Qualche consiglio per salvare il PD

Finora il dibattito nel PD è stato tutto e troppo interno, autocentrato, rivolto al proprio ombelico: e questa è probabilmente una delle ragioni della sua attuale crisi.

Il PD ha commesso una serie di errori organizzativi (su quelli politici, ognuno faccia le sue valutazioni) clamorosi:

a) non facendo partire immediatamente la campagna per il tesseramento (lanciata in ritardo, quando già l’entusiasmo era calato e l’immagine appannata, a causa dei personalismi e dei continui conflitti interni molto più che non a causa di una prevedibile sconfitta elettorale);

b) non indicendo immediatamente un congresso che legittimasse la leadership, contro lo strapotere di correnti e sottocorrenti.

Entrambi errori voluti da coloro i quali, in quanto leader delle precedenti componenti, volevano prima insediarsi, contarsi, logorare l’avversario, spartirsi le risorse (dai soldi ai posti), per garantire reciproche rendite di posizione tra gruppi tra loro in dissenso, perdendosi in discussioni su temi poco sentiti, molto politichesi, con logiche che nulla avevano a che fare con un partito che si voleva nuovo. Personalmente, ho vissuto tutto questo aspetto con una certa amarezza: una promessa non mantenuta. Tuttavia, come altri, credo ancora nelle cose che si possono fare all’interno di questo progetto, per portarlo a compimento.
Ma per farlo dobbiamo sconfiggere i nemici primi del PD. D’Alema e i dalemiani, Rutelli e i rutelliani, Parisi e i parisiani, tanto per non fare sconti a nessuno, e altri ancora: cioè tutti quelli che avevano una logica di cricca e di corrente, ed erano in ricerca estenuante di visibilità, alimentando logoranti conflitti.
Ma ci aggiungerei anche le microcorrenti che pretendono abusivamente di rappresentare un’identità: i cosiddetti ‘cattolici’ (teodem o altri: da cattolico sono arcistufo di sentirmi dire che mi rappresenta la Binetti), per esempio, e tutti coloro che cercavano legittimità fuori anziché dentro il partito. Forse perché dentro sapevano che non ne avrebbero avuta un granché.
Basta! Con loro, basta!
Il nostro sogno e il nostro impegno politico (perché è nostro, non loro) rischia di essere affossato a causa di queste logiche.
Salviamo il PD, dissequestriamolo, iniziamo una lotta di liberazione interna dai cacicchi veri, che stanno a Roma, non sul territorio.
Ma per farlo occorre una leadership forte, e che creda in questa logica, anziché essere figlia di quelle precedenti (come probabilmente era l’intempestiva candidatura Bersani). E che sia finalmente legittimata. Altrimenti saremo noi il partito di plastica: altro che le ironie su Forza Italia o il PDL.
E questo anche a costo di cambiare subito lo statuto, consentendo quello che si è volutamente impedito fino ad ora: che gli iscritti possano esprimersi sui destini del loro partito, sulle sue scelte, sui suoi dirigenti, locali e nazionali.
Arrivo a dire: chiunque sia, ma sia un segretario legittimato e con pieni poteri.
Che sia Franceschini, perché è la soluzione più naturale e in continuità con il lavoro di Veltroni.
Che sia un leader proveniente dal territorio, anche se purtroppo non accadrà (un Chiamparino, un Soru, o qualunque altro abbia un responsabilità concreta e un popolarità almeno dove opera politicamente).
Che sia un illustre sconosciuto.
Che sia uno dei nemici interni del progetto del PD. Ma almeno sapremo di chi si tratta, e potremo, tutti quanti, trarne le dovute conseguenze, e decidere se ci piace ancora il progetto che il Partito Democratico rappresenta.
La ricchezza del PD sono le sue energie, i suoi sostenitori, i suoi elettori. Non sprechiamola per colpa dei soliti noti. Questo chiedono i semplici iscritti, quelli che finora non hanno avuto nemmeno un po’ di voce.

Sarebbe un delitto imperdonabile, e una responsabilità storica, continuare in un dibattito tra soli vertici, o presunti tali, che rischia di vedere implodere il PD: se una forza politica nuova si vuole davvero costruire, la sua forza non può che partire dal radicamento nel territorio, dalla sua vivacità, dalla sua capacità di cambiamento e di innovazione a quel livello, e dalla possibilità di esprimere la propria voce, da parte di tutti.

Il che significa che bisogna far partecipare le energie nuove che hanno creduto in questo progetto politico: fornendo, innanzitutto, occasioni di dibattito anche formali, negli organismi che hanno potere decisionale, non solo per ratificare decisioni altrui.

Salviamo il PD. Inondiamo di mail il sito del partito democratico, mandiamo fax e intasiamo di telefonate i centralini locali e nazionali del PD, chiamiamo quelli che conosciamo che domani parteciperanno all’assemblea nazionale, chiedendo con forza il congresso anticipato, per evitare una situazione dilatoria che servirebbe precisamente a far tirare in lungo coloro contro i quali e a causa dei quali Veltroni si è dovuto dimettere: e sarebbe una débacle, una morte annunciata estenuante e logorante, per il partito che si voleva democratico.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 20 febbraio 2009, p. 1-12

Due pesi e due misure

Il fatto: pregano in piazza, i primi; pregano in piazza, i secondi. Il luogo: davanti al Duomo di Milano, i primi; davanti alla clinica La Quiete di Udine, i secondi. Il motivo: in solidarietà con i loro correligionari di luoghi più sfortunati, i primi; in solidarietà con una ex-ragazza più sfortunata di loro, i secondi. Per che cosa: perché oltre 1300 di essi, di cui un terzo bambini, sono stati massacrati in pochi giorni in una guerra profondamente asimmetrica, i primi; perché una di loro potrebbe passare da una vita dubbia a una morte certa, i secondi. Contro che cosa: la violazione reiterata della legalità internazionale, i primi; l’applicazione di una pur approssimativa legalità nazionale, i secondi. Il giudizio: sono considerati estremisti e fondamentalisti, i primi; sono considerati difensori della vita, i secondi. Le reazioni: una campagna di stampa durissima nei confronti dei primi; la mera registrazione della notizia nei confronti dei secondi.

Si battono contro una morte certa, già avvenuta e di massa, i primi; si battono contro una morte opinabile, forse a venire, forse già avvenuta, i secondi. Sono solo una piccola parte della pubblica opinione che dicono di rappresentare, i primi; sono solo una piccola parte della pubblica opinione che dicono di rappresentare, i secondi. Chiamano assassini coloro contro cui si battono (uno stato potente e in questo momento aggressivo), i primi; chiamano assassini coloro contro cui si battono (un padre, un giudice, coloro che li sostengono), i secondi. C’è chi si è scusato pubblicamente per le azioni e le parole dei propri correligionari, tra i primi; non c’è chi abbia fatto altrettanto, tra i secondi. Sono una minoranza rumorosa, i primi; sono una minoranza rumorosa, i secondi. Non rappresentano la propria pubblica opinione, i primi; non rappresentano la propria pubblica opinione, stando ad autorevoli sondaggi, nemmeno i secondi. Eppure credono di avere la verità in tasca, i primi; eppure credono di avere la verità in tasca, i secondi. Godono in genere di pessima stampa, i primi; godono in genere di larga e ottima stampa, i secondi. Sono quindi condannati dalla pubblica opinione, i primi; non sono quindi condannati dalla pubblica opinione, i secondi. Si dice che strumentalizzano la preghiera in pubblico, i primi; non si dice che strumentalizzano la preghiera in pubblico, i secondi. Per cui ci si scandalizza e si vuole impedire che la ripetano, i primi; per cui non ci si scandalizza e non si vuole impedire che la ripetano, i secondi. Dimenticavo: sono musulmani, i primi; sono cattolici, i secondi.

Per quel che vale, non condivido metodo, toni e messaggio tanto dei primi quanto dei secondi, anche se posso comprendere alcune ragioni di entrambi. Non mi schiero quindi né con gli uni né con gli altri.

Come nei giochi della Settimana Enigmistica: trovate le somiglianze e le differenze tra le due figure. E poi datevene la spiegazione che preferite.

Stefano Allievi

Due pesi e due misure, in “Il Manifesto”, 7 febbraio 2009, p. 3

Barack Hussein Obama. Le lacrime di gioia dell’Islam

Non è l’Ich bin ein Berliner! kennedyano, ma nelle sue conseguenze politiche potrebbe assomigliarci. Dall’Europa infatti non ce ne accorgiamo, ma per un mondo arabo e un mondo islamico stanchi, disillusi ed esasperati da una lunga storia di umiliazioni e sconfitte culminata in questi giorni a Gaza, l’intervista che il presidente Obama ha rilasciato ad al-Arabiya è più che una boccata d’ossigeno: è il segnale di cambiamento e di svolta politica più ampio che ci si potesse aspettare dagli Stati Uniti d’America.

Le parole prefigurano una svolta quasi a centottanta gradi: le azioni, lo vedremo. Ma già il fatto che Obama chieda di essere giudicato “non dalle mie parole ma dalle mie azioni, e dalle azioni della mia amministrazione” è l’indicazione che un piano d’azione c’è già, e probabilmente sarà illustrato in dettaglio nel già attesissimo discorso da una capitale islamica, preannunciato entro i primi cento giorni di mandato.

Le linee guida le conosciamo: fine dell’unilateralismo arrogante (e, per quel che riguarda il mondo islamico, ostentatamente pro-israeliano), chiusura di Guantanamo, ritiro dall’Iraq, impegno per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, persino un diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran. Certo, è stato ribadito che Israele resta un alleato di riferimento: ma, anche qui, Obama ha parlato di “forte alleato”, non del più stretto alleato, o del baluardo dell’Occidente in Medio Oriente, come una retorica di anni ci aveva abituato. E forse l’annullamento del viaggio del ministro israeliano Barak negli Stati Uniti ha più a che fare con una riflessione e un bisogno di prepararsi su questo punto, che non con il soldato ucciso ieri l’altro da Hamas.

La svolta culturale non potrebbe essere più netta. Intanto, sul piano simbolico: per il fatto di aver scelto un network televisivo arabo per la sua prima intervista internazionale, il cui impatto si sapeva sarebbe stato globale. Ma anche sul piano lessicale. Che “il linguaggio che dobbiamo usare è il linguaggio del rispetto” non è qualcosa che arabi e musulmani siano abituati a sentirsi dire, dagli Stati Uniti. Obama stesso si è definito così, nel suo rapporto con arabi e musulmani: “listening, respectful”. Parola riecheggiata insistentemente: “Siamo pronti a iniziare una nuova partnership, basata sul mutuo rispetto e sul mutuo interesse”. “Start by listening instead of start by dictate” è una frase più forte e politicamente più impegnativa, per l’orecchio arabo quasi inverosimile, della sua traduzione italiana.

C’entra certamente la sua storia personale e familiare, che nell’intervista Obama ha voluto rievocare e mostra di usare sapientemente anche come mezzo per suscitare empatia. Ma il centro del messaggio riguarda anche chi l’ha eletto, basato com’è su un duplice impegno: dire ai musulmani che “l’America non è il vostro nemico. Qualche volta facciamo degli errori, non siamo così perfetti…” Ma anche dire agli americani che il mondo islamico è fatto soprattutto di gente normale, che “vuole vivere la sua vita e che i propri figli abbiano una vita migliore”, né più né meno degli americani stessi: lontano anni luce dalla retorica dell’asse del male.

Gli arabi come l’hanno vissuta? C’è chi ha pianto (come per un velo che finalmente cade più che di gioia vera e propria), chi ha espresso entusiasmo, chi cauta apertura, chi – moltissimi – attendismo. Ma c’è anche chi mostra disincanto o accusa apertamente di doppiogiochismo il presidente americano. Non è un caso che persino sulla pur ufficialissima e moderata emittente televisiva che ha ospitato l’intervista, un buon 15% delle reazioni sia stata negativa. In qualche caso riecheggiando il linguaggio intriso di razzismo, anch’esso tipico di una certa eredità araba, usato dal numero due di al Qaeda, al Zawahiri, in un messaggio pronunciato poco dopo l’elezione di Obama, che lo chiamava “servo negro” (“house slave”). Non sono pochi, del resto, coloro che lo rimproverano di non essere musulmano come il padre (anche se alla causa islamica ciò non avrebbe reso miglior servizio, dato che non sarebbe mai diventato presidente…).

E dall’Europa? La ferita palestinese sanguina anche nel corpo europeo della umma islamica. E quindi anche qui non basteranno le parole a rimarginarla. Ma la speranza è palpabile. Anche se i musulmani, soprattutto gli arabi, sono abituati a veder disattese le speranze di cambiamento radicale, sempre annunciate dai nuovi leader (come accaduto in questi anni in Algeria, Marocco, Giordania, Siria) ma mai mantenute. La speranza è tuttavia virtù islamica: e anche, come noto, l’ultima a morire.

Stefano Allievi

Allievi S. (2009), Barack Hussein Obama. Le lacrime di gioia dell’Islam, in “Il Manifesto”, 29 gennaio 2009, pp. 1 e 12

Il diavolo e l’acquavite

Volgere il male in bene, il diavolo in acqua santa (o magari in acqua della vita, ovvero in acquavite), è prerogativa del sacro. Possiamo dimostrarlo con un breve apologo enoico.

Per un qualche errore di dosaggio nei fermenti, accadeva che alcune bottiglie del vino bianco di una certa regione della Francia si stappassero all’improvviso: questo vino, chiamato “diable”, perché indiavolato, ‘saltatappo’, a causa di questo errore di fermentazione doveva essere buttato.

Ma un monaco benedettino (appartenente cioè a quell’ordine a cui dobbiamo, insieme ai cistercensi, se la viticoltura è sopravvissuta alla caduta dell’Impero Romano e alle invasioni barbariche, grazie alla tradizione vitivinicola che custodirono e tennero viva all’interno dei conventi) ebbe l’illuminazione di lasciare fermentare appositamente una seconda volta, ma in bottiglie ben spesse e con i tappi di sughero accuratamente legati, quel vino destinato usualmente a più tranquilli approdi.

Dobbiamo a quell’oscuro e per molti santo monaco, tale Dom Pérignon, il cui nome è ora giustamente giunto a fama imperitura, la geniale creazione di quello che è oggi il vino più famoso del mondo: lo Champagne, dal nome di quella regione di Francia le cui vigne, secondo alcuni paleontologi sicuramente francesi e sciovinisti, sarebbero le più antiche al mondo.

Grazie agli sforzi certamente illuminati (è banale dirlo: dallo spirito…) di quest’uomo di preghiera, il “diable”, pur conservando la sua energia e il suo gas, è vinto e sottoposto all’ordine del mondo e al dominio dell’uomo, per la sua gioia e la letizia dei suoi commensali.

A proteggerne il prezioso frutto aiuterà anche San Vincenzo, diacono spagnolo martirizzato nel 304, divenuto in Francia il patrono dei vignaioli (e dei bevitori, immaginiamo), pare, a causa del gioco di parole cui si presta il suo nome, che sarebbe piaciuto a un cabalista: Vincent, cioè vin-sans-eau.

Allievi S., (2008), Il diavolo e l’acquavite, in “Servitium”, n.177, pp.105-106

Del vino e dell’islam

Il vino, le bevande inebrianti, per estensione tutto ciò che altera la coscienza, e quindi anche le droghe, è come noto vietato da un precetto coranico.

Ma, come altrettanto noto ai frequentatori del mondo musulmano, così come dei musulmani immigrati, si tratta del meno rispettato dei divieti alimentari. Vive, più o meno, la stessa sorte del divieto dei rapporti prematrimoniali nel mondo cattolico. Ma si tratta di un peccato evidentemente più frequente e ripetuto…

Il problema, in realtà, è innanzitutto nelle origini, ovvero nel precetto. Che, incessantemente ripetuto dai guardiani dell’ortodossia, e perciò considerato una sunna, ovvero una tradizione inderogabile, è in realtà assai più ambiguo anche nella sua genesi, nella sua origine e nelle sue successive modificazioni.

Il vino viene presentato in alcune pagine del Corano come frutto buono e inebriante che diventa addirittura segno per chi sa ragionare e riconoscere il divino sulla terra. La sua prima menzione, nell’ordine della rivelazione (come noto, il testo del Corano è riportato non in ordine cronologico, ma con un criterio di lunghezza, dalla sura più lunga alla più breve – come le lettere di Paolo, per capirci; seguiamo qui la classificazione cronologica classica della vulgata di re Fu’ad, come riportata nella traduzione del Bausani, e ne riportiamo l’ordine): “Pure dai frutti dei palmeti e delle vigne ricavate bevanda inebriante e cibo eccellente. Ecco un segno per coloro che capiscono” (sura 16,67; abbiamo scelto qui la traduzione dell’Ucoii: probabilmente non la più filologica, ma certamente la più diffusa tra i musulmani in Italia, e quindi anche, dal nostro punto di vista, la più inattacabile). Le successive sure meccane che parlano di vino, lo descrivono come uno dei premi di cui godranno i giusti in paradiso: “Provvederemo loro i frutti e le carni che desidereranno. Si scambieranno un calice immune da vanità o peccato” (52,22-23; più esplicito Bausani: “E si passeranno a vicenda dei calici d’un vino che non farà nascer discorsi sciocchi, o eccitazion di peccato”). E ancora: “I giusti saranno nella delizia, [appoggiati] su alti divani guarderanno. Sui loro volti vedrai il riflesso della Delizia. Berranno un nettare puro, suggellato con suggello di muschio – che vi aspirino coloro che ne sono degni” (83,22-26; anche qui più esplicito Bausani, che al v. 25 traduce: “saranno abbeverati di vino squisito”). Fin qui, le sure meccane, rivelate quando Muhammad era la guida di una comunità minoritaria e anche mal vista, una religione tra tante in quella città politeista e plurale sul piano religioso che era La Mecca al tempo del Profeta.

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Vino e divino

Chi venne prima, la sete o la bevuta?
Rabelais
Laddove veniva originariamente prodotto (diciamo nell’area mediterranea largamente intesa) il vino assume sempre funzioni religiose. E’ probabile che già la fertili pianure di Sumer, all’origine della civiltà babilonese, conoscessero la vite ed il vino. Prova ne sia che il segno sumerico che indica la vita era in origine una foglia di vite. Il vino è presente nell’epopea di Gilgamesh come nella religione sacerdotale egizia. Nell’antica Roma due feste segnate già nel calendario arcaico col nome di Vinalia celebravano l’una, in aprile, l’inizio della consumazione del vino nuovo, e l’altra, in agosto, l’inizio della vendemmia. In Grecia poi ha un’importanza tutta speciale nei culti dionisiaci. E Bacco ne è figura proverbiale.

In ambiente pagano poi l’invenzione della viticoltura è attribuita ad una divinità: in Grecia a Dioniso, appunto, in Egitto a Osiris. Il sacro autore del Genesi invece l’attribuisce ad un uomo. Non è tutto: come attesta il cap. 9, in due soli versetti (il 20 e il 21) Noè beve il vino e si ubriaca. Dunque Noè è anche l’ubriacone primordiale, paradigmatico, universale e atemporale. Non bisogna inoltre dimenticare il momento in cui ciò avviene: subito dopo il diluvio. In maniera irriverente e maliziosa, per qualcuno questa è già una spiegazione: “diamine, si capisce, dopo tanta acqua non gli faceva male un po’ di vino!”. Secondo Mario Brelich, scrittore italo-ungherese che in una sorta di ‘teologia investigativa’ ha cercato di ricostruire tutto ciò che la Bibbia non dice a proposito della sconcertante ubriacatura di Noè, occorre considerare “che egli era l’uomo stesso in una fase del suo cammino: da ciò consegue logicamente e senza inciampi che, in un determinato momento dell’evoluzione, la scoperta del vino e la possibilità di ubriacarsi divennero un’esigenza irrevocabile dello spirito umano”. Ciò significa che era necessario che il vino fosse scoperto, ed era indispensabile che a questa esaltante scoperta seguisse imprescindibilmente la solenne ubriacatura del patriarca. In un altro passo Brelich ricorda che nulla è avvenuto per caso: “Noè veramente trovò la vite con una sicurezza infallibile, come la bestia malata trovò la benefica erba medicinale”. Vale forse la pena di aggiungere che da sempre l’ubriachezza di Noè è servita solo a giustificare la maledizione di Cam e di Canaan sua stirpe, come punizione della mancanza di rispetto del figlio nei confronti del padre ubriaco e vergognosamente scoperto. E’ poco, certamente non spiega abbastanza; ma ci dice almeno questo: che bisogna aver rispetto degli ubriachi, che non bisogna disprezzarli, perché forse sono, in maniera del tutto particolare, a diretto contatto con Dio.

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Cosa sarà l'islam europeo

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1. Clashes, encounters, feedbacks

A proposito di islam e occidente (identificando l’Europa con quest’ultimo) ritorna spesso, nel dibattito intellettuale, mediatico e politico, il richiamo alla tesi del clash of civilizations come chiave di lettura dominante. Poco ci interessa in questa sede ritornare sulla pertinenza di questa celebre definizione del politologo americano Samuel Huntington, molto citata e non altrettanto approfondita (come del resto il ponderoso volume dal medesimo titolo).

Quello che ci interessa qui è ragionare sulla sua fortuna. Non solo in occidente, ma anche in una parte importante del mondo islamico, dove un comune sentire di fatto ispirato a questa definizione si è dimostrato vincente e convincente, e manifesta i suoi effetti nel quotidiano e soprattutto nella sua rappresentazione. Quest’ultima, del resto, è decisiva.

Come ci insegna una delle poche definizioni che in sociologia abbia acquisito lo statuto di teorema – quello che viene chiamato teorema di Thomas, dal nome del sociologo americano, tra i fondatori della scuola di Chicago, che l’ha introdotta nel 1928 – se una cosa è percepita come reale, essa sarà reale nelle sue conseguenze; ovvero, non importa che una cosa sia vera: è sufficiente che sia creduta vera perché produca effetti reali. Così è anche del clash of civilizations e della sua popolarità, trasformatasi rapidamente in plausibilità, poi in descrizione con pretesa (talvolta esclusiva) di oggettività, e infine in quadro di riferimento interpretativo all’interno del quale collocare i fatti, e ancora prima – un aspetto molto importante e sottovalutato – selezionarli1.

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La moschea a Padova. Dieci punti per un dialogo (versione integrale)

Le polemiche sulla moschea di Padova stanno conoscendo un crescendo significativo. Diventa utile, a questo punto, cominciare a chiarire i punti fondamentali in gioco. Ci sentiamo di proporne alcuni, sulla base di una esperienza quasi ventennale nello studio delle comunità islamiche europee, della visita di centinaia e centinaia di luoghi di culto musulmani, in Italia, in altri paesi europei, e nei paesi d’origine dell’islam, e anche dello studio di molte situazioni di conflitto su questo tema.

1. La discussione.

Ben venga, finalmente, un confronto pubblico, anche duro, sulla questione. La discussone, inclusa la polemica, è un requisito fondamentale e il sale della democrazia. Sul tema dell’islam poi le paure sono molte, e le informazioni poche: una discussione franca e aperta può contribuire a far diminuire le prime e a diffondere le seconde. E in ogni caso il confronto con le diverse posizioni è doveroso, e va favorito, fornendogli anche le opportune occasioni. Quello che è meno utile è che la discussione demonizzi l’avversario, si basi su informazioni non vere, o non tenga in conto i diritti degli uni o degli altri. Ma la discussione, di per sé, ha i suoi metodi, le sue logiche, e i suoi meriti: bisogna darle fiducia, e avere fiducia nei suoi esiti. Sarà questo un primo risultato positivo. Che si discuta, quindi, faccia a faccia, confrontandosi, tra posizioni diverse, e non solo ciascuno con i suoi, dai banchetti o dai giornali.
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Islam ed Europa

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Allievi S. (2008), Islam ed Europa, in Occioni R. e Visentini C. (a cura di), Incontrare l’Islam, Padova, Liceo Ginnasio Tito Livio, pp. 99-104 A R e R/I
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Adulto virtuale? Provocazioni dall’oggi

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Il termine virtuoso

Virtuoso nel linguaggio comune, ha un richiamo a delle qualità morali possibilmente solide, non artificiose e neanche solamente potenziali. Una persona si aspetterebbe che le virtù fossero solide, fondate, con delle radici. Temo che oggi la virtù soffra degli stessi problemi della virtualità. Hanno qualcosa in comune. Spesso le virtù sono solo potenziali, anche magari quando vorremmo fondarci su di esse, o fondare qualche cosa su di esse.

Il problema è che spesso anche le virtù sono artificiose. Siamo in un periodo in cui le virtù sono spesso dichiarate (ma non è solo storia di oggi), vengono vantate le adesioni formali a un quadro di virtù. Penso per esempio a cosa succede ad alcuni reali o presunti ‘valori cattolici’ oggi nello spazio pubblico: al diffondersi da parte di molti politici di un clericalismo senza fede, vantando magari una vicinanza dichiarata ai valori promossi dalla Chiesa (o meglio ad alcuni di essi, ben scelti e mirati: di solito non quelli che prevedono un costo personale maggiore…), in maniera strumentale – vivendo poi vite personali lontane non solo da quei valori, ma da quella stessa Chiesa che ne è portatrice. Continua a leggere