Redistribuire il lavoro
Non è stato il progresso, come molti immaginavano pochi decenni fa (e sembra un’era geologica), che ha messo in crisi il rapporto tra lavoro e denaro, tra la fatica fatta e le risorse ottenute. È stata la crisi…
L’innovazione tecnologica rende obsoleti molti lavori, sostituendo la manodopera con le macchine. Tutto dovuto ad una banale equazione: P=xT, dove P è ovviamente la produzione, T è il tempo di lavoro e x il coefficiente di produttività. Se il coefficiente di produttività – grazie alle macchine – aumenta, il tempo di lavoro diminuisce, e i posti di lavoro di cui c’è bisogno, di conseguenza, anche. D’altro canto, fin dalla prima rivoluzione industriale – quella delle macchine a vapore contro cui combattevano i luddisti – ci siamo accorti che nel lungo periodo il lavoro non è diminuito, ma aumentato, man mano che la complessità sociale apriva nuovi settori e diventavano rilevanti funzioni che hanno bisogno di capitale umano, di conoscenza e di beni relazionali (dalla knowledge economy al lavoro di cura).
Nel pieno della “produzione di merci a mezzo di merci” (Sraffa), ci si poteva illudere che il lavoro sarebbe sì diminuito, ma l’abbondanza di merci sarebbe aumentata, migliorando la qualità della vita di tutti e aprendo a splendide utopie di reddito di base e salario universale garantito anche in assenza di corrispettivo lavorativo. Poi, appunto, è arrivata la crisi, anzi una rapida sequenza di crisi inanellate l’una nell’altra (di cui l’ultima, quella provocata dal Covid, è stata il colpo di grazia), e ci siamo risvegliati. Con risposte molto diverse agli interrogativi emersi. Sì, le macchine producono e produrranno sempre più beni (ma c’è un limite, anche ambientale, alla loro produzione come al loro stoccaggio e consumo). No, il lavoro non è stato redistribuito, e la ricchezza ancora meno. Le diseguaglianze di reddito sono in crescita: il pavimento si sta sollevando per molti (facendo uscire ampie fasce di popolazione dalla sussistenza o dalla fame), ma il soffitto per alcuni è semplicemente sparito. Se parametrassimo le diseguaglianze all’altezza media degli umani, scopriremmo che a una frequenza diffusa di persone alte un metro e settanta, corrispondono fasce di popolazione alte pochi centimetri, e una minoranza di happy fews alti parecchi chilometri. Il lavoro è ugualmente mal distribuito: da un lato abbiamo workaholic e stakhanovisti, dall’altro disoccupati e nullafacenti, volontari e – più spesso – involontari, tra cui i NEET (Not in education, employment and training). Oltre a questo, per molti lavori è completamente sfumato il rapporto tra impegno profuso e risorse ottenute: lavori pagatissimi in sé e lavori sottopagati in sé, a prescindere da capacità e persino a parità di ruolo e ‘credenziali’. Un laureato in lettere guadagna mediamente meno di uno in ingegneria, e uno in ingegneria meno di uno in economia: senza merito specifico. Per non parlare di chi, con una canzone di pochi minuti, o una forma di visibilità televisiva occasionale, può vincere la lotteria della ricchezza.
Si amplia la forbice tra chi ha e chi non ha, tra chi conta e chi può essere solo contato, tra chi sa come impiegare il proprio tempo e chi no. Dove bisogna soprattutto lavorare è dunque nella (re-)distribuzione – a valle, delle risorse, e a monte, del lavoro stesso – nel diverso e più egualitario apprezzamento dei diversi tipi di lavoro, e infine nell’ingegneria sociale, che può consentire non solo forme di ripensamento del lavoro (part-time orizzontale e verticale, job sharing, re-engineering della settimana lavorativa, lavoro intermittente, discontinuo, intervallato da momenti di lifelong learning, ecc.). Ma non è cosa che si risolva nel mercato del lavoro: occorre lavorare sulla stessa organizzazione sociale, reintroducendo principi comunitari, anche di proprietà, e beni relazionali nel vivere comune, cominciando da modalità di urbanizzazione che favoriscano questi scambi. Lavorare meno, lavorare tutti, consentirsi di chiamare lavoro quello creativo e sociale – il piacere, non l’obbligo – e retribuire quello non salariato (domestico e di cura, in primo luogo). Lord Keynes, nel suo saggio sulle Prospettive economiche per i nostri nipoti, già negli anni ’30 sosteneva che “tre ore di lavoro al giorno sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi”. Il resto è tutto da riempire: possibilmente non di vuoto, o di solo consumo.
Senza lavoro, in “Confronti”, n. 12, 2020, rubrica “Il mondo se…”, p. 35