Vino e divino

Chi venne prima, la sete o la bevuta?
Rabelais
Laddove veniva originariamente prodotto (diciamo nell’area mediterranea largamente intesa) il vino assume sempre funzioni religiose. E’ probabile che già la fertili pianure di Sumer, all’origine della civiltà babilonese, conoscessero la vite ed il vino. Prova ne sia che il segno sumerico che indica la vita era in origine una foglia di vite. Il vino è presente nell’epopea di Gilgamesh come nella religione sacerdotale egizia. Nell’antica Roma due feste segnate già nel calendario arcaico col nome di Vinalia celebravano l’una, in aprile, l’inizio della consumazione del vino nuovo, e l’altra, in agosto, l’inizio della vendemmia. In Grecia poi ha un’importanza tutta speciale nei culti dionisiaci. E Bacco ne è figura proverbiale.

In ambiente pagano poi l’invenzione della viticoltura è attribuita ad una divinità: in Grecia a Dioniso, appunto, in Egitto a Osiris. Il sacro autore del Genesi invece l’attribuisce ad un uomo. Non è tutto: come attesta il cap. 9, in due soli versetti (il 20 e il 21) Noè beve il vino e si ubriaca. Dunque Noè è anche l’ubriacone primordiale, paradigmatico, universale e atemporale. Non bisogna inoltre dimenticare il momento in cui ciò avviene: subito dopo il diluvio. In maniera irriverente e maliziosa, per qualcuno questa è già una spiegazione: “diamine, si capisce, dopo tanta acqua non gli faceva male un po’ di vino!”. Secondo Mario Brelich, scrittore italo-ungherese che in una sorta di ‘teologia investigativa’ ha cercato di ricostruire tutto ciò che la Bibbia non dice a proposito della sconcertante ubriacatura di Noè, occorre considerare “che egli era l’uomo stesso in una fase del suo cammino: da ciò consegue logicamente e senza inciampi che, in un determinato momento dell’evoluzione, la scoperta del vino e la possibilità di ubriacarsi divennero un’esigenza irrevocabile dello spirito umano”. Ciò significa che era necessario che il vino fosse scoperto, ed era indispensabile che a questa esaltante scoperta seguisse imprescindibilmente la solenne ubriacatura del patriarca. In un altro passo Brelich ricorda che nulla è avvenuto per caso: “Noè veramente trovò la vite con una sicurezza infallibile, come la bestia malata trovò la benefica erba medicinale”. Vale forse la pena di aggiungere che da sempre l’ubriachezza di Noè è servita solo a giustificare la maledizione di Cam e di Canaan sua stirpe, come punizione della mancanza di rispetto del figlio nei confronti del padre ubriaco e vergognosamente scoperto. E’ poco, certamente non spiega abbastanza; ma ci dice almeno questo: che bisogna aver rispetto degli ubriachi, che non bisogna disprezzarli, perché forse sono, in maniera del tutto particolare, a diretto contatto con Dio.

Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, il vino ha come noto un’importanza straordinaria. Anche una banale notazione quantitativa può chiarire l’importanza dell’argomento: sono circa 250 i passi, che ho trovato, in cui la Bibbia parla per un verso o per l’altro di vino, vite, vigna. E certamente altri mi sono sfuggiti. Dunque l’argomento è, a tutti gli effetti, ‘biblico’. Anche se in questa sede non approfondirò la questione nei suoi fondamenti ebraico-cristiani, che ho trattato altrove. Mi limiterò a constatare, con appena un filo di ironia, che fior di cardinali rinascimentali hanno proposto, sostenuto e, potremmo dire, incarnato, giustificazioni de facto della civiltà del bere. Ed altri, contemporanei, avrebbe forse fatto bene a farlo.

Ma che cosa rappresenta veramente il vino, per le religioni? Un problema, fin dall’orgine – e un problema comprenderlo fino in fondo. Fa riflettere che la Mishnà ebraica affermi senza esitazione che l’albero della scienza del Bene e del Male di cui parla il Genesi sia una vite (Sinedrio, 70). Ci dice qualcosa sull’ambivalenza che esso assume nelle principali religioni: dalla condanna all’approvazione e all’invito, dall’estasi sublime alla tentazione diabolica. Ambivalenza di cui la Bibbia, come il Corano, ma anche i Veda a proposito del soma, e altre scritture, sono portatori e testimoni.

Qui ci limiteremo a qualche notazione più letteraria, sul vino e l’ubriachezza, di cui abbiamo già visto il prototipo noachico.

Viviamo in una civiltà materiale ma ancora alla ricerca di Dio. Molti di noi umani, cercatori onesti del vero ma ancora ignari, sostituiscono Dio con il suo attributo di-vino: una sorta di comunione primitiva (il vino è fatto di acini d’uva, molti, che vanno a creare il miracolo di un unicum) che attesta il nostro desiderio/nostalgia della divinità (tutto attaccato…).

Questo dio primitivo attraverso il quale alcuni debbono forse necessariamente passare è il “dio delle bettole” di cui parla Hermann Hesse. Il dio universale di tutte le religioni: il dio naturale, non ancora incarnato.

Il Dio incarnato, Cristo, sa e riconosce tutto questo, e nel giorno della sua prima manifestazione, in occasione del suo primo miracolo, alle nozze di Cana, trasforma l’acqua in vino, benedicendolo e dando così ai convitati un supplemento di gioia. Supplemento propedeutico: un invito a seguirlo verso una gioia ulteriore, verso un vino “più buono”. E’ chiarissimo in questo senso il racconto di Giovanni (2,9-11): “E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva da dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l’acqua) chiamò lo sposo e gli disse: ‘Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono’. Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.”

Lo stesso vino, nell’istituzione dell’Eucaristia, diventa “sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28), e prelude al banchetto escatologico di cui ci hanno parlato i Profeti e a cui siamo tutti chiamati: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo con voi nel Regno del Padre mio” (Mt 26,29). Lo berremo nuovo, con lui.

Forse tutto ciò può farci riflettere sull’errore, che commettiamo spesso, di colpevolizzare il vino, e con esso gli ubriachi. L’incomprensione bigotta della diversità e della profondità umana, la cecità becera di fronte ad una manifestazione ‘non ortodossa’ del divino (almeno del divino ‘naturale’ di cui si è parlato), ci impedisce di vedere nell’ubriaco il “santo bevitore” di cui parla Joseph Roth. Eppure anche laddove il santo bevitore viene ricondotto puramente e semplicemente all’ubriaco peccatore, la Scrittura dovrebbe metterci sull’avviso: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 9,13).

Ce lo testimonia benissimo la storia di Aimé Duval, un gesuita, cantautore piuttosto noto ai tempi di Brassens, che aveva cominciato la sua esperienza sacerdotale come “missionario nei bar”, poi alcolizzato (e poi anche disintossicato), che racconta nella sua autobiografia come “quando si trattava di percepire la malattia del tempo (durezza, stupidaggine, orgoglio), di percepire la dolcezza del mondo futuro in cui ci ameremo, quando si trattava soprattutto di gridare che questo stacco mi fa male, l’alcol mi ha aiutato. Lo riconosco e non rimpiango niente”. Di fronte ai moralisti difende i suoi ubriachi: “Ma voi altri, pieni di sdegno, consiglieri sputasentenze e sicuri della vostra coscienza a posto, vi prego di tacere davanti a un alcolizzato. Appartenete a un mondo spirituale che non è il nostro. Avete le mani troppo grossolane e lo spirito troppo poco affinato”. E ancora: “Contrariamente alle apparenze, l’alcolizzato è un essere perfettamente morale. Se diventa malvagio per lui e per gli altri, è per rabbia. Se diventa scuro, è per tristezza. Rabbia e tristezza di non poter mettere d’accordo quel che sogna e quel che vede. La natura della malattia è proprio quella che dico. E’ mistica, lo so adesso. Nell’impossibilità di saperlo, i medici non potevano che fallire con me”. Anche Tolstoj, che qualche esperienza in materia ce l’aveva, come tutti i russi, aveva la stessa opinione, e a proposito di Pierre, il protagonista di Guerra e pace, dice: “Bere vino diventava sempre più per lui un bisogno fisico e anche morale”.

Non è un caso se Baudelaire, altro figlio maledetto della poesia e del vino, fosse incline ad attribuire a quest’ultimo anche un’anima, come nella poesia L’Ame du vin, prima di una serie dedicata al vino dei cenciaioli, a quello degli assassini, dei solitari, degli amanti.

Credo che si possa legittimamente dire che Dio ha dato modo di trovare il vino agli uomini perché gli uomini lo usassero per ri-trovare Dio. Ognuno al suo livello, a seconda della raffinatezza del suo palato e dell’educazione del suo gusto. Anche Dio, come il vino, richiede una progressione di conoscenza. In entrambi i casi abbondanti libagioni possono essere perniciose; la quantità ma in una forma dozzinale non supplisce e anzi sostituisce, al ribasso, la qualità. La progressiva conoscenza presuppone una progressiva rarefazione. La com-unione di cui il vino è simbolo eminente, non desidera una chiassosa disponibilità, ma un meditato, profondo, adorante silenzio: da questa serietà fiorisce la serenità, la gioia comunitaria e quella che si può definire una conoscenza vera.

Questo in teoria: ma la carne è debole e l’uomo peccatore…

Dunque Dio ha creato il vino – azzardo, da non teologo, dilettante di scienze religiose come di enologia (ovvero, da persona che se ne interessa per diletto, per piacere e per null’altra ragione) – perché l’uomo, attraverso di esso, potesse ritrovare Dio. Ma ha lasciato che fosse un uomo, Noè, a scoprirlo (invece di offrirlo in prima persona, come un miracolo) proprio per sottolineare che si tratta di un mezzo umano e, come tale, imperfetto, non sufficiente.

Il vino, è bene ricordarlo, non esiste in natura come tale. Dio ha creato solo la vite: il vino, come sottolinea la liturgia eucaristica, è “frutto del lavoro dell’uomo”; è, cioè, una alterazione – è “artefatto”, nel senso di fatto ad arte (e con la stessa dignità dell’arte), fatto apposta. Apposta per che cosa? Come l’arte, per allietare l’uomo, ma anche per inquietarlo, per porgli dei problemi. E, credo, per lodare il Creatore. Il vino come arte, allora, come un mezzo non solo utile o importante, ma anche bello: assolutamente non un fine, un idolo, come rischia di essere per certi enofili troppo entusiasti, o peggio ancora una schiavitù (ogni idolatria del resto lo è), come per quegli infelici che sono gli etilisti.

E’ lo stupefacente e semplicissimo insegnamento che viene dai monasteri. Pensiamo alla grande tradizione benedettina (da cui ha preso il nome anche un liquore famoso). I monaci hanno sempre prodotto vino, spesso dell’eccellente vino. Ma in realtà, di solito, se ne produce abbastanza, c’è una grande attenzione alla qualità e alla genuinità (del lavoro prima ancora che del prodotto), ma se ne beve in quantità relativamente moderata: il resto viene venduto all’esterno. E’ come se i monaci dicessero: voi che siete fuori, bevete e apprendete e avvicinatevi a Dio; noi, qui dentro, abbiamo trovato un altro modo, più diretto e più stabile (e senza fastidiosi effetti collaterali) di vicinanza al Signore e di convivialità tra di noi.

Pascal così sintetizzava nei suoi “Pensieri” (fr. 226): “Troppo vino o troppo poco: se non gliene date, non può trovare la verità; se gliene date troppo neppure”.

Il nesso tra vino e verità, già proverbiale all’epoca di Platone, viene successivamente spiegato alla luce dell’insegnamento cristiano. Attenzione però: come per la verità, è questione di non accontentarsi del primo assaggio. E’ qui che i palati più fini, i ricercatori più sinceri, si staccano dalla massa (ignorante e forse per questo incolpevole) per approfondire una conoscenza che intuiscono salvifica solo se, liberati dalla schiavitù della quantità, salgono la china della qualità fino a raggiungere, sulle vette, la rarefazione (o, in altre parole, il distillato). E’ in questa ricerca, gioiosa e faticosa insieme, che il ricercatore impara a distinguere il vero dal cattivo maestro, il vino che soddisfa e che eleva dal vino che ottunde.

Che questa ricerca però, attenzione, non sia fine a se stessa. Su questa strada infatti è incamminato anche il diavolo. Nel Faust di Goethe, Mefistofele in persona così apostrofa i bevitori della cantina di Auerbach: “Berrei volentieri un bicchiere in onore della libertà, se i vostri vini fossero un po’ migliori”: Eccola la trappola di Mefistofele: cercate, cercate i vini migliori, con i quali potrete finalmente brindare alla libertà. E in questa ricerca dimenticate tutto, perdetevi. E’ a quel punto che, senza essere riusciti a trovare l’oggetto della vostra ricerca (c’è sempre “un vino un po’ migliore”), troverete me ad aspettarvi.

Va bene allora l’enofilia. Va bene anche l’enosofia, che potremmo definire un’enofilia consapevole. Ma attenti all’enomania: nel linguaggio medico è sinonimo di delirium tremens.

Forse occorre tornare alla verità più semplice del vino: la sua ‘convivialità’, attestata dal profano e nobilitata dal sacro.

“Sigillo di smeraldo in una guarnizione d’oro

è la melodia dei canti unita alla dolcezza del vino” (Sir. 32,6)

E il Qohelet, forse il libro della Bibbia più letto e più amato anche dai non credenti, ripete, con semplici antiche parole:

“Per stare lieti si fanno banchetti

e il vino allieta la vita” (Qo 10,19)

Per non parlare delle cene che sono state teatro dei gesti più significativi del Cristo.

La grande tradizione che dal Symposion di Platone conduce al Kierkergaard di In vino veritas tocca qui il suo momento più alto, la sua giustificazione e la sua spiegazione. Victor Eremita, personaggio di In vino veritas, e maschera di quello spirito autenticamente religioso che era il suo autore, così dice agli amici prima del banchetto, fingendo di tenere in mano un calice: “Con questo bicchiere il cui profumo già seduce il mio animo, il cui fresco ardore già mi infiamma il sangue, vi porgo il saluto, cari compagni” (Kierkegaard usa il bel termine danese “brikkebrdre”, fratelli di bevute).

Seppure metaforicamente, sottoscrivo. E concludo idealmente con un brindisi e una benedizione. Un brindisi, perché la parola “brindare” deriva dallo spagnolo “brindar”, che a sua volta deriva dal tedesco “Ich bringe dir”, “io ti offro”. E’ più di un gesto d’amicizia. E’ quasi una preghiera. E una benedizione: l’augurio che veniva rivolto ai sacerdoti quando, dopo aver terminato di dir messa, rientravano in sacrestia. Una parola che, caduta in disuso in questa accezione, e ora preferibilmente impiegata proprio come brindisi, mantiene tuttavia il suo significato beneaugurale: “che ti giovi!”, o “buon pro ti faccia”. Una piccola parola latina che, l’avete capito, è: “Prosit”

Allievi S. (2008), Vino e divino, in “Servitium”, n.177, pp.77-83