Considerazioni sul Natale e sul presepe
Mai come quest’anno il Natale, oltre che delle tradizioni, ha fatto parte del dibattito pubblico, politico e mediatico: presepi ostentati, forse anche laddove non si erano mai fatti prima (il che può anche essere considerato un positivo segnale di ritorno alle cose che ci danno senso), canti natalizi da parte di politici davanti alle scuole, rivendicazioni pubbliche di fedeltà al Natale… E mai come quest’anno è sembrato che se ne perdesse lo spirito, confrontando la piccolezza di talune polemiche con l’enormità degli eventi: quelli storici che stiamo vivendo e quelli rievocati dal rito. Ma va bene così, perché il Natale è anche segno di contraddizione.
Per i credenti, e non solo per loro, è il ricordo e la meditazione di una nascita speciale, miracolosa, all’interno di un fatto storico dopo tutto minore. Un fatto speciale per la figura di chi è nato: il Dio incarnato, secondo la tradizione cristiana; il più grande profeta dopo Muhammad per i musulmani, le polemiche intorno ai quali ci hanno se non altro insegnato qualcosa delle loro tradizioni e del loro credo. Una storia minore per le circostanze specialissime di quella nascita: in una stalla di Betlemme, tra gli animali di una domesticità antica, perché gli accadimenti avevano impedito a quella famiglia in trasferta, lontana dalla sua terra natale, di trovare una sistemazione più accogliente.
Cercando di evitare il rischio della retorica, sempre in agguato, ci è tuttavia difficile non fare qualche considerazione collegata a questa nascita, a questo presepe e a questo Natale. E’ difficile, in quest’anno così fortemente caratterizzato – nella realtà di chi vive questa condizione e nell’immaginario di chi la osserva sbigottito nelle sue conseguenze a casa propria – dalle vicende legate alla presenza dei profughi, non pensare che la loro condizione non è dissimile, e semmai è più grave e dolorosa, rispetto a quella della Sacra Famiglia. E che lo spirito del presepe, su cui anche dalle nostre parti sono fiorite le polemiche, è quello dell’accoglienza del diverso, non del suo rifiuto: incarnato in una famiglia foresta e senza domicilio, in una sistemazione precaria ma riscaldata almeno dal fiato di un bue e di un asinello, nel riconoscimento della diversità e del suo valore da parte di sapienti venuti da lontano e di razze diverse, i Magi – mentre i pastori, oggi diremmo i ceti meno abbienti, davano una mano nell’accoglienza, per quel che potevano. Così come è proprio impossibile, di fronte alla provocazione inaudita di un bambino che viene al mondo per salvare l’umanità, non pensare ai troppi bambini che, ancora in questi giorni, sono morti affogati nelle acque del Mediterraneo, non salvati da nessuno, almeno nel loro destino terreno. Non è possibile perché l’immagine di Aylan Kurdi riverso su una spiaggia dell’Egeo, e dei molti altri bambini di cui abbiamo visto le tragiche fotografie in questi mesi, è rimasta incisa nel nostro immaginario: ed è stata capace di svolgere un ruolo nel modificare persino le politiche di leader e di stati fino ad allora capaci di ragionare solo con gli egoismi dello stomaco, o abilissimi, come le tre scimmiette di una famosa immagine, nel non vedere, nel non sentire e nel non dire nulla a proposito di un fenomeno tra i più significativi di questo periodo storico. Aylan Kurdi è insomma l’immagine del Gesù bambino di oggi: o, se si vuole, il suo contraltare.
E’ strano ma significativo sapere che mentre attendiamo di rinnovare il ricordo della nascita di quel bambino che dà senso alle credenze di molti di noi, le immagini dei bambini morti mentre cercano salvezza sulle nostre coste, e di quelli che muoiono tutti i giorni sotto i bombardamenti dell’una o dell’altra fazione dello scacchiere siro-iracheno, così vicino ai luoghi storici della nascita di Gesù, fanno il giro della nostra semiosfera: in tv, sui giornali, sui social network. Spesso con poche conseguenze, al di là di una indignazione superficiale e frettolosa, ma talvolta radicandosi nel nostro immaginario forse più di quello che vorremmo. A riprova del fatto che anche la fragilità dei deboli può avere conseguenze, provocare coscienze, attivare azioni e politiche. E che il bambino che nasce nel Natale del rito rivive, come nel messaggio che ci ha lasciato, in quelli come lui: bambini, vittime innocenti, inermi. E che ripensare a lui può aiutarci a ripensare con sguardo diverso anche a loro.
Una notte per tutti i bambini. Il bimbo che nasce e quelli che muoiono: il vero spirito del nostro presepe, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 dicembre 2015, editoriale, p.1