Demografia e migrazioni. Cosa dice l’Economist e perché ci riguarda

Le pagine dell’Economist di questi giorni sono piene di riflessioni sulla demografia mondiale, e i suoi legami con l’economia, le migrazioni e l’innovazione. Varrebbe la pena che qualche decisore pubblico nostrano, pur zoppicante con l’inglese (ci si può sempre far aiutare dal traduttore di Google), facesse lo sforzo di leggerle. Per capire quali e quanti scenari si aprono. E quanti rischiano di chiudersi.

Il principale di questi articoli ci annuncia, fin dal titolo, che “Una nuova era di migrazioni di massa è cominciata”. E non lo nota con aria preoccupata, lanciando allarmi su una nuova possibile emergenza, o su una presuntissima sostituzione etnica. Al contrario.

Il fatto è che la cattiva notizia è il crollo demografico dell’Occidente. Quella buona sarebbe che la disoccupazione interna ai paesi ricchi non è mai stata così bassa (con una media del 4,8%). E quindi l’unico modo per legare i due temi è ricorrere all’immigrazione. Cosa che sta già succedendo: nei fatti, e a prescindere dalle narrazioni fuorvianti e cieche (manco vedono i dati trasformarsi e i fatti accadere) della politica. Il mondo ricco infatti è già nel pieno di un boom di immigrazioni: che sono in crescita in Gran Bretagna (1,2 milioni di arrivi nel 2022, più che in qualsiasi periodo precedente, nonostante Brexit), Australia (il doppio che nel periodo pre-Covid), Stati Uniti (se ne aspettano quest’anno un terzo in più rispetto a prima della pandemia), Canada (nel 2022 più del doppio del record precedente), ma anche Germania (più che nel periodo della grande crisi del 2015, quando in poco più di un anno aprì le porte a 1,5 milioni di richiedenti asilo sparsi nei Balcani) e persino Spagna.

Si dirà che l’Economist è la Bibbia dell’ordine neoliberale, e fa solo gli interessi degli imprenditori, del capitalismo di Davos (se non altro, è il riferimento della loro ala più liberal e illuminata). E si dirà che in Italia la situazione è diversa. Ma non ne sarei così sicuro. Seppure in proporzioni un po’ diverse, il problema tocca anche noi: persino di più. Perché, è vero, da noi la disoccupazione è decisamente più elevata. Ma siamo messi molto peggio di altri paesi sviluppati in altri due indici. Siamo il paese con il bilancio demografico più catastrofico: da noi ogni anno i nuovi morti sono il doppio dei nuovi nati, con un differenziale che equivale alla popolazione di Bologna, settima città italiana per numero di abitanti – che evapora ogni anno. E abbiamo un bilancio migratorio tra i peggiori del mondo sviluppato: in sostanza, c’è in corso un’evasione di cui si parla assai meno della tanto gettonata invasione, per la semplice ragione che la prima non porta alcun dividendo elettorale. E questo ci riporta alla disoccupazione, e in buona parte la spiega. Esportiamo lavoratori istruiti (il tasso di laureati tra gli expat è il doppio della media nazionale) perché non abbiamo abbastanza posti (o a salari accettabilmente decenti) da offrire loro, ma abbiamo enorme bisogno di manodopera meno qualificata, perché tali sono i lavoratori di cui c’è carenza: l’80% degli immigrati, secondo dati ufficiali del ministero del lavoro – che tutti gli anni produce un rapporto sull’immigrazione in Italia che apparentemente nessun politico legge – hanno una qualifica riconducibile a quella operaia; e il grosso dei lavori per cui c’è penuria, dalle colf e badanti al settore cook and clean, dai braccianti alle cooperative della logistica e del trasporto, sono poco appetibili per laureati e diplomati qualificati, anche a prescindere da considerazioni salariali, su cui comunque ci sarebbe parecchio da fare (e va ricordato: un giovane di 25 anni che entra oggi nel mercato del lavoro guadagnerà circa il 25% in meno di un giovane di 25 anni entrato nel mercato del lavoro 25 anni fa: niente da dire, su questo, da parte di governo, imprese, sindacati?).

Altra notizia di rilievo è che i paesi che attirano più immigrati soffrono meno il calo dei salari, contrariamente a una vulgata proto-marxista, sull’esercito industriale di riserva, fatta propria in Europa soprattutto dalle destre, insieme a pezzi di sinistra radicale. I salari calano perché non c’è innovazione da un lato, e non ci sono controlli dall’altro, semmai. E perché una quota significativa di immigrati è irregolare e quindi più ricattabile: il che dovrebbe spingerci a regolarizzarli, e ad aprire canali regolari di ingresso, non a respingerli.

L’Economist conclude che presto la svolta anti-immigrazionista dei paesi sviluppati negli anni 2010 sarà vista come una aberrazione. La società civile organizzata, il mondo dell’impresa, le istituzioni internazionali, stanno cominciando ad accorgersene. Ora attendiamo la politica e la pubblica opinione, che continuano invece ad alimentare il corto circuito che spinge nella direzione opposta.

 

Chi chiede migranti e chi lo farà, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2023, editoriale, p.1