sinistra, il vero e il falso, il buono e il cattivo, l’alto e il basso, il cielo e la terra, il giorno e la notte, e naturalmente il maschio e la femmina. Non è così: lo sappiamo persino noi. Un minimo di riflessione, e ancora meglio di esperienza, di corpo, di cuore, ce ne farebbe accorgere facilmente. Ma preferiamo rifugiarci in antiche certezze, che usiamo come cittadelle identitarie, per chiuderci dentro rassicurati, e come armi, per far la guerra agli altri, che non assomigliano a noi. Solo che questi altri, che a qualcuno sembrano alieni, sono i nostri figli. E non ascoltarli non è mai una buona politica.

 

Il gender e i giovani, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 maggio 2023, editoriale, p.1