On the road again. Brevi cenni su un universo in rapida mutazione

«Oltre ogni crisi, per un nuovo patto generazionale»: quello proposto per il cinquantesimo Convegno di CEM è un tema difficile, tra l’inquietante e lo spavaldo, o il coraggioso al limite dell’inconsapevolezza. Perché proporre, nel buio della crisi, la luce della ri-costruzione, del nuovo patto, presuppone un ottimismo della volontà di cui è difficile discernere i segni e fondare la ragionevolezza. Nondimeno, questa ricerca è necessaria: esperienzialmente urgente, moralmente inaggirabile. La cifra interpretativa di questo periodo è la transizione: ma verso dove? Cercheremo di decifrarne alcuni segnali, e proporre qualche chiave interpretativa, ricorrendo ad alcune metafore.
La prima è quella delle isole nella corrente, che descrive la nostra condizione umana  globale oggi, come individui e come gruppi. Ne analizzeremo alcune declinazioni, in ambiti molto diversificati, dalla famiglia alle religioni.
La seconda è quella del rapporto tra immigrati digitali e nativi digitali. La applicheremo anche ad altri ambiti, per delineare la portata della rottura generazionale odierna.
La terza è quella delle «seconde generazioni»: che riguarda gli immigrati, ma da cui cercheremo di trarre qualche benefico insegnamento, estendendone il significato.
La quarta la lasciamo in bianco, per ora. È quella che ci porta a capire se siamo davvero «oltre», e in che misura siamo «per». Ma, come lascia capire il titolo, è La strada. Quella dello scrittore Cormac McCarthy. Ma più in generale le strade da percorrere.
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Perchè l'Europa deve tornare a riflettere. Dopo la strage di Oslo

La strage di Oslo e dell’isola di Utoya, compiuta il 22 luglio dal killer solitario Anders Behring Breivik, al di là dell’approfondimento degli elementi di cronaca, pur importanti, e del bisogno di sedimentazione ulteriore, che richiederà tempo per essere ruminata adeguatamente, si presta fin d’ora ad alcune considerazioni.

La prima è d’obbligo. Tutti, all’inizio, avevano pensato ad un attentato di matrice islamica. Questo automatismo fa riflettere. Gli attentati condotti e gli atti di violenza perpetrati da fanatici islamici, in Europa, sono una percentuale infima degli attentati, delle bombe, delle stragi e degli assassinii compiuti, come ci confermano ogni anno i dati dell’Europol. Ad esempio, secondo il rapporto 2010, gli attentati terroristici in Europa sono stati 294 (con un calo netto rispetto al 2008, a sua volta in calo rispetto al 2007), di cui 237 di matrice separatista, 40 di estrema sinistra, 4 di estrema destra, 2 single issued (cioè legati a una causa specifica locale), 10 non specificati, e solo 1 (in Italia) di matrice islamica. Nonostante questo gli arresti per terrorismo sono stati nello stesso anno 587, di cui 413 di separatisti, 29 di militanti di estrema sinistra, 22 di estrema destra, 2 di terroristi single issue, 11 non specificati, e ben 110 di islamisti. Ugualmente le persone in carcere per reati di terrorismo erano 408, di cui 268 separatisti, 39 militanti di estrema sinistra, 1 di estrema destra, 11 non specificati, e 89 islamisti1. I dati si possono leggere in vari modi: considerando la sproporzione tra arrestati e carcerati islamisti rispetto agli attentati avvenuti ad opera di musulmani come un segno di efficace prevenzione (il dato è reale, e frutto della maggiore vigilanza rispetto a questo tipo di terrorismo: diversi attentati in vari paesi sono stati effettivamente sventati, e in luoghi dove potevano produrre molte vittime, come aeroporti e altri luoghi pubblici), ma anche come un segno di attenzione selettiva e di maggiore nervosismo rispetto a questo tipo di terrorismo (e magari di sottovalutazione di altri: col senno di poi, col senno di Oslo potremmo dire, certamente di quello di estrema destra).

Questo meccanismo che non è solo mediatico, anche se i media ne sono un amplificatore e una cassa di risonanza fenomenali, deve farci riflettere seriamente: ma non sulla presenza islamica in Europa – su di noi, Europei di nascita (senza dimenticare che vi sono Europei sia di nascita che di adozione che sono musulmani), e sul nostro atteggiamento nei confronti dell’islam e dei musulmani2. Perché è il frutto di una campagna di lungo periodo, che precede persino l’11 settembre 2001, e che mostra di essere molto efficace e pervasiva. La campagna della Lega contro le moschee, in Italia, comincia nel 20003, e prima ancora è nata l’islamofobia prodotta dal Front National in Francia e da altri attori politici di vari paesi4: questo, tanto per chiarire che non si tratta di una risposta alla violenza islamica nei confronti dell’occidente, ma di qualcosa di più profondo e di più antico. Questo riflesso pavloviano, dal quale sembra non si riesca ad uscire, nonostante le frequenti smentite (con il rischio di un attentato islamico che poi non avviene si aprono regolarmente i telegiornali in occasione di qualsiasi grande evento: olimpiadi, G8, Giubileo o quant’altro) e le occasionali conferme, non produce mai una messa in discussione, una riflessione, una richiesta di approfondimento autocritico, ad esempio all’interno del mondo giornalistico, che questo allarme diffonde, o in quello dei servizi di intelligence, che spesso contribuiscono a produrlo: va detto che il gridare al lupo islamico è mestiere che ha consentito fenomenali e ben retribuite carriere, nel giornalismo, tra le forze di sicurezza, in magistratura, e naturalmente in politica. Meno che mai si ricorda una qualche scusa a posteriori nei confronti dei musulmani, meglio ancora se pubblica. Eppure non si tratta di un meccanismo senza conseguenze e senza danni sulle vite di migliaia di musulmani che poi divengono l’occasionale bersaglio, se non necessariamente di violenze, certamente di rifiuto, di polemica, di ordinario harassing quotidiano, a scuola, nel mondo del lavoro, per strada.

E’ significativo il sospiro di sollievo tirato da tutte le comunità musulmane in Europa, nello scoprire che non era stato uno dei loro: perché si sapeva già quale tremendo prezzo si sarebbe pagato altrimenti. Ma è significativo anche il sospiro di sollievo di molti non musulmani, nel non dover confermare un pregiudizio che, così come viene comunemente formulato, porta dritto verso lo scontro di civiltà, che in questo caso, più che un fatto o anche solo una possibilità, è semplicemente una profezia che si autorealizza: ancora più inquietante, nella sua banalità e nel suo automatismo, proprio per questo. E’ un qualcosa che la stampa dei paesi musulmani, dopo Oslo, comincia a ricordarci: perché questo non lo chiamate terrorismo cristiano? Perché non ci costruite sopra una teoria del complotto? E non si può dire che l’argomentazione sia del tutto fuorviante.

La seconda riflessione da fare è invece sulla violenza interna all’Europa, che stiamo producendo e che sta emergendo in questi anni. Il timore del pericolo islamico ha prodotto un verminaio assai affollato di partiti, gruppi, siti, giornali, scrittori, intellettuali maggiori e minori, che competono nel facile e produttivo mercato dell’islamofobia un tanto al chilo. E’ il verminaio in cui ha attinto a piene mani l’assassino di Oslo, ricavandone la sua personalissima sintesi e la sua tragica conclusione. Non a caso molti di questi riferimenti li cita nel suo memoriale: ed è significativo che la vulgata xenofoba e islamofoba che ha riprodotto abbia già i suoi temi ricorrenti e alquanto ripetitivi, ma penetranti, diffusi, efficaci. Parole d’ordine, peculiarità interpretative, riferimenti valoriali, e anche precisi richiami linguistici: come il chiamare l’Europa Eurabia, neologismo inventato da Bat Ye’or ma portato al successo da Oriana Fallaci, pure essa, tra gli altri, citata5. E’ chiaro che non sarebbe né corretto né intelligente far ricadere sui suoi riferimenti intellettuali le colpe e le conseguenze delle azioni di Breivik: l’operazione è pericolosa e assai scivolosa sempre. Tuttavia non si può ignorare che esistono sul tema sia dei cattivi maestri (sì, proprio nel senso che si usava, a suo tempo e per altri ambienti politici, per Toni Negri ed altri) sia terribili praticanti e spesso solo praticoni, specie sul terreno politico, a cui tuttavia si concede, nel dibattito pubblico e sui media, uno spazio sproporzionato e senza contraddittorio, e soprattutto un linguaggio che non si concederebbe ad altri né soprattutto nei confronti di altri6. Vale la pena di ricordare che in molti discorsi politici, in troppi articoli di giornale, e persino in non rare esternazioni di responsabili religiosi, se sostituissimo la parola ‘musulmano’ con la parola ‘ebreo’ le stesse frasi verrebbero considerate semplicemente indicibili. La crescita dei partiti xenofobi e islamofobi in tutta Europa è lì a dimostrare che non si tratta solamente di un problema di bon ton. Certo, i musulmani, anche quelli europei, hanno le loro responsabilità nel prodursi di questo clima. Troppe incomprensioni, troppe scorciatoie, troppe leggerezze, troppi errori non meditati, troppo poco dibattito interno, e naturalmente qualche atto di violenza inaccettabile di troppo. Ma è il caso che, tutti, si cominci a riflettere seriamente su dove tutto ciò ci sta portando.

lunedì, 1 agosto 2011

Perché l’Europa deve tornare a riflettere

Stefano Allievi

È significativo il sospiro di sollievo tirato da tutte le comunità musulmane in Europa, nello scoprire che non era stato uno dei loro: perché si sapeva già quale tremendo prezzo si sarebbe pagato altrimenti. Ma è significativo anche il sospiro di sollievo di molti non musulmani, nel non dover confermare un pregiudizio che, così come viene comunemente formulato, porta dritto verso lo scontro di civiltà, che in questo caso, più che un fatto o anche solo una possibilità, è semplicemente una profezia che si autorealizza: ancora più inquietante, nella sua banalità e nel suo automatismo, proprio per questo. È un qualcosa che la stampa dei paesi musulmani, dopo Oslo, comincia a ricordarci: perché questo non lo chiamate terrorismo cristiano? Perché non ci costruite sopra una teoria del complotto? E non si può dire che l’argomentazione sia del tutto fuorviante.

La strage di Oslo e dell’isola di Utoya, compiuta il 22 luglio dal killer solitario Anders Behring Breivik, al di là dell’approfondimento degli elementi di cronaca, pur importanti, e del bisogno di sedimentazione ulteriore, che richiederà tempo per essere ruminata adeguatamente, si presta fin d’ora ad alcune considerazioni.

La prima è d’obbligo. Tutti, all’inizio, avevano pensato ad un attentato di matrice islamica. Questo automatismo fa riflettere. Gli attentati condotti e gli atti di violenza perpetrati da fanatici islamici, in Europa, sono una percentuale infima degli attentati, delle bombe, delle stragi e degli assassinii compiuti, come ci confermano ogni anno i dati dell’Europol. Ad esempio, secondo il rapporto 2010, gli attentati terroristici in Europa sono stati 294 (con un calo netto rispetto al 2008, a sua volta in calo rispetto al 2007), di cui 237 di matrice separatista, 40 di estrema sinistra, 4 di estrema destra, 2 single issued (cioè legati a una causa specifica locale), 10 non specificati, e solo 1 (in Italia) di matrice islamica. Nonostante questo gli arresti per terrorismo sono stati nello stesso anno 587, di cui 413 di separatisti, 29 di militanti di estrema sinistra, 22 di estrema destra, 2 di terroristi single issue, 11 non specificati, e ben 110 di islamisti. Ugualmente le persone in carcere per reati di terrorismo erano 408, di cui 268 separatisti, 39 militanti di estrema sinistra, 1 di estrema destra, 11 non specificati, e 89 islamisti [1]. I dati si possono leggere in vari modi: considerando la sproporzione tra arrestati e carcerati islamisti rispetto agli attentati avvenuti ad opera di musulmani come un segno di efficace prevenzione (il dato è reale, e frutto della maggiore vigilanza rispetto a questo tipo di terrorismo: diversi attentati in vari paesi sono stati effettivamente sventati, e in luoghi dove potevano produrre molte vittime, come aeroporti e altri luoghi pubblici), ma anche come un segno di attenzione selettiva e di maggiore nervosismo rispetto a questo tipo di terrorismo (e magari di sottovalutazione di altri: col senno di poi, col senno di Oslo potremmo dire, certamente di quello di estrema destra).
Questo meccanismo che non è solo mediatico, anche se i media ne sono un amplificatore e una cassa di risonanza fenomenali, deve farci riflettere seriamente: ma non sulla presenza islamica in Europa – su di noi, Europei di nascita (senza dimenticare che vi sono Europei sia di nascita che di adozione che sono musulmani), e sul nostro atteggiamento nei confronti dell’islam e dei musulmani [2]. Perché è il frutto di una campagna di lungo periodo, che precede persino l’11 settembre 2001, e che mostra di essere molto efficace e pervasiva. La campagna della Lega contro le moschee, in Italia, comincia nel 2000 [3], e prima ancora è nata l’islamofobia prodotta dal Front National in Francia e da altri attori politici di vari paesi [4]: questo, tanto per chiarire che non si tratta di una risposta alla violenza islamica nei confronti dell’occidente, ma di qualcosa di più profondo e di più antico.
Questo riflesso pavloviano, dal quale sembra non si riesca ad uscire, nonostante le frequenti smentite (con il rischio di un attentato islamico che poi non avviene si aprono regolarmente i telegiornali in occasione di qualsiasi grande evento: olimpiadi, G8, Giubileo o quant’altro) e le occasionali conferme, non produce mai una messa in discussione, una riflessione, una richiesta di approfondimento autocritico, ad esempio all’interno del mondo giornalistico, che questo allarme diffonde, o in quello dei servizi di intelligence, che spesso contribuiscono a produrlo: va detto che il gridare al lupo islamico è mestiere che ha consentito fenomenali e ben retribuite carriere, nel giornalismo, tra le forze di sicurezza, in magistratura, e naturalmente in politica. Meno che mai si ricorda una qualche scusa a posteriori nei confronti dei musulmani, meglio ancora se pubblica. Eppure non si tratta di un meccanismo senza conseguenze e senza danni sulle vite di migliaia di musulmani che poi divengono l’occasionale bersaglio, se non necessariamente di violenze, certamente di rifiuto, di polemica, di ordinario harassing quotidiano, a scuola, nel mondo del lavoro, per strada.
È significativo il sospiro di sollievo tirato da tutte le comunità musulmane in Europa, nello scoprire che non era stato uno dei loro: perché si sapeva già quale tremendo prezzo si sarebbe pagato altrimenti. Ma è significativo anche il sospiro di sollievo di molti non musulmani, nel non dover confermare un pregiudizio che, così come viene comunemente formulato, porta dritto verso lo scontro di civiltà, che in questo caso, più che un fatto o anche solo una possibilità, è semplicemente una profezia che si autorealizza: ancora più inquietante, nella sua banalità e nel suo automatismo, proprio per questo. È un qualcosa che la stampa dei paesi musulmani, dopo Oslo, comincia a ricordarci: perché questo non lo chiamate terrorismo cristiano? Perché non ci costruite sopra una teoria del complotto? E non si può dire che l’argomentazione sia del tutto fuorviante.
La seconda riflessione da fare è invece sulla violenza interna all’Europa, che stiamo producendo e che sta emergendo in questi anni. Il timore del pericolo islamico ha prodotto un verminaio assai affollato di partiti, gruppi, siti, giornali, scrittori, intellettuali maggiori e minori, che competono nel facile e produttivo mercato dell’islamofobia un tanto al chilo. È il verminaio in cui ha attinto a piene mani l’assassino di Oslo, ricavandone la sua personalissima sintesi e la sua tragica conclusione. Non a caso molti di questi riferimenti li cita nel suo memoriale: ed è significativo che la vulgata xenofoba e islamofoba che ha riprodotto abbia già i suoi temi ricorrenti e alquanto ripetitivi, ma penetranti, diffusi, efficaci. Parole d’ordine, peculiarità interpretative, riferimenti valoriali, e anche precisi richiami linguistici: come il chiamare l’Europa Eurabia, neologismo inventato da Bat Ye’or ma portato al successo da Oriana Fallaci, pure essa, tra gli altri, citata [5].
È chiaro che non sarebbe né corretto né intelligente far ricadere sui suoi riferimenti intellettuali le colpe e le conseguenze delle azioni di Breivik: l’operazione è pericolosa e assai scivolosa sempre. Tuttavia non si può ignorare che esistono sul tema sia dei cattivi maestri (sì, proprio nel senso che si usava, a suo tempo e per altri ambienti politici, per Toni Negri ed altri) sia terribili praticanti e spesso solo praticoni, specie sul terreno politico, a cui tuttavia si concede, nel dibattito pubblico e sui media, uno spazio sproporzionato e senza contraddittorio, e soprattutto un linguaggio che non si concederebbe ad altri né soprattutto nei confronti di altri [6]. Vale la pena di ricordare che in molti discorsi politici, in troppi articoli di giornale, e persino in non rare esternazioni di responsabili religiosi, se sostituissimo la parola ‘musulmano’ con la parola ‘ebreo’ le stesse frasi verrebbero considerate semplicemente indicibili. La crescita dei partiti xenofobi e islamofobi in tutta Europa è lì a dimostrare che non si tratta solamente di un problema di bon ton. Certo, i musulmani, anche quelli europei, hanno le loro responsabilità nel prodursi di questo clima. Troppe incomprensioni, troppe scorciatoie, troppe leggerezze, troppi errori non meditati, troppo poco dibattito interno, e naturalmente qualche atto di violenza inaccettabile di troppo. Ma è il caso che, tutti, si cominci a riflettere seriamente su dove tutto ciò ci sta portando.
[1]Per chi vuole controllare di persona, il link, assai poco frequentato da giornalisti e sedicenti esperti di islam, è il seguente: https://www.europol.europa.eu/content/publication/te-sat-2010-eu-terrorism-situation-trend-report-671 (si vedano in particolare le pagg. 10-11 e gli approfondimenti sul terrorismo islamico, non a caso quello di cui si parla per primo, da pag. 18 in avanti).
[2]Su cui si veda S. Allievi, Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Forum, 2007.
[3] Il ‘settembre nero’ dell’islam italiano è quello appunto del 2000, quando il kulturkampf anti-islamico si manifesta in vari ambiti: con la pubblicazione e la favorevole accoglienza e diffusione di un saggio del politologo Giovanni Sartori, intitolato Pluralismo, multiculturalismo e estranei, zeppo di inesattezze, incongruenze e strafalcioni, ma di grande successo; con la lettera pastorale dell’allora cardinale di Bologna Giacomo Biffi, ugualmente diffusa e dibattuta, in ambito cattolico, che ha dato la voce ad una peculiare forma cattolica di islamofobia, fino ad allora silente; e appunto con la campagna politica della Lega, iniziata con il caso della moschea di Lodi e da allora mai conclusa, e anzi in continua evoluzione (sul caso italiano si vedano i miei Islam italiano, Einaudi, 2003, e I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009).
[4]V. Geisser, La nouvelle islamophobie, La Découverte, 2003; M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Laterza, 2006; C. Allen, Islamophobia, Ashgate, 2010.
[5]Su cui G. Bosetti, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, Marsilio, 2005, e S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione, Emi, 2004, nonché Niente di personale signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Aliberti, 2006.
[6]Paradigmatico ma tutt’altro che isolato il caso dell’europarlamentare leghista Borghezio, che solo questa volta è stato bonariamente sospeso per tre mesi dal partito, per aver dichiarato lo sproposito indicibile che, certo, i metodi no, ma le ragioni e del motivazioni del massacratore di Oslo erano del tutto condivisibili. Il parlamentare suddetto è un dichiarazionista professionale sul tema (non fa praticamente altro, del resto), campione di preferenze per questo motivo, eroe della base leghista assai festeggiato a Pontida, e mai in passato invitato a un linguaggio più sobrio, se non ad argomentazioni più serie.

1 Per chi vuole controllare di persona, il link, assai poco frequentato da giornalisti e sedicenti esperti di islam, è il seguente: https://www.europol.europa.eu/content/publication/te-sat-2010-eu-terrorism-situation-trend-report-671 (si vedano in particolare le pagg. 10-11 e gli approfondimenti sul terrorismo islamico, non a caso quello di cui si parla per primo, da pag. 18 in avanti).

2 Su cui si veda S. Allievi, Le trappole dell’immaginario. Islam e occidente, Forum, 2007.

3 Il ‘settembre nero’ dell’islam italiano è quello appunto del 2000, quando il kulturkampf anti-islamico si manifesta in vari ambiti: con la pubblicazione e la favorevole accoglienza e diffusione di un saggio del politologo Giovanni Sartori, intitolato Pluralismo, multiculturalismo e estranei, zeppo di inesattezze, incongruenze e strafalcioni, ma di grande successo; con la lettera pastorale dell’allora cardinale di Bologna Giacomo Biffi, ugualmente diffusa e dibattuta, in ambito cattolico, che ha dato la voce ad una peculiare forma cattolica di islamofobia, fino ad allora silente; e appunto con la campagna politica della Lega, iniziata con il caso della moschea di Lodi e da allora mai conclusa, e anzi in continua evoluzione (sul caso italiano si vedano i miei Islam italiano, Einaudi, 2003, e I musulmani e la società italiana, Franco Angeli, 2009).

4 V. Geisser, La nouvelle islamophobie, La Découverte, 2003; M. Massari, Islamofobia. La paura e l’islam, Laterza, 2006; C. Allen, Islamophobia, Ashgate, 2010.

5 Su cui G. Bosetti, Cattiva maestra. La rabbia di Oriana Fallaci e il suo contagio, Marsilio, 2005, e S. Allievi, Ragioni senza forza, forze senza ragione, Emi, 2004, nonché Niente di personale signora Fallaci. Una trilogia alternativa, Aliberti, 2006.

6 Paradigmatico ma tutt’altro che isolato il caso dell’europarlamentare leghista Borghezio, che solo questa volta è stato bonariamente sospeso per tre mesi dal partito, per aver dichiarato lo sproposito indicibile che, certo, i metodi no, ma le ragioni e del motivazioni del massacratore di Oslo erano del tutto condivisibili. Il parlamentare suddetto è un dichiarazionista professionale sul tema (non fa praticamente altro, del resto), campione di preferenze per questo motivo, eroe della base leghista assai festeggiato a Pontida, e mai in passato invitato a un linguaggio più sobrio, se non ad argomentazioni più serie.

http://www.resetdoc.org/story/00000021693/translate/Italian

Il caso Penati e i partiti invadenti

Bersani rivendica la diversità politica, non genetica, del PD. E’ un passo avanti rispetto ai tempi in cui il PCI rivendicava quest’ultima. Ma la diversità politica si misura non con le parole, ma con l’azione politica, cioè i fatti. E questa invece è ancora timida. Un fatto sarebbe promuovere la riduzione radicale dei costi della politica: dimezzamento dei parlamentari, riduzione significativa dei consiglieri regionali, e così via a scalare, ma anche riduzione drastica delle rispettive indennità, abolizione dei vitalizi e dei molti benefits nascosti. Si potrebbe fare da subito, a cominciare dai luoghi in cui il PD è forza di governo, e qualcuno ha cominciato a farlo: perché non diventa una battaglia a tutto campo, visibile e aperta? Un altro fatto, meno simbolicamente significativo ma più economicamente e moralmente incisivo, sarebbe l’uscita dalle società partecipate e la denuncia a tappeto dei consigli d’amministrazione abusivi e improduttivi che la politica produce, in enti inutili o francamente dannosi (il costo non è solo gli stipendi doppi e tripli o il gettone, su cui si concentra l’attenzione della pubblica opinione, ma la struttura stessa, la sua improduttività, o peggio la sua produttività sbagliata laddove il mercato potrebbe fare meglio, i suoi costi di gestione, e questo anche al netto della corruzione). La politica dovrebbe uscire dalle migliaia di società che ha prodotto, e dalle istituzioni che ha abusivamente occupato, dalla Rai alle Asl (in cui, in entrambi questi casi come in moltissimi altri, è entrata con la forte pressione e la totale compartecipazione delle forze di sinistra): così come è stata una scelta politica – sciagurata – entrarci, così potrebbe essere una scelta politica – vincente – uscirne, se solo la politica lo volesse davvero. Bisogna uscire dalla mentalità stessa che dà per scontato che le nomine nei consigli di amministrazioni, negli enti, nelle fondazioni, le fanno i partiti, o peggio i capibastone dei medesimi, con criteri di fedeltà (personale, nemmeno di partito) e non di merito, in ogni caso non trasparenti: su questo il PD non fa eccezione, né a livello nazionale né locale – non ricordiamo una sola occasione di discussione pubblica sui meriti o sui curricula dei vari nominati da questo o quel barone di partito anche nel più infimo degli enti.

Invece di sentirsi offesi perché la magistratura indaga e la stampa ci ricama sopra, minacciando querele e class action, ci vorrebbe una grande offensiva riformista, che vada al nodo del problema. E questa ancora non c’è. E’ vero che il PD, unico tra i partiti, si fa certificare il bilancio: ma di fronte alla tragica crisi di legittimità della politica che travolge anche il PD, è davvero troppo poco – una graziosa decorazione su una pietanza comunque immangiabile.

Il caso Penati è solo l’ultimo, ma non è uno qualsiasi, trattandosi del capo della segreteria politica dello stesso Bersani. E se anche fosse provato che non ci sono illegalità, c’è l’avallo a un’ipertrofia della politica, per cui è considerato normale che essa compri (malamente e a caro prezzo) azioni di società autostradali, o faccia triangolazioni con il potere economico (ti cedo una cosa – terreno, immobile, azioni – che tu rivenderai a prezzo più alto, lucrando una rendita che non assomiglia neanche un po’ all’economia di mercato, in cambio di qualcos’altro, incluso magari il coinvolgimento delle imprese a me vicine, esercitando una pressione soft che non è illegale ma è ugualmente una perversione del mercato). Penati non è un Verdini, e il primo si è dimesso dalle cariche istituzionali (ma non dal partito) mentre l’altro non lo farebbe neanche dipinto né nessuno glielo ha chiesto. La diversità è questa. Ma non basta più.

La consapevolezza dell’urgenza del tema sembra tragicamente assente, per una ragione perfino antropologica, che coinvolge anche i dirigenti del PD. Non si può chiedere di abbandonare il metodo dell’occupazione della società e dell’economia da parte della politica alle stesse persone che l’hanno sempre praticata. Il rinnovamento vero dei metodi della politica si fa anche non facendo fare carriera e non candidando più chi quei metodi li ha praticati per storia e tradizione, come se fosse ovvio (e non ci riferiamo alle illegalità, ma all’onninvadenza della politica). Bisogna scegliere uomini e donne che non pensino più che tutto questo è normale. E’ questa la diversità politica che ancora non si vede.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Il caso Penati e i partiti invadenti, in “Il Mattino”, 29 luglio 2011, pp. 1-5 (anche “La nuova Venezia” e la“Tribuna di Treviso”)

Dopo le isterie, le vere moschee da fare

Se c’è qualcosa di cui l’Occidente può essere legittimamente fiero, e che dà senso alla sua storia, è la sua capacità di sancire, proteggere e progressivamente allargare la sfera delle libertà degli individui e degli attori sociali collettivi, dalle imprese ai partiti. All’origine di queste libertà – in Europa e, ancora più fortemente, negli Stati Uniti – vi è la tutela delle libertà religiose, e in particolare la protezione dei diritti delle minoranze, dato che le maggioranze, avendo il potere, si tutelano da sé. Universalismo (il fatto, banale ma che è utile ripetere, che la legge è uguale per tutti) e quindi pari dignità e parità di trattamento, tutela delle minoranze, costruzione di uno spazio laico (che non significa, riduttivamente, neutrale) a tutela di tutti, sono quindi principi cardine dello spazio pubblico occidentale, irrinunciabili, “non negoziabili”, per mutuare la formula oggi di moda presso alcuni attori religiosi.

Tuttavia questo stesso Occidente, e l’Europa continentale in particolare, sembra oggi singolarmente incapace di accettare e rendere pratica quotidiana questi suoi principi fondativi, soprattutto alla luce dell’accentuato pluralismo religioso attualmente disponibile, che precede l’arrivo delle nuove migrazioni, ma che da queste è reso radicalmente più visibile. Non solo la visibilità delle comunità religiose è posta in questione – a proposito dei loro simboli, delle loro pratiche, dei loro codici vestimentari, dei loro edifici di culto – ma persino, in alcuni casi, la legittimità della loro presenza. La questione della visibilità nello spazio pubblico è tuttavia quella dirimente, perché si traduce in pratiche istituzionali di tipo discriminatorio che possono collidere – e di fatto spesso collidono – con i principi fondativi dello Stato e le sue norme, ma anche solo con le regole che sono alla base della civile convivenza.

La questione è generale, e può riguardare occasionalmente tutte le minoranze religiose. Ma di fatto essa si manifesta in particolare a proposito dell’islam, considerato, a torto o a ragione, il caso più estremo o comunque più problematico di diversità religiosa. E questo in diversi ambiti: dalle politiche di genere ai luoghi di culto. Ciò avviene anche per l’esistenza di imprenditori politici della paura, e dell’islamofobia in particolare, che hanno fatto della lotta all’islam, attraverso la lotta ai suoi segni di visibilità, un cardine delle loro politiche e della loro ricerca di consenso.

Le moschee, per citare un esempio significativo, fanno notizia, e fanno – nel senso che producono, soprattutto in chi le avversa – politica, anche prima di esistere. Quasi ogni volta che in qualche città europea (e con frequenza forse più significativa nelle città italiane, o più propriamente in quelle del Nord Italia) si pone il problema di costruire una moschea, partono le discussioni, le riflessioni, le controdeduzioni, ma anche, sempre più spesso, i conflitti. Milano è un caso paradigmatico e per certi versi clamoroso di questo meccanismo. Ancor prima di esistere la moschea è diventata strumento – e strumento considerato strategico, primario – di conflitto elettorale: tra il tentativo abortito di presentare una lista intorno alla figura del responsabile di una delle principali sale di preghiera, Abdel Hamid Shaari, e la sconcertante (ma, alla fine, perdente) strumentalizzazione che Letizia Moratti e la Lega hanno fatto delle posizioni di Giuliano Pisapia, cavalcando spudoratamente paure esagerate ad arte, paventando la creazione del più grande centro islamico d’Europa, cercando di mobilitare i quartieri con messaggi che volevano trasmettere inquietudine (“Milano zingaropoli … con la più grande moschea d’Europa” e “Moschea a Milano. E se fosse nel tuo quartiere?”, dicevano i manifesti della Lega affissi ovunque appena prima del ballottaggio).

Questo, tuttavia, in un Paese dove a fronte delle 764 sale di preghiera musulmane censite, vi sono solo 3 moschee (Catania, Segrate e Roma), di cui solo 2 utilizzate (quella di Catania è proprietà di un privato, nemmeno musulmano), e solo una, quella di Roma, è una vera moschea monumentale, mentre quella di Segrate, alla periferia di Milano, è così piccola e sottodimensionata – poco più che una dichiarazione simbolica di esistenza – che i fedeli pregano da sempre in una sala attigua. Giusto per fare un confronto europeo, oltre a essere in numero più cospicuo le sale di preghiera, le moschee costruite ad hoc sono quasi 200 in Francia, oltre un centinaio in Gran Bretagna, quasi altrettante in Olanda, una settantina in Germania; e anche Paesi con meno musulmani dell’Italia ne hanno comunque di più: 4 in Svizzera, 5 in Austria, 7 in Portogallo e Svezia, 14 in Spagna. Mentre i progetti di costruzione in itinere, a vari livelli di avanzamento, sono quasi 200 in Germania, una sessantina in Francia, una quindicina in Olanda e in Grecia, e solo 6 o 7 in Italia1.

Ecco quindi che il caso di Milano assurge a una indubbia significatività, dato che non c’è praticamente grande città in Europa che non abbia al suo interno una o più moschee, esattamente come ha chiese cattoliche e protestanti, sinagoghe, sale del regno dei testimoni di Geova, templi buddhisti, hindu e sikh, e molto altro ancora, con maggiore o minore visibilità secondo la presenza quantitativa, la forza e la ricchezza delle rispettive comunità.

Il problema non è tanto il se, ma il come. Sul ‘se’ aveva già dato una risposta, a suo tempo, il sindaco Albertini, indicando la costruzione di una moschea come un obiettivo ovvio e del tutto ragionevole; e lo dà soprattutto la logica delle cose. Sul come si può solo discutere sul dove e il quando, in termini di sensatezza dei progetti e con meri tecnicismi urbanistici, essendo urbanistica e comunale la competenza riguardo ai luoghi di culto. In questo senso era solo una forma di illegittimo scaricabarile il tentativo del sindaco Moratti di chiedere un parere al ministro dell’Interno Maroni, al solo scopo di guadagnare tempo continuando a penalizzare le comunità islamiche milanesi, impossibilitate ad avere un luogo di culto degno di questo nome: dove anche la bellezza e la dignità sono una qualificazione fondamentale, che significa integrazione non solo simbolica, e possibilità di espletare meglio i fini propri delle comunità religiose, a tutto vantaggio della società e della città nel suo complesso, che ne guadagna in fiducia, gratitudine e, non ultimo, controllo sociale e sicurezza. Ugualmente relative al ‘se’ sono le discussioni su se sia meglio prevedere una sola grande moschea cittadina o diverse. L’esperienza delle metropoli europee comparabili a Milano ci dice che una cosa non esclude l’altra, e che si deciderà nel confronto tra istituzioni e parti sociali: sapendo che la maggioranza degli attori sociali islamici propende per ora più per la pluralità di luoghi di culto di medie dimensioni che non per un’unica grande ‘moschea cattedrale’, che porrebbe problemi anche di costo, di gestione e di egemonia, stante la peraltro legittima pluralità interna alle comunità islamiche.

L’importante è che si proceda, e in fretta, anche in vista dell’Expo. Sarebbe umiliante di fronte alle decine di migliaia di visitatori musulmani che si prevede arriveranno, dover rispondere che no, purtroppo, un luogo di preghiera per loro la civile Milano, che si vuole capitale morale e metropoli globale, non l’ha nemmeno previsto. Ma sarebbe umiliante e controproducente soprattutto per i vecchi cittadini e i nuovi residenti della città, sapendo che gli uni e gli altri (e di musulmani ce ne sono in entrambe le categorie) hanno il diritto di vedersi riconosciuto un diritto costituzionale che è loro concesso senza condizioni. In questo senso anche le proposte di referendum pro o contro la moschea sono irricevibili. Per la semplice ragione che le maggioranze non hanno il diritto di decidere sui diritti delle minoranze, pena l’affossamento delle fondamenta stesse dell’Occidente.

In termini di principio la questione delle moschee nemmeno dovrebbe sussistere, perché non c’è nulla di più ovvio e naturale che delle comunità religiose, immigrate o meno, desiderino propri luoghi di culto e possano godere degli stessi diritti che le costituzioni europee garantiscono a tutti, maggioranze e minoranze. Si affrontino dunque solo i termini di fatto, con buon senso e ragionevolezza da entrambe le parti: sapendo che alla parte islamica è richiesto un supplemento di intelligenza e capacità comunicativa nel sapersi confrontare con il resto della città, che ha il diritto di sapere e di confrontarsi, oltre all’ovvio rispetto delle normative associative e urbanistiche. Uscendo anche, tutti quanti, dall’idea di considerare normale il rappresentarsi la città come un conflitto di civiltà in sedicesimo, in cui anche il linguaggio scivola spesso oltre i limiti dell’accettabile, se non del lecito (basta sostituire alla parola musulmano la parola ebreo o cristiano, in taluni discorsi politici o articoli di giornale a proposito di moschee, per accorgersene). In questo la Chiesa cattolica cittadina e le confessioni religiose minoritarie, a cominciare da quelle storiche come gli ebrei e i valdesi, hanno svolto un ruolo di guardiani della civiltà giuridica e di salvaguardia dei principi, non solo del buon senso religioso, che non hanno svolto altri. E questo, insieme alla volontà delle istituzioni, è già un buon terreno su cui costruire.

Stefano Allievi

1 Per i dati e una analisi del problema si veda S. Allievi, La guerra delle moschee. L’Europa e la sfida del pluralismo religioso, Venezia, Marsilio, 2010. Per una comparazione dettagliata a livello europeo S. Allievi (a cura di), Mosques in Europe. Why a solution has become a problem, Londra, Alliance Publishing Trust, 2010.

Allievi S. (2011), Dopo le isterie, le vere moschee da fare, in “Reset”, n. 126, luglio-agosto 2011, pp. 44-46

Diritto di culto e propaganda

La mozione della provincia di Padova, approvata da Lega e PDL, che chiede che si proceda a referendum tra i cittadini in caso di richiesta di costruzione o anche solo di utilizzo di un locale ad uso moschea, e’ l’ennesimo esempio di politica inutile: quella per cui monta tra i cittadini il fastidio contro la casta che perde tempo senza produrre nulla. Questo perche’ anche i promotori, e la Lega in primo luogo, che tanto ha insistito per arrivare a questo risultato, sanno benissimo che non serve a nulla. Che si e’ fatto perdere tempo al consiglio solo per portare a casa un obiettivo simbolico che e’ in realta’ impraticabile: servira’ a fare campagna elettorale, ma non a ottenere un qualsivoglia risultato. Non serve a nulla perche’ chiede al governo di fare quello che il governo, che e’ della stessa parte politica, se volesse e se potesse avrebbe gia’ fatto. Non serve a nulla perche’ e’ incostituzionale: perche’ le maggioranze non hanno alcun diritto di decidere a proposito dei diritti delle minoranze, quando si tratta di diritti costituzionalmente garantiti; e il diritto al culto e alla liberta’ religiosa e’ grazie a Dio tra questi – altrimenti non saremmo un paese civile e occidentale. Perche’ altrimenti potremmo fare referendum contro i luoghi di culto degli ebrei o dei sikh, degli hindu o dei cattolici, semplicemente perche’ ci stanno antipatici; ma anche contro le sedi dei sindacati o dei partiti, magari anche contro quelle della Lega o del Pdl, in un quartiere o in una citta’ che vota maggioritariamente altrimenti, in un guerra di tutti contro tutti che ci riporterebbe indietro di secoli, a prima dell’invenzione del diritto. Ma non serve a nulla anche perche’ e’ odiosa e stupida. Odiosa perche’ si rivolge contro un gruppo religioso e uno solo, in maniera sostanzialmente razzista: quando basterebbe chiedere ad esso come agli altri di rispettare, come sono tenuti a fare, le leggi della collettivita’. Stupida perche’ impraticabile. Come la mettiamo, per dire, con i cittadini italiani di fede musulmana (anche se la costituzione prevede il diritto di culto anche per i soli residenti)? Se ne e’ accorta, altrove, persino la Lega. Il disegno di legge Gibelli-Cota, promosso dalla Lega, prevede infatti il referendum obbligatorio in caso di richiesta di moschea. Ma la Lega non ha mai chiesto di porlo in discussione in Parlamento. Un po’ perche’ e’ mal scritto e zeppo di strafalcioni costituzionali. E un po’, anzi soprattutto, perche’ sa benissimo che e’ irricevibile. Tanto che dei due firmatari, Gibelli non ha mai chiesto di discuterlo in Lombardia, dove e’ consigliere regionale; e Cota, nel frattempo diventato governatore del Piemonte, si e’ felicemente scordato di averlo firmato, pur avendo tutti i poteri per farlo discutere e approvare in un giorno. A Torino la Lega ha persino ritirato il ricorso al Tar contro la moschea che aveva presentato. E altrove (ad esempio, in Veneto, nel veronese) ha perso tutti i ricorsi che i musulmani avevano presentato contro delle chiusure palesemente selettive e incostituzionali. Infine, e’ contraddittorio: perche’ pur dicendo che si e’ contrari ai luoghi di culto ‘privati’, si fa di tutto per evitare che diventino pubblici. Tra l’altro imponendo condizioni semplicemente illegali, come qualla dell’uso della lingua italiana (che – pur se auspicabile, e di fatto accade, soprattutto a partire dalle seconde generazioni – non praticano nemmeno i luterani tedeschi, gli anglicani inglesi, i nigeriani pentecostali, i cattolici filippini e quelli che amano il rito latino, e tanti altri) e l’albo degli imam (non esiste nemmeno un albo dei preti o dei rabbini, essendo questa competenza delle singole confessioni religiose, nel rispetto della diversita’ dei ruoli di chiese e stato). La Lega accetti dunque un consiglio. Essendo nata su parole d’ordine piu’ importanti e utili (su tutte il federalismo) si dedichi a questo, e a migliorarne i contenuti, che ne hanno un tremendo bisogno: e lasci stare il populismo stupido contro i musulmani, che anche elettoralmente mostra di funzionare assai meno che in passato, come ha dimostrato il caso milanese, dove l’argomento moschea e’ stato utilizzato a iosa, inutilmente. Anche l’elettorato ha capito che questo gridare ‘al lupo, al lupo’ contro i musulmani non ha niente a che vedere con la soluzione di qualche problema, meno che mai quello della sicurezza. Che se si vuole davvero la loro integrazione la via migliore non e’ demonizzarli, ma integrarli, appunto, garantendo uguali diritti e uguali doveri, come a tutti. Se ne ricordino anche i compagni di strada della Lega in queste battaglie, disposti a barattare il rispetto dei diritti fondamentali e anche il semplice buon senso, usandoli come merce di scambio per ottenere consenso altrove. Su questa strada non si va da nessuna parte. E si da’ un argomento in piu’ all’antipolitica, dando una prova provata che i politici, troppo spesso, stanno li’ a discutere di niente, e per niente. Niente di utile ai cittadini, almeno.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Diritto di culto e propaganda, in “Il Mattino”, 23 luglio 2011, pp. 1-15

Life with citizen Islam

Stefano Allievi says Islam has become a European fact despite its symbolic overload

timtimrose

Islam has become the second religion in Europe in terms of the number of followers, thus making Europe not an enemy, but an opportunity: it is the European part of the Muslim ummah. But, in recent years, European societies seems to consider Islam more a threat than an advantage. The problems European countries face is, then, to make these two tendencies meet, because both are true: the fact that millions of Muslims find in Europe a land of opportunity, and the fact that millions of Europeans, for good or bad reasons, fear Islam. Inevitably this process will pass through some kind of conflicts, some of which, particularly on symbolic terms, we have already seen in European societies, which shows that cultural conflicts are becoming the contemporary form of social conflict.

The Muslim presence in Europe constitutes, in fact, a dramatic cultural change for Western European societies, particularly for the countries that only a generation ago were still exporting labour force. Furthermore, considering the tumultuous history of relations between the Islamic world and Europe, especially across the Mediterranean, the presence of Islam in Europe represents a historic watershed. If in the past one could talk of Islam and the West, now, one can speak of Islam in the West, and eventually through the role of second and third generation of immigrants and converts, of an Islam of Europe, if not yet of a European Islam.

Islam is no longer a transitory phenomenon whose presence is only temporary and can eventually be sent back ‘home’. Nowadays, a population of about 20 million people that can be considered ‘culturally’ Muslim lives in western Europe, with no intention to go back. Among this population it is already difficult, now, and it will be even more difficult (and, in the end, a simple nonsense) in the future, to distinguish between the Muslims ‘of origin’, the ‘mixed’ populations, like the so-called second generations culturally grown up ‘between two cultures’, but also those coming from a situation of mixed marriage and the ‘autochthonous’ Muslims (which include the converts to Islam, but also naturalised people). This presence have to be considered, in perspective, the new Muslim population of Europe: European Muslims, not Muslims in Europe.

The future of this presence depends on many different factors and tendencies. But, what is absolutely clear is that between economic integration and political refusal, between tolerance and Islamophobia, between social mixing and mediatic hysteria and between demographic change and symbolic threats, Islam will find its place in Europe, because Muslims will do it too, and they are already doing it.

Minarets, mosques, but also veils and burqas, or other conflictual issues related to the presence of Islam in Europe (included on principles: from the Rushdie affair to the Danish cartoons controversy) will reveal at a certain point as being false problems. The real problem is greater than all this: it is the relationship of Europe with Islam, on one hand; and the relationship that the Muslims have with Europe and the West, on the other.

If the conflictual issues are the symptom, the illness is the Western imaginary of Islam, which, like the Islamic imaginary of the West, appears more conflictual in the recent past. If Europe wants to solve these conflicts, it has to pass through them, making the reasons of the sentiments and behaviours of significant parts of society, the fears that move them, the drives that they contain, emerge. And, Muslims in Europe need to enter into these discussions, even when put in unpleasant forms.

It will be necessary to discard the idea of Islamic ‘exceptionalism’, the presumption that Muslims are always different, that they need unique and peculiar instruments. The European approach must remain firmly anchored to the universalism that characterises the European juridical construction: to the principle that the law is the same for all, that rights are personal and inviolable, that it is not possible to do away with the principle of the universality of the law, which is at the foundation of the idea of the West, the justification of its history and its legitimate pride.

Reflection on these themes must leave the short term, the agitation of the present – a horizon that for the political entrepreneurs of fear rarely goes beyond the next elections – and enter in the perspective of the middle and long term, shifting from elections to generations. Because the new generations (second and third, and tomorrow fourth) of Muslims are already in Europe and are different from those that preceded them, from their immigrant fathers and mothers; but in the same way the new generations of Europeans are no longer people who have seen Muslims arrive from somewhere, but persons who have always been side by side with them from their birth: in the neighbourhood as at school or at work.

If policies and politics change rapidly, institutions are a guarantee of coherence and duration, or at least slower and more meditated change than that which drives social and political forces. And, despite everything, they are more solid than they seem: and, they work in the direction of integration, universalisation, the extension of rights and their consolidation, not in the direction of cultural opposition and social conflict. This process is also taking place on the religious level. There is a common religious grammar that ends up by comprehending and recognising the religious needs of others and their meaning: praying, also in the community, fasting, having clothing codes, an idea of modesty, specific gender and sexual roles, the sense of pure and impure… In this there is the possibility of obtaining recognition and building alliances, and constructing relations of trust and confidence. But, for this Muslims need also to understand that the idea of reciprocity, so often evoked off the point (as when a Moroccan immigrant group which wants to set up a prayer room is crushed by the reply that in Saudi Arabia you could never build a Christian church), has instead a profound and socially significant meaning, when it asks to mutually share the pain of an injustice, of a discrimination, of a religiously motivated act of violence, wherever it may take place, in Europe or in Muslim countries towards Christians or Jews.

Islam – rightly or wrongly (other diversities are often much more ‘other’) – has recently become the most extreme example of alterity and of the changes that alterity brings to European societies. These changes do not only come from Islam and Muslims. However, Islam, because of its symbolic overload and the problematic history that joins it to Europe, because of the striking and formidable aspect of some of its contemporary manifestations (among which obviously the emergence of transnational Islamic fundamentalism and terrorism), but also because of the significant statistical dimension of its presence, is inevitably at the centre of the political and social debate in Europe. And it will be there for a long time. As we have stated in the beginning, Islam has become the second religion, or the first of the non-Christian minorities, in all European countries. So, it will be impossible from now on to understand Europe without taking into consideration its Muslim component; but at the same time it will be impossible to understand Islam without taking into consideration its European and Western component. Islam has become a European fact and its internal component. And Europe an internal fact of Islam. It is not something that is going to happen in the future. It has already happened. We have to begin to understand its consequences.

Stefano Allievi is a professor of sociology at the University of Padua, Italy.

http://www.tehelka.com/story_main50.asp?filename=Ws200611Islam.asp

Referendum. Ha vinto la democrazia, hanno perso i partiti

Ha vinto la democrazia, hanno perso i partiti. La grande partecipazione ai referendum e il raggiungimento del quorum in tutti i quesiti, è uno straordinario segnale di ritorno della partecipazione civica, popolare, di massa. E sui contenuti, non sugli schieramenti ideologici.

Tutto era stato fatto perché questo non accadesse. I leader dei partiti di centro-destra, al governo in quanto presunta maggioranza nel paese, hanno invitato a non votare fino all’ultimo, violando persino l’obbligo di silenzio elettorale, pur di scongiurare l’ottenimento del quorum. La televisione pubblica e quella oligopolista privata tutto hanno fatto, ignominiosamente e servilmente, affinché non si parlasse né dei referendum in generale né, ancor meno, dei loro contenuti. Ma anche il centro-sinistra, dopo tutto, ha usato i referendum non per il loro contenuto, ma come modo per cercare di dare il colpo di grazia a Berlusconi: a costo di qualche contraddizione, laddove alcuni hanno invitato a votare per referendum che non avevano promosso o sostenuto, e altri hanno invitato a votare sì a referendum sui cui temi avevano presentato progetti di legge più simili nei contenuti alle leggi abrogate.

I partiti insomma hanno vissuto i referendum come voti pro o contro Berlusconi, a prescindere dai contenuti. La gente invece ha votato soprattutto su questi. E la prova migliore ne sono stati i milioni di elettori di centro-destra che sono andati a votare a dispetto delle indicazioni dei loro leader. E, ancora di più, quella percentuale di votanti, di centro-destra e di centro-sinistra – tra il 4 e il 6% a seconda del referendum – che è andata a votare per dire il suo ‘No’, pur sapendo che così facendo avrebbe aiutato i ‘Sì’ a vincere attraverso il raggiungimento del quorum. Persone, insomma, che hanno voluto entrare nel merito dei contenuti; e che pensano che manifestare la propria opinione in un dibattito civico, anche sapendo di perdere, è più giusto e più democratico che rifiutarsi di manifestarla e non partecipare. La stessa diversità di percentuali ottenute nei diversi referendum è un segnale che si è voluto riflettere sui contenuti, e non dare un voto solo di schieramento, a prescindere.

Tutto questo è un bel segnale di recupero per la democrazia italiana. Anche quella interna ai partiti, tragicamente assente in questi anni, soprattutto nel centro-destra. E’ qui, infatti, nei due partiti più cesaristi del panorama politico italiano – nel Pdl in cui decide tutto Berlusconi, avendo a libro paga i parlamentari vecchi e acquisiti, e nella Lega in cui la frase più ripetuta, quando c’è da decidere qualcosa, è “deciderà Bossi” – che si sono viste le divergenze più nette. I due capi sono stati sonoramente smentiti dai loro stessi elettori (significativo il fatto che in molte zone dove sono al governo con le percentuali più alte, il quorum raggiunto è stato anch’esso più alto), e una fronda di dirigenti di vario livello che per la prima volta si è fatta sentire in maniera visibile, ma anche e soprattutto di iscritti, di simpatizzanti e di elettori, ha votato diversamente dalla volontà dei capi. Anche questo un bel segnale di maturazione dello stesso centro-destra e dei partiti che lo compongono. Che non può che essere un bel segnale per la democrazia tutta.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Referendum. Ha vinto la democrazia, hanno perso i partiti, in “Il Mattino”, 15 giugno 2011, EDITORIALE p.15 (ANCHE, in “Il Piccolo”, p. 1)

L’era digitale e il libro del mondo

Un Festival della Comunicazione è occasione per riflettere su molte cose. A cominciare dai mezzi attraverso cui ci rapportiamo con il mondo.

Per la mia generazione, quelli di mezzo secolo o più, la lettura è stata un dato di scoperta e di apertura al mondo indispensabile. Certo, siamo stati anche la generazione che ha scoperto o ritrovato la soggettività individuale e collettiva, il diritto ai diritti, l’importanza delle relazioni costruite nell’impegno politico e sociale. Ma poi, alla fine, era la lettura che sostanziava anche queste esperienze, e ne costituiva il tramite. Più o meno come chi, salito sul treno, fa l’esperienza del viaggio, e guarda dal finestrino; poi, apre un libro, si immerge nella sua lettura, aprendo una diversa finestra sul mondo, facendo un altro viaggio.

Per chi oggi ha meno di vent’anni, per i nativi digitali, la lettura è competenza accessoria, nella sua modalità tradizionale. La modalità standard per accedere ad altri mondi non è aprire un libro; è accendere il computer, navigare su google e collegarsi ai social network. Da qui si passa a leggere (i messaggi altrui, i link a cui ci rimandano), ma anche vedere e sentire (magari via you tube), attraverso un’esperienza sensorialmente più avvincente, coinvolgente e convincente. Talvolta il rinvio è a un libro, o a una sua citazione, incrociata tangenzialmente, attraverso i meccanismi dell’ipertesto e dei link. Detto questo, si leggono anche libri, anche se meno di noi che non avevamo questi altri media a disposizione.

Le forme digitali di accesso al mondo della conoscenza hanno tuttavia qualcosa in comune con la forma letteraria del romanzo: il recupero della dimensione narrativa della vita, la scoperta del bisogno di raccontare e raccontarsi. Nei media digitali e nei social networks ci si apre maggiormente all’esperienza e all’interazione. Che diventa, per l’appunto, un diverso modo di leggere il mondo.

Come noto, l’invenzione di ogni nuovo medium e di ogni nuova tecnica conoscitiva, che per gli apocalittici è sempre stato il preludio alla scomparsa delle precedenti, nella maggior parte dei casi ha portato alla loro somma e quindi a un pluralismo sempre maggiore dei media, non alla loro sostituzione. Il giornale non ha ucciso il libro, la radio non ha ucciso il giornale, la televisione non ha ucciso la radio, il computer non ha sostituito nessuno dei precedenti, cominciando semmai a incorporarli. Libro incluso. L’ultima invenzione è infatti quella che ci consente di leggere i libri in formato elettronico, ma in maniera portatile, proprio come un libro: stoccandone in tasca, con un ingombro minimo, quanti vogliamo, e a un costo ridotto. E oltre tutto ogni sottolineatura elettronica o commento a margine rimane in memoria per sempre. Questo non fa di noi dei sapienti, se questo sapere non è introiettato e ruminato a lungo, ma degli utilizzatori più leggeri e felici sì.

Non ha senso quindi piangere, peraltro prematuramente, la scomparsa del leggere come noi l’abbiamo conosciuto. Ci sono altri modi di leggere il libro del mondo. Che possono aiutarci, oltre tutto, a leggere meglio i libri sul mondo.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), L’era digitale e il libro del mondo, in “Il Mattino”, 3 giugno 2011, pp. 1-21

Voto, niente sarà più come prima

Le elezioni amministrative, in Italia, hanno sempre assunto una certa valenza politica. Ma oggi il loro segnale è enormemente maggiore: esse hanno intercettato e sancito un cambio radicale di sistema, una svolta politica di cui misureremo i clamorosi effetti nei prossimi mesi. Niente sarà più come prima.

E’ l’inizio della fine dell’era berlusconiana. La sua agonia potrà forse essere lunga, i colpi di coda anche pericolosi, i rischi delle sue derive anche più grotteschi di quanto abbiamo visto finora, i comportamenti persino più eccentrici perché più disperati, ma il suo destino è segnato. Un’intera epoca storica che, nel bene e nel male, ha segnato questo Paese in maniera radicale, nella sua psicologia profonda, nella sua cultura e nella sua antropologia, prima ancora che nella politica e nell’economia, comincia a finire. E lo sa. I segnali saranno clamorosi. Beghe di cortile e di vicinato, lotte di cortigiani alla ricerca dell’investitura del principe, sordide congiure, tutto è possibile, tutto forse accadrà, ma il segnale più evidente della fine di un regime lo darà la fuga dei topi dalla nave che affonda, di cui già si intravedono i segni, anche se per ora la chiglia è solo incrinata. Ma i topi lo sanno d’istinto quando è il momento di abbandonare anche il più ricco dei galeoni…

E’ l’inizio della fine, però, anche dell’opposizione così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora. Con uomini nuovi, e ricomposizioni radicali al centro come e soprattutto a sinistra. Chi ha vinto non sono i rappresentanti dei partiti tradizionali. Anche qui è cambiato tutto. E i partiti che il centro-sinistra rappresentano non potranno fare finta di non accorgersene, pena la loro progressiva irrilevanza, ma anche il non consentire al Paese di approfittare di un’occasione storica. Il segnale più forte del cambiamento l’hanno dato infatti i ballottaggi di Milano e Napoli, dove hanno vinto candidati che si sono imposti da soli, anche contro o meglio al di là delle sigle di partito come oggi le conosciamo, a dispetto di tutto e di tutti. Un segnale di cui non si potrà non tener conto. L’opposizione ha oggi di fronte la sfida più difficile, e a cui sembra meno pronta: quella di dare risposte originali a una sfida del tutto nuova, anziché continuare a proporre uomini e simboli di ieri per risolvere i problemi di oggi e di domani. Dai ballottaggi arriva un segnale che questo è possibile, ma solo a condizione di scompaginare le logiche finora imperanti, e una ventata di energia. All’opposizione, oggi, sta la responsabilità di non farne l’ennesima occasione sprecata.

Stefano Allievi

Allievi S. (2011), Voto, niente sarà più come prima, in “Il Mattino”, 1 giugno 2011, p. 15

Paesi Arabi, un processo di trasformazione che va assecondato

http://www.liberolibro.it/intervista-a-stefano-allievi/
A cura di Nuccio Franco
Paesi Arabi, “un processo di trasformazione che va assecondato”
“Il risveglio della dignità araba è un processo che va assecondato onde evitare di vanificare un’esperienza straordinaria che potrebbe rappresentare una pacificazione reale per almeno un ciclo storico”. E’ questo il giudizio del Prof. Stefano Allievi, sociologo delle religioni, docente presso l’Università di Padova e studioso di Islam che da oltre 25 anni si occupa delle Comunità musulmane in Occidente.Co-fondatore di Eurislam, presso l’Ateneo di Strasburgo, Allievi è autore di numerose pubblicazioni tra cui “I nuovi musulmani” , accurata analisi del ritorno all’Islam, “I musulmani e la società italiana” ed il recente “La guerra delle moschee” attraverso le quali ha fornito il proprio contributo alla comprensione ed al dialogo interconfessionale. “Lo scontro di civiltà è stata una metafora di successo che per molti anni è stata anche una profezia che si è auto realizzata” sostiene Allievi convinto si tratti di una “fase transitoria verso nuovi equilibri”.
Professore, la morte di Osama Bin Laden è certamente un duro colpo alla rete di Al Qaeda. Cambia qualcosa sullo scenario del fondamentalismo islamico internazionale o si corre il rischio di assistere a reazioni a catena come sostenuto dalla maggior parte degli analisti?
Non voglio fare la Cassandra di turno, ma è verosimile che potranno esserci colpi di coda, vendette ed altri attentati. Ciò che è certo è che la morte di Bin Laden è uno degli avvenimenti degli ultimi anni che danno un colpo di grazia al paradigma dello scontro di civiltà. Due sono gli eventi principali del nuovo corso: il discorso di Obama e l’uccisione del capo di Al Qaeda. Entrambi ribaltano e rendono meno vivo il paradigma. Sono venuti a mancare i contendenti ed i presupposti di una certa politica, ossia Bush da una parte ed Osama dall’altra che non si giustificano più vicendevolmente. Insieme alla Primavera araba sono tra le buone notizie degli ultimi mesi che ci consentono di voltare pagina a prescindere dal fatto che qualcuno l’avesse previsto o voluto. E’ accaduto e questo è straordinario.
Qual è il futuro dei rapporti tra Occidente ed Islam e quali le prospettive concrete del fronte islamico-liberale del quale le rivolte in atto rappresentano un’espressione?
Potrà esserci un nuovo terrorismo così come un nuovo imperialismo, questo non è dato saperlo, però sicuramente le inerzie interpretative utilizzate nell’ultimo decennio vedono in qualche modo caduti i loro alfieri. Questo cambia davvero lo scenario. Quanto alle prospettive future di questo movimento, credo che tutto dipenderà da quanto e come l’Occidente saprà e vorrà accompagnare questo cambiamento. Le democrazie arabe sono state capaci di chiudere un ciclo che è imploso grazie all’iniziativa ed alla saturazione di popolazioni vissute sotto dittature mascherate. Il popolo ha fatto la sua parte; l’Occidente, l’Europa e l’Italia in particolare sono stati gli ultimi ad accorgersi e ad accettare il cambiamento. Ora dovranno avere l’intelligenza di accompagnare la trasformazione di questi paesi fornendo un sostegno vero dal punto di vista politico, sociale ed economico. Se non si fa questo, il rischio è di buttare un patrimonio straordinario che potrebbe rappresentare una pacificazione reale per almeno un ciclo storico soprattutto nel Mediterraneo. Personalmente, questi segnali di intelligenza politica dell’Europa stento a vederli soprattutto con riferimento alle questioni sociali ed ai rapporti con le nuove elite. Se ci saranno cambierà tutto, altrimenti avremo una parte di responsabilità nel fallimento di questo processo.
L’ondata di protesta che ha sconvolto il Maghreb ed il Medio Oriente, non era ipotizzabile fino a qualche mese fa. Almeno non in questi termini. In che modo i movimenti estremisti potrebbero condizionarlo?
Innanzitutto bisogna chiarirsi su cosa intendiamo per estremisti. Certamente i gruppi radicali e filo-terroristi potranno infastidire il processo con qualche attentato, che sortirebbe l’effetto di spaventare l’Europa più di quanto non lo sia già, spingendola a ritirarsi dall’area anziché accompagnare il cambiamento. Detto questo, non vedo segnali in tal senso, perché se per estremisti si intendono i partiti religiosi, e i Fratelli Musulmani, credo che essi rappresentino un interlocutore imprescindibile, anzi decisivo ed utile per la trasformazione di questi paesi. Sono anche loro interessati al cambiamento. Certo, qualche attentato potrebbe essere realizzato e creare dei problemi, com’è ovvio che sia, ma la tendenza va in direzione opposta. La morte di Bin Laden ha sottratto linfa a quella frangia di consenso popolare che ha perso il suo eroe e non ha altre carte da giocare.
Professore, si fa un gran parlare dell’Islam moderato. Per molti si tratta di un ossimoro, di un’invenzione giornalistica. Qual è la sua opinione?
Per la maggioranza dei media italiani, l’Islam moderato è rappresentato dal non musulmano, dalla donna che non si vela, dall’uomo che non va in moschea, che non ha la barba e indossa la cravatta. Ciò rappresenta un paradigma interpretativo che certamente non aiuta la comprensione. A mio avviso, si tratta di sciocchezze a volte anche volute, in quanto c’è chi ha fatto di tutto per propagandare la visione che l’Islam moderato è quello non praticante. Se invece per moderato si intende chi ha determinate opinioni politiche, credo che l’Islam turco, governativo, e molti altri, siano assolutamente moderati. In questo senso anche la maggior parte dei Fratelli Musulmani possono essere definiti moderati. E così altri movimenti spesso interpretati dai media (italiani, molto meno statunitensi ad esempio) come radicali. In questo caso, moderato sta a significare moderatamente progressista o conservatore. In questo senso è legittimo utilizzare tale categoria.
Lo scontro di civiltà è davvero inevitabile o si tratta di un grande equivoco alimentato da un difetto di comunicazione?
Lo scontro di civiltà è stata una metafora di successo che per molti anni è stata anche una profezia che si auto realizza. Se questo si crede, questo si persegue; se questo risulta da una certa analisi, è questo ciò che viene perseguito da alcune amministrazioni capaci di modificare i destini del mondo. E’stata la chiave interpretativa della politica di Bush e del radicalismo islamico estremizzato dal qaedismo. Tuttavia oggi da molte parti, non ci si crede più. Del resto, una profezia che si auto realizza non è il risultato di un’analisi. I conflitti ci sono non perché ci sono dei confini che bruciano tra occidente ed Islam, i “conflitti di faglia” di cui parlava Huntington, ma al contrario perché ci sono sempre più interrelazioni, che possono portare tanto pacificazione e creazione di nuovi legami quanto conflitti, talvolta come semplice fase transitoria verso un nuovo equilibrio.
Nuccio Franco