Ritratto della peggior Italia (scandali protezione civile)

La palude melmosa in cui si sta trasformando la success story di Guido Bertolaso e della sua creatura, la amata e odiata Protezione civile, è di per sé una parabola civile che andrebbe meditata. Già il fatto che una meritoria istituzione pubblica, in cui il volontariato di molti italiani dà il meglio di sé, stesse per trasformarsi in SpA, è una inquietante metafora del nostro tempo. Ma la storia che emerge non è una storia nuova.

Gli intrecci tra politica e affari, e tra malapolitica e malaffare, che anche questa storia ci mostra, sono in continuità con troppe altre storie del passato. E le intercettazioni ricordano quelle tra i furbetti del quartierino, e tante altre inchieste di questa Italia triste e vilipesa. Linguaggio da caserma, favori sessuali, allusioni, parolacce, meschinità e postulanti, ‘nani e ballerine’ e tanti altri grotteschi personaggi dell’arte, e poi soldi, tanti soldi, naturalmente pubblici, e tanta fame di arraffarli: tanti, maledetti e subito. Fino alla parodia del ‘tengo famiglia’ fatto di stipendi stratosferici dati ad ‘apprendisti’ inutili e incapaci ma opportunamente ‘figli di’, e la presenza di ingombranti cognati: mancano, per ora, le mogli devote e le madri protettive, ma non disperiamo.

Non è un’Italia nuova, quella che emerge da questo triste affaire: è l’Italia eterna e peggiore. Una società immobile, in cui le cricche al potere sono sempre quelle, gli uomini che decidono sempre gli stessi, gli intrecci e gli affari sempre i soliti, e solita la modalità di condurli. Ma con un peggioramento sostanziale. In passato c’è stata almeno la scusa di chi ‘rubava per il partito’, e il problema del finanziamento dei costi della politica, con lo scambio tra favori e tangenti, era posto come tale. E pur essendo diventato sistema, era considerato patologia.

Oggi questo andazzo è diventato fisiologia. Nessuno si scandalizza più, e in meno c’è anche la giustificazione politica, i valori alti che nascondono la bassa pratica amministrativa. Tutto si fa solo per denaro, e senza scuse ulteriori, senza alibi. In maniera impudica e perfino naif. Perché così va il mondo e non c’è alternativa.

Che cosa emerge, e che cosa colpire, allora? Innanzitutto un mondo di imprenditori malato e incapace. Troppo collegato alla politica per essere sano e capace di competere, e del tutto privo di scrupoli: le cui modalità da assalto alla diligenza e la totale mancanza di responsabilità e di etica sono un tutt’uno (e ci piacerebbe sentire da parte di Confindustria un po’ più di indignazione nei confronti di questa bella gente, e non solo dei politici, bersaglio facile, dopo tutto). Con loro una politica fatta da persone che di collettivo, prima di entrare in politica, non hanno mai fatto nemmeno una riunione di condominio (abitano in villa, del resto), e ignare quindi perfino del vocabolario del ‘bene comune’, oltre che delle prassi, e magari delle lungaggini, del metodo democratico, del bilanciamento dei poteri e dei controlli reciproci. E’ indicativo che l’intreccio tra i due, e la comune filosofia di vita, siano così bene esemplificati dai loro luoghi di incontro, i tennis club e gli sport village che sono diventati le nuove agorà della decisione pubblica.

Da tutto questo emerge un mondo che una vecchia folgorante espressione di Galbraith definiva “ricchezza privata nel pubblico squallore”. Con l’aggravante che anche la ricchezza privata è finanziata con soldi pubblici. Come uscirne, non è ricetta facile. Occorre certo un nuovo sussulto morale e di dignità cittadina, simile a quello visto nel periodo di Tangentopoli. E un ricambio forte in politica e nelle élite dominanti, ormai sempre più simili a cricche incistate nel potere, avvitate sulle rispettive poltrone: quel ricambio che il ceto politico ci impedisce togliendoci il diritto al voto di preferenza, e l’imprenditoria non forza per proprio interesse e ignavia. Poi, certo, nemmeno questo probabilmente basterebbe. Non è detto che il ricambio, che è di mentalità oltre che di persone, il popolo italiano, pur subendone le conseguenze, lo voglia davvero. Certamente non lo vuole chi lo rappresenta, o dice di farlo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Ritratto della peggior Italia (scandali protezione civile), in “Il Piccolo”, 17 febbraio 2010, pp. 1-6

Il programma della Lega

Qualche giorno fa ho proposto in un editoriale alcune riflessioni sull’attuale campagna elettorale. Lamentando, in chiusura, l’assenza di elaborazioni di programma. L’analisi cominciava nel modo seguente: “La Lega sembra pensare che il suo programma sia la faccia di Zaia, e probabilmente è vero: anche se, a onor del vero, ha fatto lo sforzo di elaborarne uno (ma chissà se sarà pro o contro il nucleare, per dire)”. Seguiva constatazione della mancanza di programmi degli altri partiti.

Il presidente del gruppo consiliare della Lega Nord in Regione, Roberto Ciambetti, mi rimprovera amichevolmente, nel suo intervento, di essere incappato in un “incidente di percorso” e di aver scritto che la Lega non ha un programma.

Se l’italiano ha un senso, la frase che ho scritto significa precisamente quello che Ciambetti mi rimprovera di non aver scritto. E cioè che la Lega un programma ce l’ha. E che io l’ho consultato con attenzione. Proprio per questo aggiungevo la frase sul nucleare. Perché nel capitolo sulle politiche energetiche (pag.52-54) la parola nucleare nemmeno esiste: è tutto un’esaltazione, assai condivisibile, della green economy. Ma poi a livello nazionale la Lega, con i suoi ministri, si è espressa a favore, il candidato Zaia, anche se ieri si è pentito, aveva detto che è a favore in Italia ma contro in Veneto, e lo stesso aveva fatto Ciambetti in Regione. Per i casi della vita, che a volte sono curiosi, la dichiarazione di Ciambetti era impaginata l’altro giorno esattamente sopra il mio articolo.

Il programma è dunque, su questa come su altre scelte cruciali, opportunamente (opportunisticamente?) assai vago. Non è una specificità solo della Lega, ma non vediamo cosa ci sia di scorretto nel farlo notare.

Ringrazio molto Ciambetti per le sue parole di stima nei confronti del mio lavoro di studioso dell’islam. Tanto più perché su questo molto ci divide: come sulla questione del diritto dei musulmani, come di chiunque altro, di vedersi riconosciuto il diritto, garantito dalla nostra costituzione ma violato da alcuni amministratori della Lega, di poter pregare in propri luoghi di culto (e anche su questo il programma, pagg. 82-88, è stranamente silenzioso, in contrasto con una rumorosa e inesausta propaganda).

Mentre mi è facile tranquillizzare Ciambetti sulla accusa di pregiudizio antileghista. Nel lontano 1992, ben 18 anni fa, ho pubblicato per Garzanti un libro, che ebbe allora un buon successo, intitolato “Le parole della Lega”. Era uno dei primi tentativi di prendere la Lega sul serio, per quello che diceva e non per quello che gli altri dicevano di lei: al punto che in alcune recensioni sulla stampa nazionale mi si accusò di eccessiva condiscendenza. Invito Ciambetti a recuperare quel libro, ormai fuori mercato, in una qualche biblioteca. Non troverà ombra di pregiudizio: ma legittime critiche, ieri come oggi, quelle sì. Magari, la prossima volta, avremo occasione di parlarne sorseggiando un caffè.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Il programma della Lega, in “Il Mattino”, 9 febbraio 2010, p. 12 (anche la nuova venezia e la tribuna di treviso)

Replica di Roberto Ciambetti all’articolo firmato da Stefano Allievi

Immagino che Stefano Allievi, autore dell’articolo “Regionali, i programmi zero assoluto” pubblicato nei quotidiani Finegil in data odierna, sia il professor Stefano Allievi, noto quanto valente islamista. Se questa mia identificazione fosse esatta sarei ancor più rammaricato nel vedere che un uomo di scienza, la cui analisi non coincide con la mia ma dal quale ho sempre da imparare, sia incappato in un incidente di percorso: il documento programmatico della Lega Nord-Liga Veneta per le prossime regionali è stato reso pubblico nel corso di un convegno a Castelfranco Veneto nello scorso dicembre e dalla metà di quel mese è consultabile sul sito web del gruppo consiliare regionale nonché oggetto di appassionate discussioni nelle nostre sezioni in tutte le città del Veneto. Zaia è il nostro candidato, ma il suo carisma personale non basta per guidare il Veneto verso una nuova storia, e Luca Zaia per primo sa che occorre la sostanza di un programma. Il professor Allievi vedrà che quel programma smentisce la sua analisi, visto che per caratteristiche, temi trattati, proposte, si pone in maniera decisamente innovativa, come la stessa figura di Zaia per altro, su molte questioni, compresa quella del confronto con le altre culture. Talvolta alcune persone, anche le più rigorose e attente, finiscono per cadere nel tranello del pregiudizio: non so se per questo motivo o forse perché non informato, il professor Allievi non si sia documentato sul programma della Lega Nord. Come ben sa il professor Allievi l’ignoranza crea barriere incredibili, genera fantasmi, incomprensioni e, appunto, pregiudizi e preclusioni e non solo nel caso dei rapporti con l’Islam, da lui così a lungo indagato, con risultati di estremo interesse. Il rammarico per le sue parole, dunque, è grande, perché la critica, ingiusta, viene da un uomo dal quale mi dividono tantissime cose, ma che mi ha insegnato molto. Lo dico da leghista e, se permette il professore, da vicentino, conterraneo di quel Giovanni Maria Angiolello che a suo tempo si prodigò per consolidare quel ponte esistente tra Istanbul e Venezia, tra il sultano e il doge, tra la Serenissima e la Sublime Porta. Queste mie parole, per altro, vanno altrettanto bene, se il signor Stefano Allievi non è il noto islamista: il rammarico sarebbe lo stesso e uguale sarebbe la considerazione sulla genesi dei pregiudizi, che talvolta nascono per caso e si sviluppano per necessità. Una necessità urgente, di questi tempi, contro una Lega forte nelle idee e negli uomini.

Roberto Ciambetti

Presidente Gruppo Consiliare regionale Lega Nord

Regionali. I programmi zero assoluto

Primi scampoli di campagna elettorale regionale. E prime tendenze visibili.

Candidata favorita, la Lega si comporta come da previsioni: pronta a incassare una vittoria al di là delle aspettative, in nome più della novità Zaia che della caratura dei suoi candidati o della forza dei suoi slogan, che in entrambi i casi non appare elevatissima. Un primo risultato del basso profilo e della moderazione prescelti per non sfigurare e non radicalizzare la campagna elettorale, si è già ottenuto: per ora almeno, su richiesta del caposquadra, i sindaci leghisti si stanno astenendo da ordinanze fantasiose e dichiarazioni barricadiere, trincerati in un innaturale silenzio. Ben sapendo che troppo roboanti sparate rischierebbero oggi di favorire più i suoi concorrenti del Pdl, che deve assolutamente superare e possibilmente di molto (la partita che si gioca, su questo, è nazionale), o al limite l’Udc alleata fino a queste settimane, che non gli oppositori del Pd.

In campo alleato, nel Popolo della Libertà, si sta verificando e rendendo visibile quello che tutti sapevano ma che nessuno osava dire: che l’unico collante tra ex-Forza Italia, ex-Alleanza Nazionale e battitori liberi era il potere, e concretamente la figura di Galan, più come foglia di fico che come garante. E lanciato lui verso altri lidi nazionali, dove non c’è pericolo che possa incidere davvero sugli equilibri locali, il Pdl si lacera in lotte intestine e personalismi del tutto privi di argomenti, acquisendo visibilità mediatica soprattutto per le guerre fratricide che stanno dilaniando il partito, o ciò che dovrebbe assomigliargli.

Il Partito Democratico, dopo la figuraccia causata dalle esitazioni e dai balbettii degli inizi, quando non riusciva a trovare un candidato, estenuato dai minuetti con l’Udc, che come una damigella leziosa ha tanto brigato per farsi invitare alle danze per poi lasciare i corteggiatori con il carnet dei turni di ballo in mano, ha recuperato credibilità con il ticket Bortolussi-Puppato, che garantisce elettorati diversi e una pesca sia esterna che interna. Ma sa che il vento non spira dalla sua parte, e almeno a Padova si prepara a una resa dei conti interna per il dopo elezioni, con la rivolta dell’Alta e della Bassa, come al solito escluse da una città pigliatutto, in termini di candidati.

All’Udc, come diceva una vecchia pubblicità, basta la parola. Le basta esistere per acquisire la propria rendita di posizione, come mostra l’attrazione fatale dei pianeti piccoli e piccolissimi che fanno a gara per entrare nella sua pur non fortissima orbita gravitazionale. Ma, per come si prospettano le cose, il suo ruolo non sarà cruciale nel determinare gli equilibri del potere regionale.

Grandi assenti per tutti, per ora: i programmi. La Lega sembra pensare che il suo programma sia la faccia di Zaia, e probabilmente è vero: anche se, a onor del vero, ha fatto lo sforzo di elaborarne uno (ma chissà se sarà pro o contro il nucleare in Veneto, per dire). Il Pd comincia appena ad articolare il suo: quello di partito, se non quello di coalizione. L’Udc faticherà non poco a inventarsene uno che sia credibile, distante ma non troppo dal suo programma di governo fino ad oggi. Mentre quello del Pdl sembra il più lontano di tutti: non avendone avuto bisogno quando governava, non sembra convintissimo di doverne presentare uno oggi, visto che sarà l’alleato leghista ad avere le responsabilità maggiori.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Regionali. I programmi zero assoluto, in “Il Mattino”, 3 febbraio 2010, pp. 1-8 (anche la nuova venezia e la tribuna di treviso)

PD-UDC in Regione oltre a un nome serve un progetto

La sfida tra Lega e PDL in Veneto avrà probabilmente come effetto collaterale quello di spingere i due partiti in una lotta all’ultima preferenza molto più aspra che in passato, di cui i cartelloni già in circolazione nelle strade del Veneto costituiscono un evidente esempio. L’aumentata concorrenza tra i due soggetti, pure alleati, potrebbe portare a un aumento complessivo dei voti nell’area di centro-destra, cui lo slancio leghista per la propria prima candidatura regionale di rilievo, che finirà per avere una importante valenza nazionale, farebbe da traino. Solo il timore di alcuni settori moderati della società che una regione a guida leghista finisca per accentuare una radicalizzazione del conflitto politico e sociale, si può pensare possa produrre un esito diverso.

Questo renderà la sfida del centro-sinistra, che già parte svantaggiato, ancora più complicata. Inevitabile e anzi doverosa, in questo quadro, l’alleanza con i centristi dell’UDC, che oltre a fare da serbatoio per il voto moderato potrebbe limitare una prevedibilmente piccola ma significativa emorragia di voti verso i nuovi soggetti politici moderati, che indebolirebbe ulteriormente la coalizione.

La questione del nome del candidato presidente si pone in questo quadro. Se il candidato UDC consentirebbe certamente di acquisire consensi al centro, potrebbe fare perdere alcuni voti, più vicini al PD, di coloro che credono più in un progetto alternativo che in una leadership capace di pescare in altri ambiti: e questo non tanto in direzione di altri partiti, ma dell’astensione e del non voto.

Detto questo, il nome del candidato presidente è solo una parte del problema, e forse non la più importante: certo, dovrà essere autorevole, ma che sia interno o esterno al PD è necessariamente frutto delle condizioni date per l’alleanza con altri soggetti. L’altra parte del problema sono il progetto e i candidati. E per progetto si intende quello di governo, ma anche il progetto politico più a lungo termine. Sulla base di esso occorre in ogni caso costruire una pattuglia di candidati competente e battagliera, in grado di esprimere, in caso di vittoria, una capacità di governo forte, dotata di una visione realistica e alternativa al tempo stesso; e, in caso di sconfitta – che in politica deve essere sempre considerata la base di partenza per una vittoria futura – una forte ed efficace opposizione, per poi candidarsi con serietà al governo della regione alle prossime elezioni.

Se questa è la posta in gioco, il PD in particolare dovrà essere capace di mostrare, con le proprie scelte sulle persone che comporranno le liste elettorali, in particolare tra quelle realmente eleggibili, e che realmente andrà a sostenere, una squadra all’altezza della sfida, composta da soggetti credibili, competenti e innovativi, capaci di parlare sia al proprio elettorato tradizionale sia a settori non già rappresentati e ad ambienti diversi dal proprio bacino di riferimento, con l’adeguata professionalità e il mandato esplicito di produrre un programma di governo regionale solido e alternativo, e nel caso di svolgere quell’opposizione forte e visibile, combattiva e creativa, che sola potrà consentire al PD di svolgere comunque un ruolo di rilievo, che possa portare frutti nel tempo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), PD-UDC in Regione oltre a un nome serve un progetto, in “Il Mattino”, 15 gennaio 2010, p. 8 (anche tribuna di treviso e nuova di venezia)

Cattolici e politica, una nuova sfida (la candidatura Bonino)

Allievi S. (2010), Cattolici e politica, una nuova sfida (la candidatura Bonino), in “Il Piccolo”, 13 gennaio 2010, p.1 A PR

La candidatura di Emma Bonino alla Regione Lazio apre una sfida culturale e politica nuova, per molte ragioni. Una di queste è che essa costringe a ripensare, su basi diverse, il rapporto dei cattolici con la politica, e non solo nel Partito Democratico.

La candidatura è di per sé spendibile e plausibile: la Bonino ha una caratura politica, e di persona capace di servire le istituzioni, fuori discussione. Lo ha dimostrato come commissario europeo e come ministro della repubblica. Ed è probabilmente la migliore candidatura possibile, per il centro-sinistra, in questo momento: l’unica in grado di dare del filo da torcere alla candidata del centro-destra, pure una figura anomala, che farebbe della sfida laziale, non solo perché tra due donne, una partita di straordinario interesse.

Tuttavia il nome di Emma Bonino, e quello dei radicali, produce discussione all’interno del mondo cattolico. Qualcuno, nel PD, ha già minacciato di andarsene, se la Bonino fosse la candidata della coalizione. Si pensi alla teodem Binetti, e a qualche altro, come Castagnetti, che ha manifestato fastidio. Ma esponenti popolari di grande prestigio, come Marini, hanno avuto invece parole lusinghiere nei confronti della candidata.

Dunque, qual è lo stato della questione? Innanzitutto, il punto di partenza. Che è la pessima figura fatta dai cattolici in politica alla guida della regione Lazio. Marrazzo cattolico lo era: e, dopo lo scandalo che lo ha giustamente travolto, il fatto che abbia chiesto scusa al Papa ma non ai suoi elettori è la dimostrazione di un senso dello stato e delle istituzioni assai vicino allo zero. Che rende poco credibile la posizione di quei cattolici che si arrogano il diritto di dare patenti di legittimità morale ad altri.

Ma c’è di più. Verissimo che su divorzio, aborto, e ultimamente con il testamento biologico, i radicali hanno ribadito posizioni etiche opposte a quelle della Chiesa cattolica. Ma siamo certi che siano anche posizioni avversate dai cattolici? Il risultato dei referendum di allora testimonia che non è così. Ma anche sul caso Englaro i cattolici, come hanno dimostrato i sondaggi del periodo, si dividevano sostanzialmente a metà, come i laici. Era la Chiesa, e i teodem, che facevano vedere una posizione sola: creando qualche problema non solo di visibilità delle posizione altre, ma di democrazia al loro interno.

E ancora, i teodem davvero rappresentano i cattolici del centrosinistra? La risposta è un secco no. La Binetti è una miracolata del ‘porcellum’ elettorale. Con il sistema delle preferenze non sarebbe mai entrata in Parlamento: non, almeno, nel PD, dove l’elettorato cattolico, pur presente, non si identifica affatto con le sue posizioni. E la sua uscita, per passare magari con Rutelli (egli pure, dopo tutto, un ex leader radicale: segno che le vie del Signore sono davvero infinite), pur non auspicabile, rappresenterebbe in questo senso un elemento di chiarezza. I cattolici del PD sono piuttosto rappresentati da Marino e Franceschini, l’uno ex segretario e l’altro candidato tale, e quindi tutt’altro che invisibili o marginali, che dalle posizioni solitarie della Binetti.

Ma c’è di più. La partita è davvero sul ruolo dei cattolici in politica. La lunga stagione del card. Ruini ha il demerito storico di aver portato la Conferenza Episcopale a diventare essa stessa un attore politico, in prima persona. Questa scelta ha portato alla marginalizzazione dei politici cattolici, ridotti a meri esecutori della volontà della Chiesa. Si è uccisa così la grande stagione del cattolicesimo politico: che, da Sturzo a De Gasperi a Moro, lungi dall’essere marginale, è stata il cuore stesso della fondazione della repubblica, il cui esito più solido, a testimonianza di questo ruolo, è la Costituzione repubblicana (e, a livello europeo, il processo di unificazione: che vede politici cattolici come promotori – da Adenauer a De Gasperi a Schuman – e un loro straordinario peso come leaders dell’unione, da Delors a Prodi).

L’esito di questa politica è stato controproducente su più fronti. Si è umiliato il ruolo e il peso della laicità, e dei laici, in politica e nella Chiesa, consentendo oltre tutto lo svilupparsi di attori cattolici autonominatisi molto sui generis, dagli atei devoti alla Ferrara ai clericali non credenti della Lega e d’altrove: difensori del crocifisso e della simbolica cattolica, ma non del cattolicesimo praticato e dei suoi valori; sostenitori delle ‘radici cristiane’, ma dimentichi che il Vangelo dice che non dalle radici, ma “dai loro frutti li riconoscerete”.

Ecco quindi che la Bonino, anche come simbolo di battaglie sui diritti che, come tali, dovrebbero essere una bandiera della cattolicità praticata – dalla fame nel mondo alla moratoria contro la pena di morte, dai migranti ai carcerati, dalle donne infibulate ai malati di sla – ma anche per il metodo politico scelto (la non violenza, lo sciopero della fame, la testimonianza personale), diventa una pietra d’inciampo e un segno di contraddizione, per usare espressioni evangeliche, con cui non è possibile continuare a non interloquire, accontentandosi di scomuniche e anatemi: essi stessi simboli di una cattolicità che non piace più, nemmeno ai cattolici.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), Cattolici e politica, una nuova sfida (la candidatura Bonino), in “Il Piccolo”, 13 gennaio 2010, p.1

I veri nemici dell’occidente

La campagna anti-immigrati che in questo paese si va conducendo va esaminata ormai per quello che è, o che qualcuno l’ha fatta diventare: un’ossessione ideologica e una paranoia sociale. Solo questo può spiegare che si sia potuto pensare di non inserire l’immigrazione clandestina (reato minore, punito con un’ammenda) nella legge sulla ‘prescrizione breve’, insieme ad altri reati gravissimi legati alla mafia e al terrorismo, mentre sono inclusi i reati dei colletti bianchi – o, detto in altro modo, delle classi dirigenti.

Di questa campagna sono ben distinguibili due livelli, che vanno nella medesima direzione: uno legislativo a livello nazionale, e uno politico a livello locale.

A livello nazionale, l’ultimo clamoroso esempio non è figlio di un’esigenza pratica, ma appunto di una lucida follia ideologica. Figlia a sua volta di una sciagurata semina politica e intellettuale, che dalla Lega alla Fallaci, ma contagiando anche altre forze politiche e mezzo mondo dell’informazione, ha fatto dell’immigrato un bersaglio in sé – non per quello che fa, ma per quello che è. Si colpisce una condizione, non un reato. Ormai, per ascoltare parole pacate sull’immigrazione bisogna rivolgersi a questori, prefetti e carabinieri: cioè ai professionisti incaricati di mantenere l’ordine sociale. Mentre il maccartismo etnico-razziale di chi agita il tema dell’ordine, anziché agire per portare un po’ d’ordine, finirà per produrre gravi disordini sociali futuri, oltre ad avere conseguenze devastanti sulla vita di decine di migliaia di persone – ciò che interessa poco, visto che non votano.

A livello locale questa campagna, che ha le sue punte nel Nord e in particolare in alcune realtà del Veneto e della Lombardia (due regioni abituate a farsi vanto della propria superiorità culturale), è fatta di ordinanze comunali e delibere: che vanno dalla negazione dei diritti di libertà religiosa per alcuni – i musulmani, e solo loro – a un variegato assortimento di decisioni riguardo alla scuola, agli asili, al sostegno per portatori di handicap e non autosufficienti, ai bonus bebé e ai buoni libro, che prevedono una precedenza per i residenti da un certo numero di anni, o direttamente l’esclusione dei non cittadini. A queste si aggiungono provvedimenti volutamente vessatori che sono una brutta copia dei provvedimenti sulla mendicità medievali, arrivando a multare persino chi la carità la fa, oltre che chi la chiede per strada. E si va avanti così, tra sindaci che, come a Cittadella, subordinano l’apertura di una partita iva o la concessione della residenza all’attestazione di mezzi sufficienti e di una casa adeguata (che, se fosse praticata sugli autoctoni, li costringerebbe ad espellere molti propri concittadini), ad assessori che, come a Campodarsego, vanno di persona a bussare alle porte degli appartamenti di immigrati, in casarecci safari contro i clandestini, fino ai benemeriti amministratori di Coccaglio che hanno avuto il buon gusto di chiamare una operazione anti-clandestini, che colpirà soprattutto i regolari che hanno perso il lavoro a seguito della crisi, togliendo loro immediatamente la residenza, con il nome di “White Christmas”. Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno; o forse, peggio, perché lo sanno…

E’ attraverso politiche di questo genere che la barbarie giuridica, e prima ancora umana, avanza e si fa strada nelle convinzioni e nelle coscienze della gente, oltre tutto con la scusa di agire in nome della collettività, e quindi del bene comune. Senza capire che così si uccide quel principio universalistico che è la base stessa della civiltà giuridica occidentale.

Diciamolo chiaro: se l’occidente è giuridicamente superiore ad altre realtà, come ripetono volentieri coloro che queste campagne promuovono, è precisamente perché ha imparato che la legge è uguale per tutti, e non discrimina per etnia, colore della pelle e religione. È quindi chi lavora per affossare questi principi che è contro l’occidente e suo nemico. Ed è quindi ora di cominciare a combattere i barbari che abbiamo in casa, non solo quelli che vengono da fuori. Sono loro che stanno facendo di questo paese, culla della civiltà e patria del diritto romano, un’eccezione europea.

Stefano Allievi

Allievi S. (2010), I veri nemici dell’occidente, in “Popoli”, n. 1, gennaio 2010, p. 31

La cultura dell’odio e il ruolo della stampa

“Il Gazzettino” di ieri ha ospitato un articolo, a firma di Ario Gervasutti, in risposta all’editoriale da me scritto per “Il Mattino”, in cui cercavo di spiegare un’ovvietà: e cioè che il clima che ha preceduto e seguito il ferimento di Berlusconi è frutto di una predicazione dell’odio che ci portiamo avanti da anni. E che questo clima non è caduto dal cielo, ma è figlio di una cultura politica e mediatica precisa: quella della demonizzazione dell’avversario – diffusa in molti ambiti, da e contro Berlusconi – e della calunnia faziosa come metodo. E, infine, che questa cultura non è uguale dappertutto, e men che meno che è più diffusa a sinistra, come si sta dicendo in queste ore. Semmai, se è vero che la faziosità e il partito preso sono diffusi da tutte le parti e in certa misura fisiologici, in questa fase storica (in altri momenti è stato il contrario) molti esponenti della destra politica e giornalistica hanno imparato ad usare l’attacco a singole persone o a intere categorie con indubbio successo, non solo praticandolo ma vantandosene e rivendicandolo come metodo vincente (per non citare nomi di politici, citerò solo il caso Feltri-Boffo per gli attacchi personali e l’odiosa e indiscriminata campagna anti-immigrati della Lega: che, è il caso di dirlo, non guardano in faccia nessuno).

Che si sia superato, e da molti mesi, il limite di guardia, non lo dice il sottoscritto, ma il Presidente della repubblica e la terza carica dello Stato, e soprattutto un sacco di gente disgustata, che non ne può più del livello degradante della vita politica italiana.

L’intervento di Gervasutti si inserisce perfettamente in questa linea. Il fatto che, con un gioco di parole non originalissimo, che da mezzo secolo mi sento ripetere, parli delle “lezioni dei cattivi allievi” (con la maiuscola), paragonandomi implicitamente, niente meno, ai “cattivi maestri” alla Toni Negri, la dice lunga proprio sul clima che tentavo di descrivere, di cui sono un eccellente esempio. E il fatto che, per rispondere a una considerazione politica e culturale, si lanci in un attacco personale, avvilente più per chi lo fa che per chi lo riceve, alludendo al fatto che io possa influenzare negativamente i miei studenti dalle aule della Facoltà di Scienze Politiche in cui mi onoro di insegnare, è precisamente un esempio di quanto tentavo di descrivere. Se, davvero, non si può più esprimere un’opinione, senza essere tacciati di faziosità e accusati sul piano personale, è appunto il frutto avvelenato di questi anni.

Da antico obiettore di coscienza, detesto la violenza. Le mie parole sul ferimento a Berlusconi, definito “vile oltre che violento”, e che insistevano anche sull’umiliazione inflitta al premier come “umiliazione e degradazione di tutti”, indicano proprio questo, senza ambiguità. Ma ribadisco con assoluta convinzione, semmai rafforzata, che è una sciagurata sconsideratezza esercitarsi “nel cercare, con nome e cognome, presunti mandanti morali e materiali, offrendo all’ira popolare nuovi nemici da combattere”. Come hanno fatto molti in queste ore, tra cui, si parva licet, l’amico Gervasutti. E che fare paragoni con gli anni di piombo o il terrorismo è semplicemente vergognoso: in quegli anni c’ero, e la violenza, tra opposti estremismi e stragi di stato, si respirava giorno per giorno, ti passava tra i pori. L’altra sera, insieme a milioni di italiani, ho sentito al Tg1 Bossi definire un “atto di terrorismo” il ferimento del premier, e subito dopo è stato detto dell’arresto di Tartaglia, uno psicolabile in cura da dieci anni. Questa semplice sequenza di notizie descrive bene l’insensatezza di certi paragoni e di troppe parole in libertà: di cui, davvero, non ne possiamo più.

Dopo l’editoriale dell’altro giorno ho ricevuto molte telefonate di apprezzamento. La più gradita mi è giunta proprio dal “Gazzettino”, da parte di un giornalista, che non conosco personalmente, che ci ha tenuto a esprimermi parole di condivisione e di incoraggiamento: segno che il rifiuto di un dibattito che non porta da nessuna parte è trasversale, e che in tanti vorremmo uscire da questa logica. Mi fa piacere segnalarlo perché non voglio a mia volta aggiungere faziosità a faziosità. Ad Ario Gervasutti, che si accinge ad assumere l’importante responsabilità di dirigere “il Giornale di Vicenza”, l’augurio di farlo con stile e autorevolezza. E un sentito Buon Natale.

Stefano Allievi

Allievi S. (2009), La cultura dell’odio e il ruolo della stampa, in “Il Mattino”, 18 dicembre 2009, p. 15

La cultura dell’odio e il ruolo della stampa

La cultura dell’odio e il ruolo della stampa

“Il Gazzettino” di ieri ha ospitato un articolo, a firma di Ario Gervasutti, in risposta all’editoriale da me scritto per “Il Mattino”, in cui cercavo di spiegare un’ovvietà: e cioè che il clima che ha preceduto e seguito il ferimento di Berlusconi è frutto di una predicazione dell’odio che ci portiamo avanti da anni. E che questo clima non è caduto dal cielo, ma è figlio di una cultura politica e mediatica precisa: quella della demonizzazione dell’avversario – diffusa in molti ambiti, da e contro Berlusconi – e della calunnia faziosa come metodo. E, infine, che questa cultura non è uguale dappertutto, e men che meno che è più diffusa a sinistra, come si sta dicendo in queste ore. Semmai, se è vero che la faziosità e il partito preso sono diffusi da tutte le parti e in certa misura fisiologici, in questa fase storica (in altri momenti è stato il contrario) molti esponenti della destra politica e giornalistica hanno imparato ad usare l’attacco a singole persone o a intere categorie con indubbio successo, non solo praticandolo ma vantandosene e rivendicandolo come metodo vincente (per non citare nomi di politici, citerò solo il caso Feltri-Boffo per gli attacchi personali e l’odiosa e indiscriminata campagna anti-immigrati della Lega: che, è il caso di dirlo, non guardano in faccia nessuno).

Che si sia superato, e da molti mesi, il limite di guardia, non lo dice il sottoscritto, ma il Presidente della repubblica e la terza carica dello Stato, e soprattutto un sacco di gente disgustata, che non ne può più del livello degradante della vita politica italiana.

L’intervento di Gervasutti si inserisce perfettamente in questa linea. Il fatto che, con un gioco di parole non originalissimo, che da mezzo secolo mi sento ripetere, parli delle “lezioni dei cattivi allievi” (con la maiuscola), paragonandomi implicitamente, niente meno, ai “cattivi maestri” alla Toni Negri, la dice lunga proprio sul clima che tentavo di descrivere, di cui sono un eccellente esempio. E il fatto che, per rispondere a una considerazione politica e culturale, si lanci in un attacco personale, avvilente più per chi lo fa che per chi lo riceve, alludendo al fatto che io possa influenzare negativamente i miei studenti dalle aule della Facoltà di Scienze Politiche in cui mi onoro di insegnare, è precisamente un esempio di quanto tentavo di descrivere. Se, davvero, non si può più esprimere un’opinione, senza essere tacciati di faziosità e accusati sul piano personale, è appunto il frutto avvelenato di questi anni.

Da antico obiettore di coscienza, detesto la violenza. Le mie parole sul ferimento a Berlusconi, definito “vile oltre che violento”, e che insistevano anche sull’umiliazione inflitta al premier come “umiliazione e degradazione di tutti”, indicano proprio questo, senza ambiguità. Ma ribadisco con assoluta convinzione, semmai rafforzata, che è una sciagurata sconsideratezza esercitarsi “nel cercare, con nome e cognome, presunti mandanti morali e materiali, offrendo all’ira popolare nuovi nemici da combattere”. Come hanno fatto molti in queste ore, tra cui, si parva licet, l’amico Gervasutti. E che fare paragoni con gli anni di piombo o il terrorismo è semplicemente vergognoso: in quegli anni c’ero, e la violenza, tra opposti estremismi e stragi di stato, si respirava giorno per giorno, ti passava tra i pori. L’altra sera, insieme a milioni di italiani, ho sentito al Tg1 Bossi definire un “atto di terrorismo” il ferimento del premier, e subito dopo è stato detto dell’arresto di Tartaglia, uno psicolabile in cura da dieci anni. Questa semplice sequenza di notizie descrive bene l’insensatezza di certi paragoni e di troppe parole in libertà: di cui, davvero, non ne possiamo più.

Dopo l’editoriale dell’altro giorno ho ricevuto molte telefonate di apprezzamento. La più gradita mi è giunta proprio dal “Gazzettino”, da parte di un giornalista, che non conosco personalmente, che ci ha tenuto a esprimermi parole di condivisione e di incoraggiamento: segno che il rifiuto di un dibattito che non porta da nessuna parte è trasversale, e che in tanti vorremmo uscire da questa logica. Mi fa piacere segnalarlo perché non voglio a mia volta aggiungere faziosità a faziosità. Ad Ario Gervasutti, che si accinge ad assumere l’importante responsabilità di dirigere “il Giornale di Vicenza”, l’augurio di farlo con stile e autorevolezza. E un sentito Buon Natale.

Stefano Allievi

“Il Mattino”, 18 dicembre 2009, p. 15

Berlusconi, odio seminato a piene mani

Berlusconi, odio seminato a piene mani

E’ una bruttissima Italia, quella che emerge dagli eventi di questi giorni, a partire dal ferimento del premier. Ma è uno specchio fedele dell’Italia che siamo. E che è opportuno guardare in faccia, con onesta inquietudine.

L’insensato attacco a Berlusconi si commenta da solo. Vile, oltre che violento; dannoso certo per i suoi effetti diretti, ma anche per l’umiliazione che sempre la brutalità produce nei confronti di chi la subisce. Giusto e doveroso quindi condannarlo con forza, da parte di tutti. L’aggressione a chi governa l’Italia è davvero, in questo senso, un’aggressione all’Italia: e la sua umiliazione è l’umiliazione e la degradazione di tutti. La solidarietà umana e istituzionale è dunque un dovere di chiunque abbia un minimo di coscienza civica. Virtù che purtroppo non abbonda nel Paese, a cominciare da chi lo rappresenta.

Ma l’oscena gazzarra che ne è seguita è uno spettacolo che ha superato ampiamente i limiti dell’indecenza. Da un lato la becera grettezza di chi inneggia all’aggressione e alla violenza. Chi si esalta, inveisce, e rilancia, con squallido humour, su facebook e nei bar: chi lo grida in pubblico, e chi si limita, sotto sotto, a godersela, perché l’umiliazione del potente è pur sempre uno spettacolo popolare. Dall’altro le reazioni ossessive dei fedelissimi: in politica e nei media.

La rappresentazione è sconcertante. Per la sproporzione degli eventi messi a confronto, tanto per cominciare. Si collega il fatto con l’attentato a Togliatti (a cui, dopo tutto, hanno sparato) o con l’assassinio di Rabin: mancano solo Gandhi e Luther King. E si evocano con leggerezza paragoni con gli anni di piombo e il terrorismo. Dimenticando che si è trattato del gesto isolato di uno psicolabile, e non del complotto organizzato di una qualsiasi opposizione. Ma anche per la sconsideratezza di chi si esercita nel cercare, con nome e cognome, presunti mandanti morali e materiali, offrendo all’ira popolare nuovi nemici da combattere.

Non è strano che nell’Italia di oggi ci siano contrasti, tensioni, opposizione. Fa parte del gioco politico, in cui i partiti sono per l’appunto questo: parti della società, in conflitto tra loro per idee e interessi da difendere. Quello che è desolante è che questo contrasto, di per sé fisiologico, sia così radicato nel ceto politico odierno (in gran parte composto da fedelissimi che devono tutto a chi li ha messi in lista, e non a chi li ha votati: servi sciocchi, quindi, più che statisti e uomini politici) da aver prodotto un’assuefazione verbale a qualsiasi insensatezza – tanto ha più spazio nei tg chi le spara più grosse.

Diciamolo onestamente: oggi si fa politica e si guadagna consenso demonizzando l’avversario e organizzando le rispettive tifoserie politiche, non certo progettando il futuro della società. In questo c’è chi si è mostrato maestro e ne ha guadagnato elettoralmente. Così come, se dovessimo pensare a quali sono i giornali che non solo per i contenuti (a cui, quanto a faziosità, contribuiscono quasi tutti), ma anche per lo stile si dimostrano faziosi, facendosene un vanto e rivendicandolo, oggi non penseremmo al Manifesto e all’Unità, ma piuttosto a Libero e al Giornale.

E allora forse chi grida ‘al lupo’ pensando all’odio degli altri dovrebbe pensare anche a chi lo ha seminato a piene mani in questi anni. Ne troverebbe ovunque. Solo questo potrebbe essere un passo avanti per dare uno sbocco positivo alla gravissima aggressione a Berlusconi: dando un contributo a migliorare il livello della vita politica, anziché contribuire forsennatamente, come sta accadendo in queste ore, ad abbassarlo ulteriormente.

Il “Mattino”, 16 dicembre 2009, p. 1-5

anche

La nuova Venezia e la Tribuna di Treviso

anche

L’odio senza colore di una brutta Italia, in “Il Piccolo”, 17 dicembre 2009, p. 1

anche

“Il messaggero” di Udine

Stefano Allievi

Ma per il carroccio il crocifisso è un’arma

Ma per il carroccio il crocifisso è un’arma

Di lotta e di governo. Così si presenta la Lega nei confronti della Chiesa.

Da un lato le polemiche odierne del ministro Calderoli contro il cardinal Tettamanzi, reo di parlare un po’ troppo spesso di immigrati e rom: che si inseriscono in una lunga tradizione leghista, che ha sempre assimilato la Chiesa, in toto, a Roma ladrona. Le polemiche contro i ‘vescovoni’, come li ha chiamati più volte sprezzantemente Bossi, contro la Caritas, o contro le prese di posizione ecclesiali, specie sull’immigrazione ma non solo, non si contano, e fanno parte della storia culturale della Lega. Ne sono, anzi, la matrice, coerentemente reiterata nel tempo, di cui i riferimenti neo-pagani (dal dio Po ai matrimoni celtici) sono una costante platealmente sbandierata.

Anche le polemiche contro la chiesa ambrosiana sono del resto di vecchia data, risalendo ai tempi del cardinal Martini. La curia milanese è stata sempre un obiettivo prediletto: non amata dai leghisti, anche perché essa non ha mai fatto mistero di non amare la Lega, e gli egoismi che rappresenta. Peccato di lesa maestà doppiamente grave, essendo la diocesi ambrosiana anche la culla del leghismo e del suo capo indiscusso. Da qui battaglie politiche che assomigliano molto a tentativi di ingerenza, che a qualcuno hanno fatto ritornare in mente i tempi delle nomine vescovili caldeggiate dall’imperatore di turno: e oggi, non c’è dubbio, nel Nord comanda, sempre più, la Lega.

D’altra parte c’è anche una Lega alla disperata ricerca di benedizioni, se non di benemerenze, ecclesiali. E’ la Lega che difende il crocifisso – seppure considerato simbolo identitario e non religioso, e quindi più facilmente trasformabile in arma contundente – proponendone persino l’apposizione sulla bandiera nazionale (singolarmente proposta dall’ex-ministro Castelli, che di suo ha preferito sposarsi celticamente). Del ministro Zaia che al meeting di Rimini va a proporsi, e a proporre la Lega, come il vero bastione della cristianità e il nuovo interprete dello spirito crociato. Del ministro Calderoli, altro esponente leghista sposato celticamente, e del gran capo Bossi, in visita al patriarca Scola, primo alto esponente ecclesiale a riceverli (9 aprile), per un’ora e mezza di misteriosi colloqui, forse favoriti dalla comune origine lombarda e dalla strategica collocazione nel Nord. O dell’incontro ancora più autorevole con il cardinal Bagnasco (3 settembre): un quarto d’ora forse più simbolico che di contenuto, e probabilmente, almeno nel breve periodo, più utile alla Lega che alla Cei.

Incontri volti a proporre un improbabile volto conciliante e filo-clericale della Lega, ma anche, probabilmente, a tentare di suggellare un patto di egemonia culturale condivisa e non più concorrenziale su un Nord sempre più saldamente in mani leghiste, e il cui elettorato è in parte significativa cattolico.

Difficile intravedere gli scenari che questi tentativi mettono in luce.

Sul lato ecclesiale la Lega si manifesta boccone indigesto. Tanto che Bagnasco, nei mesi successivi all’incontro, non ha mancato di polemizzare duramente con la Lega, sulla questione della moschea genovese come sul caso Tettamanzi; e Scola è portatore di una visione del ‘meticciato delle culture’ molto più complessa e problematica, e certamente più ‘alta’, delle semplificazioni leghiste. La Lega di governo al Nord diventerà tuttavia un fatto compiuto sempre più difficile da ignorare, e si può presumere che questo porterà a una normalizzazione progressiva dei rapporti. Anche se si può ipotizzare che resteranno, nel mondo ecclesiale, tanto alla base quanto al vertice, forti sacche di resistenza culturale all’assalto leghista. Ma si sa: anche Mussolini aveva cominciato la sua carriera politica con infuocati comizi in favore dell’ateismo, intimando a Dio, se esisteva, di incenerirlo all’istante, e ha finito per firmare i Patti Lateranensi. La piroetta leghista dal folklore neo-celtico al bacio dell’anello cardinalizio non è, dopo tutto, più estrema.

Stefano Allievi

“Il Piccolo”, 11 dicembre 2009, p. 1-4