Il problema del velo ce l’ha chi guarda

E se il problema culturale del velo islamico fosse più in chi lo guarda che in chi lo porta?

Cominciamo con il distinguere vari livelli.

a) La maggior parte delle donne musulmane, da noi, non porta alcun velo. Solo che non ce ne accorgiamo: poiché non lo portano, non sappiamo che sono musulmane…

b) Molte portano l’hijab, il più diffuso, quello che copre la testa ma non nasconde il viso: un foulard, per capirci. Molti – come la Santanché che vorrebbe vietarlo nelle scuole e su questo si è costruita il suo quarto d’ora di celebrità – pensano sia un simbolo di oppressione della donna. La pensano diversamente le suore, gli ebrei che portano la kippah e le loro donne ortodosse con i capelli rasati, i sikh col turbante, e le statue della Madonna: è un simbolo di sottomissione, sì, ma a Dio. La stragrande maggioranza delle donne, anche giovani e colte di seconda generazione, che lo porta, lo fa volontariamente e non si sente affatto inferiore alle altre: per loro è una scelta libera, e come tale va rispettata, anche se non la capiamo. Diverso per chi lo mette per imposizione del marito o del padre: in questi casi, deve intervenire lo stato? O non è meglio lasciar fare all’evoluzione culturale? Sui foulard neri delle nostre nonne, è intervenuto lo stato? E su quante altre scelte controvoglia e imposizioni all’interno delle famiglie dovremmo intervenire, allora? Eppure molti si sentono in diritto di protestare persino contro l’impiegata di un museo o la commessa di un negozio con l’hijab, o una ragazza che in piscina porta quello che si è ribattezzato il burqini. E’ normale?

c) C’è poi il velo che nasconde il viso: il niqab e il burqa. Pochi casi, ma ben pubblicizzati. Nessuno si sogna di difenderlo, ci mancherebbe. Ma forse è il caso di sgombrare il caso da alcune falsità. Paura. La attribuiamo ai bambini, ma chi è che ce l’ha, o la induce? Con questa scusa si è perfino fatta cacciare da un’asilo privato una maestra che portava l’hijab, e in diverse scuole mamme italiane si sono mobilitate contro mamme immigrate con il capo – non il volto – coperto: ci rendiamo conto? Sicurezza. In tutta Europa non si annovera un solo precedente di rapina in banca o di attentato effettuato con un burqa. Il problema allora è un altro: culturale. Non siamo abituati a questo genere di vestiario e non ci piace. Legittimo. E di questo sì, è giusto parlare.

Il ricorso alla legge aiuta, ma non troppo. La legge (152 del 1975, art. 5) pretende la riconoscibilità del viso: “E’ vietato prendere parte a pubbliche manifestazioni, svolgentisi in luogo pubblico o aperto al pubblico, facendo uso di caschi protettivi o con il volto in tutto o in parte coperto mediante l’impiego di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona”. Però la legge parla di pubbliche manifestazioni (erano gli anni degli scontri con la polizia nel corso di manifestazioni politiche), non del semplice camminare per strada (per il quale è sufficiente consentire il riconoscimento su richiesta delle forze dell’ordine). E diverse sentenze hanno riconosciuto eccezioni per motivi diversi: inclusi quelli religiosi. Tanto è vero che un sindaco della provincia di Como che si ostinava a multare una musulmana italiana è stato costretto dal giudice ad annullare le sanzioni.

Uno dei cardini su cui si basa la civile convivenza è il rispetto della legge: quale che sia. Sul viso completamente velato, sono personalmente contrario. Lo sono anche la maggior parte dei musulmani e delle musulmane. E ci dovesse essere una legge chiara, va rispettata. Ma in Europa c’è più di un dubbio. E infatti a chiunque cammini per Londra, Parigi, Amsterdam o Berlino capita di incontrare donne con il volto velato con molta maggiore frequenza che in qualunque città italiana. Sono paesi incivili? Più indietro, sul piano dei diritti, di quel faro della civiltà che è Montegrotto? Qui, davvero, siamo al grottesco: tutto, pur di avere una foto sui giornali…

Forse non è inutile farsi anche un’altra domanda: perché questi episodi accadono sempre e solo nel Nord Italia? Siamo forse più femministi? O non è che tutto questo ha a che fare con una campagna anti-islamica che prende qualunque spunto, incluso il sacrosanto diritto a riunirsi a pregare, per manifestarsi? Talvolta, di fronte a questi episodi, viene da pensare che sì, c’è davvero in corso una guerra culturale che riguarda l’islam. Ma non l’hanno dichiarata i musulmani.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 28 settembre 2009, p. 1-11

Troppi mandati: in regione non è democrazia (Galaneide)

Troppi mandati: in regione non è democrazia (Galaneide)

In un significativo articolo pubblicato domenica, il direttore di questo giornale ha analizzato ragioni e sragioni politiche della campagna per “salvare il soldato Galan”.

Già il riferimento cinematografico dà l’idea di una campagna assurda e inutile: nel caso del film di Spielberg si trattava di salvare il soldato Ryan, a cui erano già morti tre fratelli, e che lo stato maggiore aveva dato ordine di rispedire a casa. Nella campagna per salvare quel soldato coraggioso, testardo e un po’ ottuso, moriranno molti altri uomini, anche migliori di lui: al punto che alla fine del film Ryan si domanda se abbia davvero meritato di essere sopravvissuto.

La metafora è troppo intrigante per non applicarla anche al caso politico riferito al soldato Galan. Davvero merita di sopravvivere a tutto e a tutti, a dispetto e contro tutti? Basta continuare a ripetere come un mantra che ha governato bene per convincersene?

Ma, al di là di questo, la domanda che qui ci facciamo precede il giudizio politico e di merito. E’ legata alle forme e ai metodi della democrazia. Nella convinzione che spesso la forma è il contenuto. E se il metodo è difettoso anche il risultato lo sarà.

La domanda vera che dobbiamo porci è infatti: ma ha senso, è giusto, è coerente con il principio democratico, che qualcuno resti incistato al potere, avvitato sulla medesima poltrona per quattro mandati? Vale per Galan come per Dürnwalder, ricordava giustamente Monestier. Ci aggiungeremmo Formigoni, di cui si dice con assoluta impudenza che debba essere “presidente a vita”, come se la Lombardia fosse roba sua.

Ricordiamo che la stessa critica, a giusto titolo, il Pdl la faceva, nella recente campagna elettorale, a Zanonato: ed era in effetti il punto più debole del sindaco. Che, peraltro, almeno i mandati non li ha fatti consecutivamente.

Ricordiamo al Pdl che unanimemente ricandida Galan che la stessa critica, a giusto titolo, il Pdl la faceva, nella recente campagna elettorale, a Zanonato: ed era in effetti il punto più debole del sindaco. Che, peraltro, almeno i mandati non li ha fatti consecutivamente.

Il problema, lo ricordiamo, è di principio e di metodo. E proprio per questo è sembrato inquietante l’unanimismo con cui i dirigenti del Popolo della Libertà riuniti a Cortina si sono stretti intorno a Galan per reincoronarlo patriarca, più che governatore, del Veneto. Dà l’idea di un distacco siderale tra un’élite politica che si autoriproduce e i principi a cui dovrebbe ispirarsi.

La democrazia è un dettaglio? E il principio di alternanza, che ne è alla base, un ammennicolo? La questione della lunghezza della permanenza al potere e del numero dei mandati è all’origine stessa della democrazia: perché ci si accorse ben presto che un potere conquistato democraticamente poteva trasformarsi nel suo opposto, in una forma di paternalismo totalitario o peggio, se lasciato troppo tempo nelle stesse mani. Ecco perché tutte le democrazie mature hanno adottato vincoli inderogabili, che per le cariche più importanti sono normalmente di due mandati.

La decisione di chi mandare al potere la prende il popolo sovrano attraverso le elezioni. Ma, anche se vuole legittimamente rimandarci le stesse forze politiche (e quindi l’alternanza non si produce fra schieramenti diversi), il vincolo dei due mandati costringe a un rinnovamento almeno della classe dirigente. Uno strumento indispensabile affinché non si creino centri di potere autoreferenti e autocentrati, composti da amici degli amici disposti in cerchi concentrici intorno al potente di turno, inevitabilmente proni e disincentivati al dissenso. E’ ciò che consente di mantenere un principio di freschezza e di possibilità di ringiovanimento alla democrazia, destinata altrimenti all’immobilismo e alla senescenza.

Vero, non c’è un vincolo a farlo. Per qualche incomprensibile motivo il vincolo in Italia esiste ad altri livelli (dai sindaci ai presidenti della repubblica) ma non per i governatori, che non hanno ovviamente interesse ad introdurlo in proprio. Ma nondimeno si tratta di un principio fondamentale di coerenza con il principio democratico stesso. E, dopo tutto, è curioso che la difesa inerziale della posizione opposta venga da uno schieramento ideologicamente contrario al posto fisso e, ultimamente, assai critico, almeno a parole, con le élite…

Poi, naturalmente, i princìpi sono una cosa e la pratica un’altra. E anche su questo, come sempre, si deciderà una sera a cena, ad Arcore, alla faccia di quell’altro principio che è il federalismo. Ma questo fa parte delle storture della democrazia e della partitocrazia, non dei suoi princìpi. I mezzi, anche in questo caso, produrranno il fine: che non è il governo del popolo, ma la spartizione del potere.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 24 settembre 2009, p. 1-9

Una sana competizione dentro il Pd ma senza perdere le radici territoriali

Una sana competizione dentro il Pd ma senza perdere le radici territoriali

La concorrenza fa bene: anche ai partiti. E’ quello che sta avvenendo nel PD: finalmente si discute, ci si divide, si litiga. Ma a partire da presupposti trasparenti, e non attraverso complotti di corridoio. L’esatto contrario di quanto avvenuto fino ad ora, che tanto è costato alla credibilità del partito.

A livello nazionale, i tre candidati giocano una partita aperta. Pierluigi Bersani è il leader del ‘partito degli amministratori’, la parte più moderna di un mondo antico, di cui la benedizione dalemiana è l’aspetto più ingombrante e caratterizzante. Dario Franceschini rivendica invece il ‘progetto nuovo’, allargato alla società civile e più caratterizzato contro le vecchie componenti. Ignazio Marino, l’outsider, gioca più una partita di principi e d’opinione. I bookmakers interni danno vincente Bersani nell’apparato e quindi al congresso, Franceschini tra i simpatizzanti e quindi alle primarie, mentre Marino rappresenterebbe una candidatura d’élite, sostenuta soprattutto da giovani, intellettuali e nuovi iscritti.

E in Veneto? Il rischio è che, appiattendosi sulle mozioni nazionali, pur decisive nell’articolare la futura geografia interna del PD, i candidati perdano in specificità territoriale, e non riescano a rendere visibile quel partito radicalmente ‘nordista’ e federalista, sanamente critico rispetto al PD romanocentrico, che la stragrande maggioranza di iscritti e simpatizzanti vorrebbe: senza più candidati paracadutati dall’alto e strategie decise a Roma, con gli splendidi risultati visti per esempio alle europee (nemmeno un veneto eletto a Strasburgo).

Il senso del congresso, e più ancora delle primarie, tanto più per un partito al suo primo vero appuntamento di democrazia interna, è di parlare di contenuti e selezionare i migliori. I contenuti stanno emergendo con l’avanzare del dibattito. Quanto alla selezione dei migliori, essa potrà avvenire solo se i candidati non saranno ingabbiati nelle mozioni nazionali, di cui si ergano a rappresentanti. Se, cioè, non ci si limiterà a una replica in sedicesimo degli equilibri nazionali, con candidati che rappresentano le mozioni, e votati solo perché indicati dalle rispettive componenti, a prescindere dalle loro qualità e capacità.

Se i congressi sono la prima tappa, la seconda, per produrre uno svecchiamento e un rinnovamento reale, è che si avviino primarie a tappeto: per selezionare i gruppi dirigenti e ancor più, dall’anno prossimo, per stabilire le liste dei candidabili, dal livello regionale in su. Se gli apparati si mostrano incapaci di superare gli steccati del passato, sarà decisiva la partecipazione e la spinta dei simpatizzanti.

Per un partito che porta l’aggettivo democratico nella sua stessa ragione sociale, questo processo è indispensabile. I partiti schiacciati sul leader, i cui congressi sono delle mere passerelle di gruppi dirigenti, si possono consolare con il potere e le prebende, premiati come sono, attualmente, da un consenso diffuso. Il PD no: il consenso lo deve riconquistare. E, in Veneto, partendo da una situazione particolarmente svantaggiata e sfavorevole, anche per sua responsabilità. Partire dal territorio e da un meccanismo coinvolgente di selezione della sua classe dirigente è la sua sola possibilità di farcela.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 18 settembre 2009, p. 17

Oltre la religione (Sanaa, Hina e le altre)

Un’altra ragazza uccisa. Un’altra storia di paternalismo e tradizionalismo opprimente finita in tragedia. Un abisso culturale che sfocia nel crimine, nell’efferatezza. E, puntuali, i parassiti della strumentalizzazione.

Cominciamo dai fatti. Sanaa, 18 anni, è stata uccisa dal padre, un marocchino di 45 anni, che non approvava la sua relazione con un italiano di tredici anni più vecchio. Inconcepibile. Inaccettabile. Disumano. Ma, invece di fare i finti ingenui, chiediamocelo: così raro? Così strano? Così assente dalle cronache giornalistiche, anche a prescindere dall’immigrazione? Purtroppo no. Ma allora questo dovrebbe indurci a una seconda, onesta domanda: cosa c’entra la religione? Cosa c’entra l’islam? Siamo davvero sicuri che sia questa la variabile esplicativa principale?

Come per ogni religione, anche per l’islam l’assassinio di una figlia da parte di un padre è un atto aberrante, deviante, inaccettabile, immorale, indifendibile. Qualsiasi musulmano, qualsiasi imam, potrà confermarlo. Ma inaccettabile e indifendibile non significa purtroppo incomprensibile. Solo che la variabile interpretativa principale, per capire cosa è successo, non è la religione. Certo, c’entra la cultura. Ma quale cultura? Se si trattasse di un fatto religioso, dovremmo aspettarci che tutti i musulmani si comportino allo stesso modo (o magari lo desiderino, ma ne siano impediti controvoglia dalle nostre leggi, come immagina qualcuno). Se si trattasse di un fatto etnico dovremmo immaginarci tutti i padri marocchini come potenziali assassini delle proprie figlie. Ma allora perché non succede? E gli altri fattori? Classe sociale, livello di istruzione, provenienza da ambiente rurale o urbano, siamo davvero convinti che non contino niente? E i rapporti di genere, molto al di là della religione? E, per finire, la psicologia individuale?

La ‘religionizzazione’ della nostra interpretazione di questi fatti non è casuale. E’ figlia dei tempi, di diffuse campagne politiche e giornalistiche, di semplificazione pregiudiziale. E’ una costruzione sociale, non un dato. Non tiravamo in ballo la religione cattolica, ai tempi dei delitti d’onore e del ‘divorzio all’italiana’; né lo facciamo quando un padre padrone si sente in diritto di sterminare la propria famiglia prima di suicidarsi per un proprio fallimento individuale. E non tiriamo in ballo l’ortodossia quando cose simili accadono, ad esempio, nelle comunità immigrate dall’est. Del resto in Gran Bretagna, dove problemi analoghi li hanno anche tra gli hindu e i sikh, parlano volentieri di culture ‘asiatiche’: forse altrettanto a torto.

La religione tuttavia può servire come alibi, e come complicità. Qui le comunità islamiche e i loro responsabili possono avere grandi responsabilità: in positivo (educative, di mediazione costruttiva tra genitori e figli, come spesso già succede) o in negativo (una sorta di omertosa condiscendenza, un silente consenso nei confronti delle posizioni più retrive). Perché sia la prima posizione a prevalere, è fondamentale, certo, la maturità delle organizzazioni, ma anche il ruolo del contesto. In Gran Bretagna esistono commissioni governative sui temi dei matrimoni forzati e correlati, che coinvolgono i responsabili di comunità in programmi di prevenzione. In Olanda come in Francia esistono strutture di mediazione anche nei casi di crisi (ad esempio ragazzi che scappano di casa) in cui mediatori culturali provenienti dall’immigrazione svolgono un ruolo decisivo. In Italia, per lo più, prevale in questi casi la strumentalizzazione parassitaria: utilizzare la cosa per tuonare un po’ contro l’islam, e poi finita lì, fino al prossimo assassinio.

Per tutti, l’interesse è invece quello di contribuire a risolvere il problema: urlando di meno, e agendo di più. I musulmani devono imparare che lottare contro l’uso barbaro della religione per giustificare comportamenti barbari è un loro interesse e un loro dovere, perché si ritorce contro i musulmani tutti. Essi hanno tutto l’interesse a purificare la religione dalle scorie che i costumi e le tradizioni talvolta le appiccicano addosso, finendo per nasconderla. I non musulmani dovrebbero capire che la demonizzazione dell’islam in quanto tale non ha a che fare e non aiuta la causa della scomparsa di questi comportamenti. Per certi versi è anzi controproducente, spingendo i musulmani a chiudersi in un ghetto. E non aiuta quindi le Sanaa di oggi e di domani. Parlare di “guerra di religione” è inutile e controproducente, e probabilmente irresponsabile. Produce un po’ di spazio sui giornali e nulla più.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 17 settembre 2009, p. 1-5

Anziché spremere gli studenti, Padova li consideri una risorsa

Anziché spremere gli studenti, Padova li consideri una risorsa

Quello degli affitti in nero agli studenti è uno scandalo fittizio: tutti hanno sempre saputo tutto, da sempre. Semmai bisogna ringraziare la Guardia di Finanza per aver finalmente sollevato il caso. Una prova che non sempre il federalismo fa bene. Qualche volta solo un organismo centrale ha l’interesse e la forza per scoperchiare certi verminai.

La tempistica è più che opportuna: tra pochi giorni inaugureremo con orgoglio il 788° anno accademico dell’università di Padova. Ragione di più per porre qualche interrogativo di fondo sul rapporto tra l’università e la città.

Padova ha 210.000 abitanti (dati 2006) e 95.000 studenti iscritti (dati 2008): una proporzione che da sola dice tutto. Di questi solo 28.000 sono padovani (quindi con casa e famiglia d’appoggio). 78.000 sono complessivamente i veneti, di cui una parte significativa è pendolare, mentre altri si padovanizzano temporaneamente. E 17.000 vengono da altre regioni o paesi, per una parte importante trasferendosi in città. A questi occorre aggiungere 2.400 docenti, in buona parte anch’essi neo-cittadini.

L’indotto economico dell’università è gigantesco, e meriterebbe un approfondimento di suo. Ma anche limitandoci all’essenziale, studenti (e professori) abitano, mangiano, e vivono i loro minuti bisogni quotidiani in città, arricchendo i suoi abitanti e le sue attività. La arricchiscono culturalmente: senza l’università e gli studenti è difficile dire quale sarebbe la produzione culturale della città, e l’utenza della sua ancora troppo scarsa offerta. E la arricchiscono economicamente: argomento cui gran parte della città sembra decisamente più sensibile.

Questa città, tuttavia, da’ la sensazione di sopportarli a malapena i suoi studenti: buoni finché consumano, ma importuni se vogliono anche divertirsi e cercare spazi di aggregazione, peraltro assolutamente indispensabili per chi non ha una casa e una famiglia, e vecchi amici da incontrare. Si vorrebbero negozi pieni e piazze vuote, ché la gente e il rumore danno fastidio. Ma si sono offerte alternative? E’ sintomatico che gli studenti vengano visti sempre e solo come un problema: il problema piazze, il problema spritz… E, magari, che un banale alterco tra studenti, o qualche grida di troppo, diano luogo a titoli allarmati e vertici in Prefettura.

E’ chiaro, gli studenti sono un’utenza particolare: con bisogni specifici, e non sempre facilmente normalizzabile. Ma la città deve decidere. O considera l’università e gli studenti una risorsa, e offre anche qualcosa in cambio, in termini di spazi, di attività, di servizi, di animazione, di orari (non si può pretendere che gli studenti smettano di esistere alle otto di sera), o gli studenti avranno tutto il diritto di considerarla un mero fondale: non una città viva e vitale, ma dei muri, che non danno senso di appartenenza, e a cui dunque non si appartiene volentieri. A essere considerati corpo estraneo di solito si viene ripagati allo stesso modo: e se non si dà rispetto e considerazione, nemmeno li si riceve. Non crediamo che questo faccia bene alla città. Nemmeno ai suoi attori economici.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 11 settembre 2009, p. 1-12

Gli assalti dell’unto del Signore (il caso Boffo)

Gli assalti dell’unto del Signore (il caso Boffo)

“Affrontare la stampa è più difficile che lavare un lebbroso”, diceva Madre Teresa di Calcutta. E forse la citazione potrà servire di consolazione a Dino Boffo, direttore dimissionario di Avvenire, che, dopo aver a lungo fatto il capofila di quella cattolica, si è ritrovato contro quella notoriamente elegante e anglosassone incarnata da Vittorio Feltri. Uno che ha preso molto sul serio l’indicazione di Rivarol che “la stampa è l’artiglieria del pensiero”, e che la usa volentieri nella forma dell’attacco personale, insidioso e calunniatore.

Il reato di lesa maestà di Boffo è in sé modestissimo. Avere, dopo molto tempo, quando proprio non si poteva più stare zitti, dato voce a un dissenso peraltro morbido ed educato rispetto a posizioni e comportamenti del capo del governo esibizioniste e pacchiane e, dal punto di vista cattolico, moralmente discutibili. Ma tanto è bastato per innescare la reazione di un giornale che non è solo alleato e sostenitore del capo del governo, ma proprietà di famiglia. Impossibile immaginare che abbia agito senza il suo assenso.

La reazione, a suo modo grandiosa, come è nello stile del personaggio, è a tutto campo: l’attacco ad Avvenire, le querele contro Repubblica e L’Unità, i contratti Rai dei giornalisti scomodi che non si rinnovano, persino le intimidazioni ai portavoce dell’Unione Europea. Ma non è precisamente una novità: è in linea con l’editto bulgaro che a suo tempo spedì Enzo Biagi, praticamente la storia del giornalismo italiano, in accelerato pensionamento. La reazione di chi, abituato al consenso plaudente e adulatore dei dipendenti, non riesce proprio ad accettare, e forse persino a comprendere, come intorno alla sua persona vi possa essere dissenso. Di tutte le critiche, tuttavia, quella che veniva dal giornale cattolico era la più fastidiosa, per chi non ha perso occasione, con frequenti battute che tradiscono la convinzione, per paragonarsi a Cristo, avvicinare la sua onnipotenza a quella di Dio, e ritenersi “l’unto del Signore”. Che proprio Avvenire lo bacchettasse, che denunciasse la plateale distanza tra vizi privati e pubbliche virtù, che chiedesse un po’ di morigeratezza di stile, denunciando implicitamente uno stile che non la conosce, e a chi si vantava di avere eccellenti rapporti con la Chiesa cattolica – cosa verissima – dicesse in sostanza che, da troppi punti di vista, la contraddizione diventava insostenibile, questo non si poteva tollerare. Ed è partito il killeraggio degli amici.

Che ha funzionato. “La calunnnia è un venticello”, come canta l’aria di Basilio nel ‘Barbiere di Siviglia’ di Rossini. Che all’inizio è “insensibile, sottile”, ma “alla fin trabocca e scoppia, si propaga, si raddoppia, e produce un’esplosione come un colpo di cannone. E il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte ha da crepar”.

C’è da sperare, almeno, che la vicenda faccia scattare, agli occhi della pubblica opinione cattolica, qualche interrogativo etico: non solo sulle devastazioni di certo giornalismo, ma sul più generale problema del rapporto, finora troppo conciliante e interessato, con questo centro-destra e il suo ingombrante leader.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 4 settembre 2009, p. 1-5

Contraddizioni catto-padane

Contraddizioni catto-padane

La Lega, nel suo rapporto con il cattolicesimo, si trova a vivere un’ambivalenza profonda. Il contrasto, una sorta di volontà di rivincita, e persino di concorrenza sui valori, da un lato. E l’eredità del voto cattolico dall’altro.

I dirigenti leghisti hanno lanciato in questi giorni un affondo molto duro nei confronti della Chiesa. Ma si tratta più di una continuità che di una novità, nella storia della Lega. Sarebbe sufficiente sfogliare gli albori di ‘Lombardia autonomista’, organo dell’allora neonata Lega Lombarda, per ritrovare le stesse polemiche di oggi, e persino la proposta di far passare il Nord, in toto, al protestantesimo.

Il partito che forse più di tutti insiste retoricamente sull’identità cristiana del Paese, specie se c’è da prendersela con i musulmani, è anche quello che meno la frequenta e la conosce. Chi scrive ‘Padania cristiana’ a caratteri cubitali sui muri del Nordest di solito, dicono i parroci, in parrocchia non si è mai visto. E chi rivendica crocefissi in ogni aula, scolastica e municipale, spesso a casa sua non ce l’ha e non lo prega. Del resto la dirigenza storica leghista è lontana anni luce dalla pratica cattolica. Bossi non ha mai fatto mistero della sua felice ignoranza in materia, ministri ed ex-ministri come Calderoli e Castelli preferiscono, a quello cattolico, il matrimonio celtico (dopo un primo divorzio), che consente tra le altre cose più rapide separazioni, celtiche anch’esse. E, per dire, un dirigente come l’europarlamentare Borghezio, che non perde occasione per ergersi a paladino della cristianità italiana contro l’invasione islamica, l’unica croce con cui ha realmente dimestichezza, fin dal suo passato politico pre-leghista, è quella celtica. L’unico momento di visibilità cattolica all’interno della Lega è stato quando un’oscura e giovanissima militante delle Acli milanesi, avendo inviato al senatur un documento sul voto cattolico, si vide chiamata a fondare la consulta cattolica della Lega, e in pochissimo tempo fu catapultata al vertice della terza carica dello Stato: ci riferiamo alla presidente della Camera, Irene Pivetti, poi finita a percorrere una triste parabola da modesta presentatrice di programmi di intrattenimento sulle tv Mediaset, contenutisticamente assai poco cattolici. Per non parlare delle politiche che si pongono in conflitto diretto con il cuore del messaggio cattolico: e non si tratta solo di quelle sull’immigrazione. L’antisolidarismo militante, l’enfasi sulla separazione e sulla divisione dalle aree più povere (l’egoismo dei ricchi), il rifiuto di logiche minime di riconoscimento universale dei diritti, la critica alla difesa della costituzione propugnata dal cattolicesimo democratico, per non parlare della polemica diretta con i ‘vescovoni’ (che ha in Milano la sua punta di diamante, ieri contro il card. Martini e oggi contro il card. Tettamanzi), le finanze della Chiesa, le contraddizioni tra il predicare bene e un presunto razzolare male (che li accolgano in Vaticano, gli immigrati…), o il card. Ruini ‘ruina d’Italia’, secondo una nota battuta bossiana, sono la regola, nella Lega, non l’eccezione.

C’è, dunque, un’estraneità diffusa tra il sentire leghista e quello cattolico. Che, tuttavia, non ha impedito che, in particolare nelle bianche province della Lombardia e del Nordest, il voto cattolico, una volta scomparsa la Democrazia Cristiana, si sia riversato volentieri nel contenitore leghista, apparentemente senza soffrire alcuna particolare contraddizione. Anche perché il prodotto piace. Piace perché propone un cattolicesimo di pura etichetta, poco esigente sul piano morale e religioso, riducibile a pochi elementi (identitari, appunto), familiari ma non invasivi, nostalgici ma innocui. E piace anche per l’elemento di critica allo strapotere vaticano (parte anch’esso di ‘Roma ladrona’), in nome magari delle care vecchie parrocchie in cui si parlava dialetto, che anche in ambienti cattolici è significativamente diffuso.

Su questo, più che la Lega, è la Chiesa a trovarsi in difficoltà e in contraddizione. La difesa dell’identità, un pilastro della politica culturale leghista, non può non piacere, laddove l’identità è supposta essere cattolica. Sulla base di questo presupposto non poco clero, ma soprattutto moltissima base cattolica, si sono fatti felicemente sedurre dalla sirena identitaria leghista, talvolta flirtando con essa laddove sembrava rafforzare una identificazione con la chiesa che, secondo tutti gli indicatori (pratica religiosa, frequentazione dei sacramenti, aumento di matrimoni civili e divorzi), è in realtà in calo. Ma il problema è che questa identità cattolica non lo è affatto: e non solo per i richiami al folklore celtico e al dio Po. E questo dalle origini. Oggi quei nodi vengono nuovamente al pettine. Ma è probabile che resteranno, come per il passato, ambiguamente sospesi, e irrisolti. Perché il problema vero non è quanto è cattolica la Lega: ma quanto sono cambiati i cattolici, e quanto sono disposti a mettere in mora le loro convinzioni, in politica. La crescita della Lega ci dice che lo sono, e molto.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 27 agosto 2009, p. 1

Ma il dialetto non deve essere un ghetto

Ma il dialetto non deve essere un ghetto

Un dialetto è una lingua che ha perso sul piano storico. E una lingua è un dialetto che ha vinto. Basta questa osservazione generale a dirci che il dialetto di una regione ha tutta la dignità di una lingua. Anche di più, in un certo senso. La sua forza la mostra precisamente nel fatto che, nonostante non sia insegnato a scuola, e spesso non abbia una tradizione scritta diffusa, continua ad essere parlato. Laddove è parlato…

E qui sta il punto. Un dialetto è vivo se è vivo tra la gente che lo parla. Il Veneto è un esempio abbastanza significativo, in questo senso. Il dialetto è parlato un po’ ovunque, e comprensibile ai più, nelle campagne come nelle città. E non è solo lingua dei ceti popolari, residuale, destinata a scomparire perché le élite non la usano: è parlato anche dalle classi dirigenti, nel mondo dell’economia, della politica, persino dell’università. Quasi un vezzo, talvolta: segno comunque di vitalità.

La Lombardia – e molte altre regioni – è invece un significativo contro esempio. Perché una lingua comune, il lombardo appunto, nemmeno esiste. A Milano la stragrande maggioranza delle persone non capisce il milanese, per l’ottima ragione che non è nemmeno di Milano, ed è sempre più internazionalizzata e multilingue, come una metropoli non può non essere. Dal basso, via migrazioni. E dall’alto, grazie alla mobilità, percentualmente molto maggiore, delle élite, tanto più nei settori trainanti e trendy, economicamente floridi, del terziario. A Bergamo invece il dialetto esiste ed è forte, ma è un altro, del tutto incomprensibile a un milanese tanto quanto una lingua straniera. Che dialetto si dovrebbe insegnare, allora? E, di fondo, perché? Se è già forte e diffuso di suo, non ne ha bisogno: basterebbe qualche corso di supporto per chi lo richiede (e non obbligatorio). Se è quasi morto, perché resuscitarlo in via forzosa, operazione che del resto non funzionerebbe?

Il problema è che le proposte di questi giorni – occasionalmente reiterate come un mantra ideologico, più che veramente perseguite come obiettivo strategico – tradiscono un paradosso culturale più ampio, descrivendo una società che non esiste più. Omogenea culturalmente, mentre non lo è: viviamo in una società plurale, culturalmente, religiosamente, socialmente, per preferenze sessuali e modelli familiari – e questo a prescindere dalla presenza degli stranieri, che questa pluralità la rende semplicemente più visibile, ma ne è una conseguenza, più che una causa. Omogenea per obiettivi anche politico-culturali, mentre non lo è: c’è chi vuole conoscere meglio il proprio dialetto e le proprie tradizioni, e chi invece – probabilmente molti di più – per ottimi e comunque legittimi motivi vuole dimenticare il primo e fuggire le seconde, o semplicemente non sono mai state le sue, perché viene d’altrove, e sono queste invece che vorrebbe mantenere. E in questi casi non servono a nulla gli assessorati all’identità, un frutto anch’esso di speculazione politica, la cui attività principale sembra essere quella di sprecare un po’ di denaro pubblico per rinverdire sagre paesane, libri di ricette locali, antiche tradizioni storiche e rievocazioni folcloristiche che, il più delle volte, non sono più vecchie di un quindicennio…

Ecco, il problema del dibattito attuale sul dialetto, come quello correlato sulle bandiere e gli inni – risibile nei contenuti, ma che mostra precisamente che si tratta di tradizioni inventate, tutto fuorché ataviche – è che, lungi dal voler salvaguardare ciò che esiste e ha bisogno di tutela, intende invece inventare ciò che non c’è, e imporlo anche a coloro a cui non appartiene. Uno scopo di chiusura, non di apertura. Imperialista, non liberatorio. Totalitario, non democratico. Che chiude alle culture, anziché aprire alle medesime. Stessa logica – e tema assai più inquietante – delle preferenze regionali o locali per l’assegnazione di alloggi o la possibilità di lavorare o utilizzare i servizi sul territorio. Tutto ciò mostra che si tratta di una operazione tutta e solo politica. Ben riuscita, perché si legittima di argomenti alti. Ma, chiediamocelo, quanto utile?

I dialetti, come le lingue, dovrebbero servire ad aprirci la mente, a scoprire nuove culture e territori ideali: inclusa quella da cui proveniamo. Ed è per questo che è utile conoscerle e studiarle. Non per chiudersi in un ghetto. Per lo stesso motivo, per gli immigrati, è spesso utile la salvaguardia della lingua d’origine, la Lingua 1, come la chiamano i glottologi, anche come strumento per apprendere meglio la lingua del paese di residenza, la Lingua 2. Ma che lo scopo del dibattito odierno non sia questo lo dimostra il fatto che chi vorrebbe il dialetto obbligatorio è contro la lingua d’origine facoltativa. Un peccato, perché in generale i ragazzi non fanno difficoltà nel costruirsi mondi linguistici diversi e paralleli: il dialetto, per chi lo parla in famiglia senza studiarlo a scuola; una lingua straniera, per chi magari frequenta la scuola inglese, o per i figli chi di emigra; o ancora la lingua di entrambi i genitori per i figli di coppie miste. Ed ecco perché sarebbe utile e importante investire anche, e molto, nello studio delle lingue straniere, l’inglese su tutte, ma anche le altre, dallo spagnolo al cinese: sulla cui conoscenza il Veneto è di un’arretratezza spaventosa, e paga un prezzo misurabile ovunque, dall’economia ai banchi dell’università. Una carenza drammatica, di cui sarebbe utile dibattere e su cui sarebbe indispensabile investire. Ma di questo non si parla. Forse perché troppi ne portano la responsabilità. E perché elettoralmente non paga.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 13 agosto 2009, p. 1-30

Un’anomalia tutta italiana (l’ora di religione)

Un’anomalia tutta italiana (l’ora di religione)

La sentenza del Tar del Lazio che ha accolto il ricorso delle principali minoranze religiose italiane, tutte riconosciute da Intesa con lo stato (ebrei, valdesi, luterani, oltre a diverse associazioni laiche), pone un problema che va molto al di là del merito, già significativo di suo: il fatto che la frequenza all’ora di religione cattolica non concorra ad attribuire credito formativo per gli esami di maturità, e che di conseguenza gli insegnanti di religione cattolica non partecipino a pieno titolo agli scrutini degli studenti.

Questo pasticcio è frutto di un’anomalia tutta italiana: che l’insegnamento religioso sia confessionale, che la selezione degli insegnanti e la decisione sui contenuti sia ecclesiale, ma che gli insegnanti siano pagati dallo stato e di fatto parificati agli altri, che sono tuttavia selezionati dallo stato sulla base di contenuti da questo predisposti.

Altri paesi finanziano l’insegnamento religioso confessionale: ma non solo della confessione maggioritaria, che sia quella cattolica, quella luterana o altra. Altri ancora forniscono un insegnamento religioso diretto, unico o opzionale: ma, come per le altre materie, si fanno carico di deciderne i contenuti e di selezionarne i docenti. Da noi invece lo stato ha deciso di assumersi l’onere di un insegnamento confessionale, che tuttavia è facoltativo (non potendosi obbligare i cittadini di altra o nessuna confessione religiosa a frequentarlo, anche se nei fatti non sono a disposizione opzioni alternative), lasciando il controllo sugli insegnanti a un ente esterno (che può nominarli e revocarli, anche per motivi che nulla hanno a che fare con il contenuto e le modalità dell’insegnamento, ad esempio per motivi morali), e compiendo una evidente discriminazione nei confronti dei suoi cittadini non cattolici.

Da tempo anche in Italia si va manifestando una corrente di opinione che, tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nella società (una sempre minore percentuale di cattolici, un sempre maggiore pluralismo religioso, e una progressiva equiparazione dei diritti di tutti), propone non più l’ora di religione cattolica, ma l’ora delle religioni, con programmi costruiti anche in collaborazione con le confessioni religiose (a cominciare da quella cattolica), ma con curricula uguali per tutti, e la selezione degli insegnanti sulla base di concorsi attitudinali, come per qualsiasi altra materia. Questo consentirebbe di dare dignità vera a un insegnamento che ora è già nelle cose di serie B, favorendo una alfabetizzazione religiosa degli italiani ora a livelli drammaticamente bassi, e rispettando le convinzioni di tutti.

I punti di partenza su cui riflettere sono infatti due, uno di efficacia (l’ignoranza religiosa degli italiani) e l’altro di principio (la progressiva maggiore presenza di minoranze religiose e l’uguaglianza dei cittadini).

Il primo punto è testimoniato anche da periodiche inchieste interne: Famiglia Cristiana ha rilevato che solo il 7% degli italiani ha letto i quattro vangeli, il che pone un problema sull’utilità persino dell’insegnamento confessionale (dal punto di vista cattolico, se non si insegnano i vangeli, cosa si insegna?). Ma è senso comune constatare che l’ignoranza dei fondamentali biblici rende di fatto incomprensibile ai più, tra le altre cose, il significato di gran parte del nostro patrimonio artistico, dalle chiese alle pinacoteche, come della cultura popolare.

Il secondo punto è figlio dei tempi. Oggi sempre più italiani si dichiarano di diversa confessione religiosa (almeno 1 milione e 300 mila) o di nessuna (i praticanti cattolici sono tra un quarto e un terzo della popolazione), e gli immigrati ci hanno portato nuove confessioni religiose (non meno di 3 milioni di stranieri non cattolici). Il che significa che anche l’Italia è diventata un paese religiosamente plurale. Su questo, che è un cambiamento epocale, la riflessione intellettuale è in ritardo, anche perché polarizzata non tra laici e credenti, ma tra clericali e giacobini, sanfedisti e atei militanti. E quella politica mostra una costante propensione bipartisan del ceto politico a tenersi buona la Chiesa non per convinzione ma per interesse: ciò che fa sì che nel nostro Parlamento il tasso di clericalismo sia inversamente proporzionale alla fede – un elemento di scambio, non una coerente riflessione sui princìpi, giuridici e religiosi.

Non stupisce che, anche in questo campo, spetti alla magistratura un ruolo di supplenza, in coerenza con numerosi pronunciamenti della corte costituzionale, basati sull’uguaglianza e la pari dignità dei cittadini.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 13 agosto 2009, p. 1

Il potere e il denaro. Il rapporto tra ricchezza ed élites

Il potere e il denaro. Il rapporto tra ricchezza ed élites

IL POTERE E IL DENARO

Il rapporto tra ricchezza ed élites

Che “gli ultimi saranno i primi”, da citazione evangelica è divenuta locuzione proverbiale. Non sappiamo però quanto esprima una effettiva certezza, seppure escatologica, di chi la ripete, e quanto invece una speranza sempre più fievole e sempre meno convinta.

Riguarda il dopo, in ogni caso, il non ancora. Mentre nell’oggi, nell’ora, nella logica del mondo non è così. E dunque, poiché nonostante tutto viviamo nel mondo, anche se ci è stato insegnato a non essere del mondo, è difficile crederci. Chi sta bene, i bene-stanti appunto, chi sta sopra gli altri (ci inventiamo un provvisorio ‘soprastanti’) si gode i suoi privilegi apparentemente senza troppi scrupoli di coscienza. E i sottostanti, quando guardano ‘lassù’, vedono una facciata lucente seppure spesso vacua, fatta di esaudimento di tutti i desideri, e di uso e sperpero del denaro come mezzo per farlo. Tuttavia non è primariamente un richiamo morale quello che vorremmo fare. Se anche questo non guasta, ci sembra più urgente una riflessione fredda, agnostica, se possibile oggettiva.

L’associazione tra il potere del denaro, e ancora prima dell’oro o di ciò che nelle varie culture ha potuto farne le veci, e il potere tout court, appare intuitiva e originaria. E’ sempre stato così. Chi conta ha il potere di contare, di acquisire e di sprecare: il denaro così come gli uomini e le cose che con il denaro si può comprare. Ci sono quelli che contano; e quelli che, al massimo, possono essere solo contati e contabilizzati: degli accidenti statistici, quando va bene.

Non è una novità che chi è ricco abbia potere, e inversamente chi ha potere, per esempio politico, diventi ricco. Già Balzac diceva sarcasticamente: “Un uomo politico è un uomo che è entrato negli affari, o sta per entrarvi, o ne è uscito e vuole rientrarvi”. Le carriere della casta odierna sono lì a dimostrarlo, con dovizia di esempi.

La riflessione sul denaro è centrale soprattutto, e non può sorprendere, in economia. Dove però, abbandonati i classici, si è abbandonata anche una riflessione sui suoi fondamenti, e l’analisi è in definitiva strumentale, legata a grandezze di cui è arduo trovare la radice, l’origine: le risorse e i vincoli, il prezzo e il costo, il salario e il profitto, la produzione e il consumo, il valore e il plusvalore, e naturalmente su tutti il mercato – e in quello finanziario è ancora peggio: i titoli, l’interesse, il rendimento… Si tratta di un ‘mondo dato per scontato’, con una buona dose di artificialità e financo di fiction, le cui leggi sono date per certe ma la cui solidità è ancora meno scontata dei suoi fondamenti. E la crisi odierna ne è la prova più evidente.

Potremmo sintetizzare la voluta mancanza di riflessione sul ruolo del denaro con un noto motto di spirito: il variamente declinato pecunia non olet. Che, per la cronaca, anzi per la storia (ce la tramanda Svetonio), è la giustamente celebre risposta dell’imperatore Vespasiano al figlio Tito che gli rimproverava d’aver messo una tassa sui gabinetti. Ma se “l’argent n’a pas d’odeur”, chiosava Jaques Brel, “pas d’odeur vous monte a nez”: salta al naso lo stesso, il suo odore – a volerlo sentire.

Per una filosofia del denaro

Del denaro si può dire che il suo mistero principale è la sua stessa esistenza; questo ruolo vagamente misterioso del denaro simbolizza e ‘trasporta’, per così dire, la società stessa: “una terza istanza s’inserisce tra le due parti con la sostituzione delle transazioni in moneta al baratto: si tratta della società nel suo complesso che attribuisce al denaro un valore reale corrispondente”, come scrive Georg Simmel nella sua monumentale Filosofia del denaro, pubblicata nel 1900. Si tratta di un valore e di un ruolo che è anche marcatamente religioso: “Presso i Greci questo rapporto era originariamente sostenuto non dall’unità statale, ma dall’unità religiosa. La moneta ellenica era in origine di natura sacrale, emanazione anch’essa del ceto sacerdotale come tutti gli altri strumenti di misura universalmente validi di peso, di lunghezza e di tempo”. Quest’aura sacrale, del resto, è sostanzialmente rimasta al denaro anche oggi e, seppure per altri motivi, si spiega facilmente: il denaro è un niente in quanto a valore intrinseco (la carta su cui è stampato) che può tutto o comunque molto, e questo a prescindere da chi ce l’ha in mano – è un potere suo proprio, verrebbe da dire interiore, e verrebbe da dire anche originario se non fosse che si fonda su una convenzione che è anteriore alla sua stessa esistenza.

Simmel nota che, col passare del tempo, il denaro è sempre più slegato da un qualsiasi rapporto con un valore concreto, quale poteva essere l’oro. Il suo significato si è fatto immateriale: “Si potrebbe definire questo processo nei termini di una crescente spiritualizzazione del denaro; l’essenza dello spirito è infatti di dare alla molteplicità la forma dell’unità”.

Da mezzo il denaro diventa fine, e fine sintetico, ultimo; come sa e sperimenta chiunque lo possieda: il senso di sicurezza astratto, di potere astratto, perfino di piacere astratto, sebbene declinabile nel concreto, che dà. Non più la vertigine concreta, immortalata dalla piscina piena di banconote e monete in cui tuffarsi impersonata da Paperon de’ Paperoni, che appartiene ormai ad un’altra epoca e a un’altra fase del capitalismo. Oggi che il denaro è diventato virtuale, una grandezza letteralmente meta-fisica, si è fatto un passo ulteriore e qualitativamente decisivo, ma sempre nella medesima direzione già individuata da Simmel: “La velocità di circolazione abitua a spendere ed incassare, rende ogni singola quantità di denaro psicologicamente sempre più indifferente e priva di valore, mentre il denaro di per sé acquista sempre più importanza, dato che le transazioni monetarie toccano il singolo con molta più intensità ed estensione che non in una forma di vita meno movimentata”.

Simmel scriveva queste cose riflettendo sull’espansione dell’economia monetaria; espansione che, all’epoca, era essenzialmente quantitativa, dovuta all’aumento esponenziale della massa monetaria circolante, ma che pure di per sé produceva una modificazione qualitativa. Oggi queste parole assumono un valore fortemente potenziato alla luce del diffondersi del denaro elettronico, della moneta virtuale, dai bancomat alle carte di credito, ma passando anche per tutte quelle operazioni appena meno quotidiane come l’acquisto di azioni a termine, con denaro che non ho ma che prendo solo virtualmente in prestito: operazioni che costituiscono l’abc dell’attività bancaria e borsistica, ma che complessivamente costituiscono un edificio di dimensioni mostruose e nello stesso tempo puramente artificiale. L’invenzione di ingegnosi grovigli finanziari basati sul nulla che è all’origine della crisi attuale ha fatto il resto: titoli che garantiscono titoli che assicurano titoli che rimandano a titoli che sono una media di titoli che speculano su titoli del tutto privi di riferimento a grandezze reali, che hanno finito per essere chiamati, non a caso, ‘tossici’.

Avere come essere

Del resto, tornando al piccolo, è sufficiente vedere le modificazioni psicologiche che induce il fatto che lo stesso stipendio ci venga consegnato personalmente, concretamente, in mano, oppure venga versato direttamente in banca, e venga da noi speso mediante carta di credito e bancomat. Dietro questo fatto banale si nasconde una mutazione antropologica, che cambia il nostro rapporto con le cose oltre che con il denaro, e persino la nostra percezione e la nostra idea delle stesse. Una mutazione che, incidentalmente, produce una modificazione economica di non minore importanza: il fatto che la propensione al risparmio, nonostante l’aumentata ricchezza individuale e sociale complessiva, sia in costante diminuzione sia in Europa sia, in misura molto maggiore, negli Stati Uniti, ne è la prova.

Il denaro però, dice ancora Simmel, ha anche delle qualità di sublimazione, essendo divenuto “l’esempio più puro di strumento”. E come lo spirito, come le qualità estetiche, persino come le virtù, si accorge davvero del loro valore qualitativo, non solo di quello quantitativo solo chi ne possiede in quantità significativa, in maniera eminente. E’ in questa condizione che meglio se ne sperimenta la qualità di strumento ‘potente’ e spesso invincibile. “L’oro ha un potere proprio, incommensurabile”, ha scritto un testimone del secolo come Ernst Jünger; e, a causa di questo, sue proprie leggi.

L’antiquata e in definitiva falsa antinomia tra avere e essere, su cui hanno costruito le proprie fortune intellettuali in molti, ultimo Erich Fromm, e che Simmel non avrebbe mai accettato né condiviso, non ha più ragione …d’essere: perché l’essere dà un senso all’avere, e nello stesso tempo l’avere è una qualità e un’estensione dell’essere, e in certa misura persino una sua pre-condizione, da cui non ci si può nemmeno, per così dire, dimettere. Diceva Cesbron a questo proposito: “Credo sinceramente che non si possa naturalizzarsi poveri quando si è ricchi di nascita. Non è tanto del denaro che parlo ma di tutto ciò che rompe l’uguaglianza profonda degli uomini: ricco di relazioni, di cultura, di sicurezza”. E ancora: è “più facile anche essere santi, e riconosciuti per tali, se ricchi. Si può lasciare il denaro: da ricco che era, ma il resto…”. Anche rispetto al denaro, è più facile essere elegantemente indifferenti se non si è costretti a essere ‘differenti’. E in certe situazioni avere è la pre-condizione dell’essere, o almeno dell’essere decentemente. Almeno qui sulla terra. Della Gerusalemme celeste, che rientra nell’orizzonte delle nostre speranze ma è fuori dalla nostra portata, anche cognitivamente, non sappiamo quale sia la banca centrale né quale sia la moneta corrente.

Ecco perché è ancora di importanza decisiva, nella prospettiva dell’emancipazione umana, sostenere i diritti all’acquisizione e anche al consumo delle classi che hanno meno potere di farlo, degli esclusi. Senza fare dell’acquisizione e del consumo un nuovo feticismo, naturalmente. Questo lo fa già, e con successo, l’economia di mercato…

I lussi dei ricchi

Appena un anno prima del libro di Simmel faceva la sua comparsa sull’altra sponda dell’Atlantico un caustico pamphlet: La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen.

In esso si sostiene che la classe agiata svolge un “ufficio quasi sacerdotale”: “Tocca a questa classe stabilire in sintesi generale quale schema di vita la comunità deve accettare come conveniente e onorifico; ed è suo ufficio mostrare col precetto e l’esempio questo schema di salvezza sociale nella sua forma più alta, ideale”. Solo che la classe agiata della civiltà finanziaria (che per Veblen viene subito dopo la civiltà predatoria e ne è in certo modo una forma più raffinata) ha come legge fondamentale non quella della produzione, e nemmeno quella di svolgere un’attività comunque produttiva ma, contrariamente al mito corrente, quella dello sciupio vistoso, dell’improduttività esibita ed esibizionistica come stile di vita.

Veblen dimostra la sua tesi, che non ha perso di originalità e di forza dirompente, rileggendo in questa chiave ostentatoria spezzoni vari di storia sociale: la storia dei costumi femminili, dell’utilizzazione della servitù, come anche dei costumi ecclesiali, in quello che viene definito ‘consumo devoto’. “Fatta ogni riserva, appare pur sempre chiaro che direttamente o indirettamente i canoni della rispettabilità finanziaria influenzano materialmente le nozioni che noi abbiamo degli attributi divini, come pure le nostre nozioni di quelle che sono le circostanze e la maniera giuste e convenienti di comunicare col divino”: basti pensare alle innumerevoli immagini sacre dell’arte gotica e rinascimentale, con le loro ricche vesti e l’ambientazione nobiliare.

Veblen va anche oltre, introducendo un ironico ma sottile parallelo tra il significato dei costumi femminili e di quelli clericali. “L’abbigliamento delle donne va anche più lontano di quello degli uomini nel dimostrare l’astensione da ogni occupazione produttiva” (cappellini, busto, tacco alto, ecc.). Ma questa caratteristica l’hanno in maniera evidente anche le livree e, incidentalmente, i lunghi e scomodi abiti sacerdotali, palesemente e volutamente inadatti al lavoro profano. Questo ragionare solleva un interrogativo interessante, perché la Chiesa ha sempre vissuto in materia una certa ambivalenza. Da un lato il gusto della pompa, del fasto sacerdotale, ereditato da altre tradizioni religiose ma portato a vertici di perfezione, anche artistica, e perché no spirituale, inarrivabili (si pensi all’architettura, all’arte, alla musica sacra); dall’altro una ricerca di autenticità e di sobrietà, di semplicità e di povertà (si pensi al ruolo degli ordini mendicanti), forse più consone alla figura del fondatore, in ogni caso al suo esempio direttamente ispirate, che percorre come un fiume carsico tutta la storia della Chiesa, alternando momenti di dimenticanza completa ad altri di consapevolezza profetica forte. E questa ambivalenza sussiste ancora, per lo più inconsapevole, in ogni caso non risolta: nelle polemiche sulle pantofole e sugli ermellini papali, nelle frequentazioni salottiere di certi alti prelati, e magari in una difesa un po’ gretta e acritica dell’otto per mille, da un lato, e nel dovere-bisogno di costituire fondi per sostenere le famiglie più colpite dalla crisi, e nella vicinanza ai più deboli e nella condivisione del loro destino, nell’opzione preferenziale per i poveri, di molti altri testimoni della fede, dall’altro.

C’è un legame tra lusso e capitalismo?

Pochi anni dopo, nel 1913, con maggiore perspicuità storica e non minore verve, Werner Sombart affronta il medesimo nucleo tematico da una diversa angolazione. In un suo testo minore e dimenticato, in chiave antiweberiana (in sostanziale implicita polemica con l’immagine di sobrietà e per certi tratti di ascesi che il capitalismo assume nella più parafrasata delle opere sociologiche, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, pubblicata per la prima volta nel 1905) Sombart dimostra, o per lo meno mostra, quanto Lusso e capitalismo – questo il titolo del libro – siano inestricabilmente legati, e negli aspetti più ‘deleteri’ in maniera più visibile e chiara.

Sombart parte da considerazioni storiche sulla vita di corte e in particolare sulle sue regine, le cortigiane appunto, dames de moyenne vertu, cocottes, le varie Pompadour, che hanno giocato un ruolo decisivo nello sviluppo di consumi e costumi di ostentazione e di spreco. Una delle conseguenze dell’ascesa sociale e persino politica di queste dame, alla corte francese e altrove, e delle mode sociali conseguenti, sarebbe stata, per imitazione, e attraverso i consumi, una paradossale ascesa del ruolo delle donne in genere, ma più in generale una ricerca del lusso sempre più spasmodica che avrebbe portato a casi non rari di nobili e ricchi che, nel XVII secolo, spendevano un terzo e financo metà delle loro rendite in vestiti e carrozze: “nei secoli successivi al Medioevo, ha dominato un lusso grandioso che crebbe a dismisura verso la fine del XVIII secolo”.

Per Sombart il lusso diventa così un moltiplicatore del consumo e degli investimenti. Al di là di una diffusa retorica, egli individua un fondamentale e fondativo carattere irrazionale del capitalismo, e una sua sudditanza a logiche che con il calcolo razionale di costi e benefici hanno poco a che fare. Ma più ancora che un moltiplicatore, il lusso è all’origine, è la genesi stessa del capitalismo: Sombart sottolinea “l’influenza che la formazione di un forte consumo di lusso esercita sull’organizzazione della produzione industriale”, e arriva a dire che con esso “in numerosi casi (non in tutti!), [si] apre la porta al capitalismo”. L’economia del lusso di oggi, il suo ruolo culturale e il suo peso economico, sembrerebbero esserne la continuazione.

Conclusioni

La riflessione fin qui evocata ci dice qualcosa sul rapporto tra denaro e potere, e sul ruolo di coloro che li posseggono, di cui solitamente si parla assai poco. Per lo più nel dibattito sociale ci si limita da un lato alla rivendicazione di un diritto o di un merito sostanzialmente inesistente, avanzata dalla élites le rare volte in cui i loro privilegi e i loro costumi sono messi in questione; e dall’altro alla critica, motivata politicamente o religiosamente, dei privilegi stessi. Una critica volta, se in chiave politica, a rivendicare in qualche misura il godimento dei medesimi diritti e magari privilegi a più grandi masse di individui (la rivendicazione di giustizia ed equità redistributiva è in fondo questo); e, se motivata religiosamente, a leggere tale realtà in chiave spirituale, traendone motivo di consolazione per gli uni, che non hanno, e di insegnamento morale e occasionalmente di minaccia di un castigo per gli altri, che hanno troppo. Entrambe comunque, in molti casi, spinte a cercare sul piano della realtà storica di lenire in qualche misura i mali del mondo e le sue ingiustizie.

Il problema non è di per sé il denaro. “Ciò che va messo in discussione è il dominio del denaro al di fuori della sua sfera”, come ha scritto Walzer. Solo che, alla luce di Simmel, oggi non c’è più una sua sfera, perché la sua sfera, grazie anche al processo di ‘spiritualizzazione’ di cui si è parlato, è tutte le sfere. Il che pone dei problemi di ‘tracimazione’, di pervasività eccessiva, invadente. Ora, “tutto ciò che ha un prezzo, ha poco valore”, come ha scritto Nietzsche nello Zarathustra. L’effetto di questa confusione delle sfere è che quasi non ci accorgiamo di vivere in una società che tende a dare un prezzo a tutto: anche ai valori. Persino a ciò che rientra nella sfera dell’intimità: le relazioni personali e sociali, il lavoro domestico e di cura, il volontariato, la bontà premiata con una mancia, ma anche, in campo sociale, le giustificazioni puramente economiche, diciamo così funzionaliste, dell’accoglienza agli immigrati, e persino dell’etica negli affari, della lotta alla corruzione o dell’onestà nella pubblica amministrazione – perseguite non come beni in sé, ma perché danneggerebbero il mercato e i princìpi di libera concorrenza…

E’ vero, c’è qualcosa di antico in questo, e di sapiente. Prendiamo il caso del ‘prezzo del sangue’ nelle società primitive, una riparazione economica che riusciva a metter fine alla catena insanguinata delle vendette; ma pensiamo anche all’ammenda per una trasgressione o un reato commessi. E’ leggibile qui la funzione educativa, e anche la finalizzazione sociale, in termini di salvaguardia di un ordine prezioso e altrimenti minacciato. Il problema è di cogliere il limite della possibilità di monetizzazione. L’amore mercenario, per dirne uno, non è un’invenzione odierna, trattandosi come noto del mestiere più antico del mondo; ma c’è un limite oltre il quale l’incremento quantitativo della tendenza alla mercenarizzazione (dell’amore – praticato o solo visto al cinema o in televisione, o trasformato in pubblicità, o magari telefonico – come di qualsiasi altra cosa) si trasforma in soglia qualitativa.

C’è dunque forse un cambiamento quanti-qualitativo in atto. Che comporta il rischio di dover ammettere che, sul denaro, lo spirito (in senso forte) del capitalismo potrebbe vincere su tutta la linea: al punto che l’idolatria del capitale investe anche chi il capitale non ce l’ha. Lo dimostra forse il fenomeno Berlusconi in quanto mito popolare, ma più in generale il successo della retorica dell’“uno su mille ce la fa” e la speranza nelle lotterie.

Il rischio, che è sociale oltre che morale, è che si perda in parte la sensibilità: che, come per le droghe, si abbia un effetto di progressiva desensibilizzazione, e dunque di assuefazione. “Non ce l’ho coi miei simili per i loro privilegi, ma per il fatto che li trovano naturali”, ha scritto Gilbert Cesbron. E questa tendenza, come quella correlata a considerare normale la trasmissione ereditaria non solo delle ricchezze ma anche dei ruoli di potere in tutti gli ambiti (economia, politica, giornalismo, cinema…), ce ne pare una prova. Così come l’aumento spropositato dei tassi di disuguaglianza sociale che ha coinvolto e travolto le società non solo occidentali negli ultimi due decenni (e l’Italia, tra i paesi dell’Ocse, è tra quelli che ha visto aumentare in percentuali maggiori le disuguaglianze interne), e ancor più il fatto che ciò sia accettato persino dalle vittime del meccanismo.

Una delle conseguenze possibili di questi processi è che si perda il senso della differenza tra il possedere del denaro e l’esserne posseduti; che non ci si accorga che in mancanza di distanza critica il denaro può comprare chi lo maneggia più di quanto questi compri col denaro qualcosa. Sono i casi in cui il denaro da mezzo diviene fine. E sono anche ciò che spiega perché, di norma, le religioni insegnino il distacco dal denaro, pur arrivando raramente a condannarlo in sé; e propongano modelli di ascesi individuale che prevedono una progressiva spogliazione dalle sue logiche (“usatene come se non ne usaste”), se non dalla sua proprietà.

Una prima diagnosi l’aveva già proposta uno dei pochi grandi economisti che non ha mai dimenticato la riflessione a partire da presupposti altri da quelli della propria disciplina, John M. Keynes – ridiventato di moda dopo decenni di oblio e irrisione da parte degli stessi che oggi chiedono aiuti per le banche e le industrie dicendo di ispirarsi, a torto o a ragione, alle sue idee – che nelle sue Prospettive economiche per i nostri nipoti scriveva: “L’amore per il denaro come possesso – da distinguere dall’amore per il denaro come mezzo per ottenere le gioie e sperimentare la realtà della vita – sarà riconosciuto per ciò che è: un fatto morboso leggermente ripugnante, una di quelle propensioni per metà criminali, per metà patologiche di cui si affida la cura agli specialisti di malattie mentali”. Ma una diagnosi non è ancora una terapia; che, in quanto tale, e tanto più nella sua forma sociale, è ancora tutta da inventare.

Stefano Allievi

“Servitium”, n.184, luglio-agosto 2009, pp. 45-53