Come il terrorismo ci cambia la vita

Negli ultimi dieci giorni ho preso sei aerei su tratte internazionali, tra l’Europa e il Canada. E credo di aver pensato la stessa cosa di molti altri viaggiatori, dopo che gli aeroporti sono diventati obiettivi privilegiati del terrore, da Bruxelles a Istanbul. Un pensiero che sta tra la preoccupazione che accada qualcosa, il guardarsi attorno con maggiore attenzione, e il sollievo perché nulla è successo, alla fine del viaggio. Ma qualche pensiero simile devono averlo avuto molti spettatori degli europei di calcio, dopo il fallito attentato allo Stade de France. Appassionati di concerti, dopo la strage del Bataclan. Frequentatori in altri continenti di locali per occidentali, dopo Dacca. E, da domani, dopo Nizza, chiunque assista a un evento popolare, partecipi a una manifestazione, a un Capodanno… Insomma, tutti noi. E’ qualcosa di impalpabile: paura, certo. Ma anche una diversa consapevolezza dello spessore della vita, se sai che potresti non ritornarci, a casa: e una gratitudine nuova, quando rivedi i tuoi cari. E’ il frutto del terrore. Quello che si vive da anni, in maniera esponenziale, a Baghdad. Quello che hanno vissuto per anni a Beirut. O a Belfast. E in Israele, e in mille altri posti, dove la vita è a rischio non solo del caso, della violenza della natura, ma anche del terrore prodotto da chi sceglie degli innocenti, dei bersagli casuali, come nemici, per non sai quali ragioni. E’ ordinaria amministrazione, per molti altri esseri umani, lontano da qui. Ma noi, almeno dal periodo del terrorismo politico degli anni ’70 e ’80, non ci eravamo più abituati. Ora quel sentimento è tornato. Ed è ancora più forte, ancora più subdolo. Perché più subdolo è il nemico, meno comprensibili i suoi obiettivi. E perché, se anche l’Isis fosse sconfitto sul campo, la sua attrattiva durerà più a lungo, troverà altre forme e altri simboli di antagonismo.
Per me è anche più straniante. Perché quei viaggi li ho fatti per partecipare a convegni in cui si parla di processi di radicalizzazione, di foreign fighters, di terroristi, delle ragioni di seduzione del Califfato; per discutere con colleghi che in altri paesi stanno facendo le stesse ricerche comparando dati in comune e specificità che differenziano; per incontrare chi lavora sul terreno della prevenzione. Questo porta il pensiero sempre lì: a cercare di capire come evitare tutto questo, avendocelo continuamente davanti. Ma nello stesso tempo c’è una specie di sana inerzia che ci fa vivere, tutti, ugualmente, ed è bene così, altrimenti il terrore avrebbe già vinto. Continueremo a prendere l’aereo, ad andare allo stadio, ai concerti, a vedere i prossimi fuochi d’artificio a Ferragosto – con qualche precauzione in più, ma ci andremo…
Difficile dire da dove viene tutto questo, e dove ci porterà. Perché non ci sono, veramente, ragioni, quando si tratta di atti di questo genere, comunque siano motivati: ancora meno se si tratta di vaghe miscele di risentimento, di odio ideologico religiosamente motivato, di depressione, di desiderio di riscatto o di vendetta, come forse accaduto a Nizza.
Ma qualcosa dobbiamo dirci: non possiamo non darci delle risposte. La prima riguarda il che fare. A Montreal nei giorni scorsi ho incontrato i colleghi (ma ce ne sono in molte altre città) di un ufficio di prevenzione della radicalizzazione: un’équipe interdisciplinare di una quindicina di persone, tra criminologi, sociologi, psicologi, assistenti sociali. Fanno un lavoro strano, che per certi versi è il contrario di quel che dice il nome del loro ufficio: si vedono segnalato un giovane dalla barba troppo lunga o dalle opinioni troppo urlate, per scoprire, se non è sospetto (nel caso, ci sono precise procedure da seguire), che c’è un grande lavoro culturale da fare su chi l’ha segnalato, scuola o vicino che sia. Per tranquillizzare, ma anche per spiegare come davvero si riconosce un nemico, e quali specificità sono semplicemente innocue diversità culturali con cui imparare a convivere. La seconda riguarda noi, come paese. Cercando di rispondere, come mi chiedono spesso da fuori, perché l’Italia non è ancora stata toccata da atti di terrorismo eclatanti. Potremo essere smentiti domani: ne basta uno, per far saltare il quadro. Ma i fattori sono di qualche interesse: la dispersione sul territorio, la mancata concentrazione nelle grandi città, che consente una maggiore conoscenza reciproca e un migliore controllo sociale; la mancanza di risentimento post-coloniale o di una storia plurigenerazionale di banlieues troppo lasciate a se stesse; l’efficacia della prevenzione e della repressione (ci sono state) e la collaborazione delle comunità religiose nel controllo del territorio; l’integrazione riuscita dei più, che va sottolineata; ma anche il fatto che nella leadership religiosa islamica del nostro paese siano presenti gruppi politicizzati diversi da quelli che oggi simpatizzano per lo stato islamico: come la componente storica dei Fratelli Musulmani o certe leadership neosalafite radicali ma non violente – che magari possono creare problemi ad altri livelli (chiusura intracomunitaria, conservatorismo di genere), ma incanalano i sentimenti antioccidentali di potenziali esaltati in altro modo. Sono supposizioni, per ora, su cui è utile confrontarsi. Perché la sfida del capire, purtroppo, ce la porteremo con noi ancora a lungo.
Il terrore: capire, prevenire, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 16 luglio 2016, editoriale, p.1