Musulmani in chiesa: le conseguenze di un gesto
La presenza di esponenti musulmani alla messa domenicale in molte località italiane, incluse molte chiese venete e del Nordest, per esprimere solidarietà e vicinanza ai cattolici dopo l’assassinio di padre Jacques Hamel, ucciso nella sua chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, è un simbolo potente, che può avere conseguenze significative sul rapporto tra musulmani e non musulmani (non solo cattolici) nel nostro paese.
E’ un simbolo per la figura dell’ucciso: un innocente che predicava e praticava il dialogo, al punto che il terreno su cui sorge la moschea locale venne concesso proprio dalla parrocchia di padre Jacques, in anni in cui ancora prevaleva il desiderio di dialogo e accoglienza anziché la contrapposizione.
E’ un simbolo per la reazione che ha provocato tra i musulmani: che si spiega anche con il fatto che musulmani e cristiani condividono una medesima grammatica religiosa, che è quella della preghiera, del rito, dell’importanza del luogo di culto come cemento della comunità. Uccidendo padre Jacques, chi usa violenza in nome dell’islam, ha colpito quella stessa grammatica religiosa che chiede rispetto per le fedi, per i loro rappresentanti, per i loro luoghi. Andando contro riferimenti al Corano, alla vita e alla pratica di Muhammad e dei primi califfi dell’islam, conosciuti da ogni buon musulmano, che vanno nella direzione opposta.
E’ un simbolo che diventa fatto concreto, e questo è abbastanza eccezionale. Si parla tanto di dialogo, ma lo si pratica poco, anche nella sua dimensione quotidiana. Nei documenti fondativi del dialogo interreligioso nel mondo cattolico, come la dichiarazione conciliare “Nostra Aetate”, la parola dialogo, nell’originale latino, è colloquium – un qualcosa alla portata di tutti e a cui tutti sono chiamati, non solo gli addetti ai lavori. Qui sono imam ma anche credenti qualsiasi, giovani, donne, che si sono recati nelle chiese ad assistere a una messa: molti per la prima volta nella loro vita, quando invece la frequentazione, la conoscenza e il rispetto reciproco dovrebbero essere l’abc di ogni rapporto vero. E a questo proposito forse vale la pena di invitare sacerdoti e credenti comuni a fare altrettanto, seguendo il rituale della preghiera in una moschea, ricambiando il favore. Questi gesti, personali e quindi reali, hanno ricadute pratiche enormi, nella creazione di un clima di fiducia. Ci si vede, ci si riconosce in alcuni valori comuni – anche solo nella rispettiva umanità, qualche volta negata da una propaganda sottile: che è del califfato nelle sue conseguenze più terribili, ma anche di altri radicalismi di segno opposto, ben presenti nella nostra società – e ci si conferma come attori capaci di costruire il bene comune, per comune desiderio e non solo nel reciproco interesse.
E’ infine un simbolo anche nel rapporto con le istituzioni laiche (clamorosamente assenti, a torto, da questi momenti di incontro civile). Domenica, in un’intervista su questo giornale, il ministro dell’Interno Alfano ha indicato i paletti di un corretto rapporto con l’islam: fermezza contro i fenomeni di radicalizzazione (con le espulsioni di imam e altri personaggi sospetti avvenute in Veneto anche in questi giorni), e apertura a un processo di progressivo riconoscimento dell’ordinarietà dell’islam – dei suoi imam, dei suoi luoghi di preghiera – indispensabile per la convivenza civile, che in altri paesi europei è già cominciato.
Quella di domenica potrebbe essere una tappa importante di questo processo. Si chiede sempre ai musulmani di alzare la propria voce contro la violenza compiuta in nome dell’islam: l’hanno fatto spesso, inascoltati. Ora l’hanno fatto con un gesto coraggioso, divisivo anche all’interno delle comunità islamiche (non perché altri siano contrari al gesto di solidarietà, ma perché nella tradizione islamica si tende a non confondere i luoghi di culto e i momenti di preghiera): vorremmo che la risposta non fosse quella che si è vista anche in una parte della politica e delle istituzioni venete e nazionali, che ha letto in quella presenza un ‘porgere l’altra guancia’ o un calare le braghe. Cominciamo a riconoscere la realtà di questo islam, che esiste: ci verrà più facile riconoscere anche quello che ci è nemico, distinguendolo dal primo, e facendoci aiutare a combatterlo da esso.
La messa che deve unirci, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 2 agosto 2016, p.1, editoriale