Basta collateralismi. La Chiesa italiana rinuncia all'ingerenza elettorale: e la condanna

“Spero di non essere costretto, e soprattutto spero che non siano costretti i nostri fedeli, ad assistere al mortificante spettacolo di vecchi e sospetti collateralismi con candidati, con partiti o movimenti politici. È bene che sappiamo, una volta per tutte, che chiunque vede il vescovo o un sacerdote impegnarsi nell’orientare o influenzare il voto, ipotizza una sola cosa: l’interesse personale o la ricerca di favoritismi di varia natura”. Continua a leggere

Polizia, violenza, applausi: sul caso Aldrovandi

Gli applausi del Sindacato Autonomo di Polizia agli agenti condannati per il caso Aldrovandi (il pestaggio a morte di un giovane studente ferrarese, che li ha portati alla condanna per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi) è stato giustamente stigmatizzato, e ha colpito molto l’opinione pubblica e le istituzioni: a cominciare dal capo dello stato Napolitano e dal presidente del consiglio Renzi, che si sono premurati di solidarizzare con la famiglia. Continua a leggere

La carica alla carica: vizi e virtù della partecipazione alla politica

“Tutti i gusti più uno”. Come le straordinarie caramelle di Harry Potter. Capaci di dare a ciascuno l’illusione di trovare e assaporare il proprio gusto preferito: più uno, appunto. Continua a leggere

Europee senza l'Europa

Ci risiamo. Tra poco votiamo per le elezioni europee: e ancora una volta di tutto si parla fuorché di Europa. Molto politicismo: come sono state composte le liste elettorali, chi c’è e chi non c’è, chi vincerà. E pochi contenuti: per fare che cosa, con quali obiettivi, e quali strategie per raggiungerli. Un vuoto di dimensione continentale. Continua a leggere

Fecondazione: fine dell'approccio ideologico

La corte costituzionale agisce ancora una volta come una sorta di legislatore occulto: quello che, per suo ruolo, è riuscito a cancellare alcune delle peggiori derive ideologiche prodotte dal legislatore nella storia recente del paese. E’ accaduto tra l’altro con la riforma elettorale, con il ripristino delle differenze tra droghe pesanti e droghe leggere, e ora con la fecondazione eterologa. Continua a leggere

Pragmatica della non riforma

Il dibattito sulla riforma del senato, come già quello sulla riforma elettorale, presenta delle dinamiche tipiche dell’attività o dell’inattività politica italiana. Continua a leggere

Renzi, la generazione Obama e la questione generazionale

Nello scambio di cortesie tra Obama e Renzi è presente anche una questione generazionale più profonda, che tocca anche i ventenni e i trentenni di oggi. Obama ha riconosciuto il piglio giovanilista di Renzi, salutandolo con un gioviale “ciao Matteo”, valutando positivamente la nuova generazione di leader al potere in Italia, attribuendo al premier italiano “lot of energy” e la capacità di portare il paese al cambiamento. Renzi, con evidente entusiasmo ed emozione effettivamente giovanile, ha confessato di appartenere a “quella nuova generazione democrat (ma non solo, aggiungiamo) cresciuta negli anni della tua avventura politica”: la generazione che ha creduto possibile portare al potere non la fantasia, come si immaginava negli anni ’70, ma almeno un po’ di freschezza, una nuova cultura delle riforme, un diverso uso del potere e soprattutto la possibilità reale di accedere ad esso per cambiare le cose. Come testimoniato proprio dalla parabola di Obama, il giovane avvocato nato nelle periferiche Hawaii, figlio di una coppia mista, con un padre africano, arrivato ancora giovane alla Presidenza degli Stati Uniti, primo inquilino di colore alla Casa Bianca: una perfetta incarnazione tanto del sogno americano del self made man che di un ricambio generazionale atteso anche altrove, e più forte che ovunque in quel gerontoluogo che è tuttora l’Italia.

C’entra, tutto questo, con la situazione dei giovani di oggi, con le loro fantasie e le loro aspirazioni? Sì e no. La generazione Obama (quella che ha visto la sua ascesa da lontano, ancora adolescente, magari), quella che Renzi chiama spesso la generazione Erasmus, perché figlia anche degli scambi, della mobilità, della connessione, della globalizzazione, si trova in una situazione assai ambivalente. Vive tra la realizzazione precoce di molti sogni (quelli legati al consumo, per chi può, l’emancipazione digitale, quella del corpo, magari) e la difficoltà di realizzazione, e forse anche di immaginazione, di altre fantasie, di più lungo periodo. Tra l’invenzione di start up di successo e l’umiliazione della sottoccupazione e dei McJobs. Tra il successo esponenziale di alcuni e l’affanno di troppi, che produce un accrescersi vistoso della forbice delle diseguaglianze: anche tra generazioni garantite e generazioni che non lo sono più. Tra la capacità di alcuni di cogliere nel dinamismo globale l’opportunità di liberare energie e farle fruttare, e l’instabilità senza prospettive di altri, tra una partita Iva impoverita e un precariato diffuso, entrambi sconosciuti a sindacati e altri attori sociali collettivi, che magari pretendono di parlare in loro nome. Sospesi tra una generazione di adulti che ha desiderato di esserlo il meno possibile, praticando una obliqua gioventù perenne, anche nella propria irresponsabilità, e la difficoltà pratica di diventare pienamente adulti a loro volta, anche nella paternità e nella maternità. Figli del paese più vecchio del mondo, dopo il Giappone: e quindi presi tra l’incudine di risorse scarse e un lavoro che non c’è e il martello del rischio di dover mantenere una valanga di adulti che hanno privilegi che loro, i giovani, non potranno neanche sognarsi. Prigionieri di una scuola che non è più fabbrica del consenso, ma è diventata troppo spesso fabbrica del nonsenso: inutile per la produzione e incerta sulla trasmissione di un nuovo sapere. Intrappolati, dopo la scuola, in una decade dell’inutilità, in cui spende gli anni e le energie migliori tra uno stage e un lavoro temporaneo, un apprendistato o un corso tanto per occupare il tempo, senza la certezza di essere traghettata in un universo, se non della stabilità, ormai scomparsa, di una ragionevole certezza che le proprie energie saranno utili e utilizzate. Infine, umiliata dal confronto con paesi dove essere giovani non è una condanna e il talento può essere giocato e vincere, e costretti a nuova emigrazione – intellettuale e di energie disponibili – che li sta coinvolgendo a ritmi sempre crescenti in percorsi che non prevedono il ritorno.

Ecco, la generazione Obama, che Renzi incarna con successo, deve riuscire a parlare con atti concreti a questa generazione di giovani italiani, se vuole risultare credibile. La loro semplice presenza è già un passo avanti, almeno simbolico. Adesso si attende non la presa in carico dei loro problemi, ma l’apertura alle loro potenzialità e alle loro migliori energie.

Scommettere sul futuro dei giovani, in “Messaggero Veneto”, 1 aprile 2014, p.1

Non basta essere giovani, bisogna agire, in “Mattino” Padova, “Tribuna” Treviso, “Nuova” Venezia, “Corriere delle Alpi”, 1 aprile 2014, p.1

Rottamare i tecnocrati dell'Europa?

Gli atteggiamenti prevalenti della politica italiana nei confronti dell’Europa oscillano da sempre tra il consenso disinformato e lo scetticismo ideologico: con un progressivo prevalere del secondo sul primo.

Da sempre siamo stati un paese e un popolo di euroentusiasti. I padri dell’Europa – grandi politici democristiani come Adenauer, Schuman, De Gasperi – avevano ben chiaro che cosa volevano, e soprattutto da quale situazione volevano uscire: il disastro della seconda guerra mondiale e dei totalitarismi europei bruciava ancora, e da solo delineava un’orizzonte da percorrere. Non a caso l’Italia è stata tra i promotori più convinti dell’allora Mercato Europeo Comune, i cui Trattati sono stati firmati a Roma. Grandi visionari come Altiero Spinelli, che l’Europa la immaginavano dal confino nell’isola di Ventotene, furono capaci di seminare il germe di un’idea che avrebbe attecchito col tempo anche in una sinistra molto tiepida, che riuscì a farsi perdonare l’iniziale diffidenza – e l’espulsione di Spinelli dal Partito Comunista fin dal 1937, per il suo antistalinismo, precondizione del suo europeismo – eleggendolo tardivamente come indipendente del PCI alla Camera e poi nel primo Parlamento europeo. E da sempre gli italiani hanno avuto una percentuale di votanti alle elezioni europee tra le più alte d’Europa, spesso incomprensibile. Tanto più che l’Europa è sempre stata considerata dai partiti un’entità di sostanziale irrilevanza: non a caso, lungi dal mandarci i loro uomini migliori, hanno sempre considerato il parlamento europeo una lussuosa discarica di trombati e di nullità incompetenti, che dall’esperienza europea non hanno imparato e riportato nulla. Persino quando, con Prodi, l’Italia ebbe l’onore della presidenza della Commissione europea, essa fu considerata da molti – dal D’Alema che dell’operazione fu il regista allo stesso diretto interessato – una specie di nobile esilio che tenesse lontano un incomodo protagonista: più politica interna, insomma, che lungimirante politica estera.

Ora le parti si sono invertite, e i ruoli diversificati. Ora che i partiti stanno finalmente capendo che l’Europa è davvero importante, sono le pubbliche opinioni, gli elettori, che se ne allontanano. Votando sempre meno alle elezioni europee, e votando sempre più per i partiti anti-europeisti: un club guidato in Italia dal Movimento 5 Stelle, ma che include anche la Lega e numerosi pezzi di opinione euroscettici, particolarmente rilevanti all’interno del centro-destra. Colpa anche, forse soprattutto, di un’Europa percepita a ragione come lontana e distante, stizzosamente tecnocratica e politicamente incapace di sognare il suo stesso sogno: attenta agli interessi finanziari e alle compatibilità macroeconomiche, ma molto meno alla vita delle persone e al benessere reale dei paesi, come ha mostrato trasparentemente la tragedia in cui è stata fatta cadere la Grecia.

L’Italia, che nei fatti ha praticato l’inosservanza sistematica delle norme europee più stringenti e l’incapacità di goderne i benefici e le opportunità, sul piano politico, in tempi recenti, ha espresso un’adesione quasi ragionieristica e sostanzialmente acritica a politiche e parametri spesso insensati, parlando, con il tecnico Monti e il quasi tecnico Letta, lo stesso linguaggio dei tecnocrati europei. Dall’altra parte ci sono gli anti-europeisti ideologici, che rischiano di portarci fuori dall’euro senza cognizione di causa e senza ragione. In questo paesaggio fa benissimo Matteo Renzi, che ha sempre rivendicato una forte vocazione europeista come ragione fondamentale della sua politica, a porre qualche condizione, chiedendo all’Europa di ripensarsi, se vuole sopravvivere come esperienza politica e non solo come dato macroeconomico. Solo che rottamare l’Europa tecnocratica – quella del rispetto di numeri e cifre astratte e casuali (oggi sappiamo come il famoso parametro del 3% nel rapporto tra deficit e Pil sia stato inventato per ragioni contingenti e non abbia alcuna base scientifica) – sarà più difficile del previsto, come si è visto già dalle prime reazioni: perché si tratta di un potere autoreferenziale, che soffre di un deficit di democrazia, non avendo alcuna diretta legittimazione popolare. Difficile, quindi, da scardinare dal basso.

Rottamare i tecnocrati dell’Europa, in “Piccolo” Trieste, 22 marzo 2014, p.1

E’ difficile rottamare l’Europa, in “Mattino” Padova, “Tribuna” Treviso, “Nuova” Venezia, “Corriere delle Alpi”, 23 marzo 2014, p.1

Droghe leggere: una svolta culturale?

La scelta del governo Renzi di non impugnare la legge della regione Abruzzo sull’uso della cannabis per fini terapeutici (come aveva invece fatto il governo Monti con la precedente legge regionale del Veneto, ad esempio), costituisce – insieme alla recentissima sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale e annullato la legge Fini-Giovanardi, nella parte che equipara le droghe leggere alle droghe pesanti – una significativa rivoluzione culturale.

Entrambi i provvedimenti vanno infatti nella direzione dell’apertura e della depenalizzazione. Della prima decisione beneficeranno i malati, soprattutto cronici, che non dovranno essere più costretti a imbarazzanti e costosi sotterfugi e a un’illiceità sostanziale. Della necessaria riforma che la Consulta impone, beneficeremo invece tutti quanti. La legge Fini-Giovanardi, infatti, ha avuto per effetto di criminalizzare un comportamento e una generazione, di fatto trasformando il possesso e lo spaccio di piccole quantità di droghe leggere ad un crimine penale grave, che ha portato in carcere decine di migliaia di giovani, rovinandoli assai più di quanto avrebbe potuto fare la droga stessa, intasando i tribunali – in un paese dalla giustizia cronicamente lenta – di processi inutili, e occupando una percentuale cospicua di posti nelle carceri, rendendole invivibili e portando l’Italia sul banco degli imputati della Corte Europea, al prezzo di costose sanzioni e di un’inciviltà giuridica sostanziale.

Non c’è dubbio che il consumo di droghe, leggere o pesanti che siano, sia un comportamento da combattere. Le dipendenze, tutte, incluse quelle legali – dal tabacco, all’alcol al gioco d’azzardo, che hanno spesso costi ed effetti più gravi, anche se non sono considerate reato e producono buoni ritorni nelle casse dello stato – sono moralmente problematiche e socialmente costose. Ma non c’è dubbio nemmeno che punire chi spaccia marijuana o hashish con una pena da sei a venti anni (mentre prima, per le droghe leggere, era fino a sei anni) sia un’offesa al buon senso prima ancora che alla giustizia. Si calcolano intorno ai diecimila i detenuti che potrebbero beneficiare della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, nel senso indicato dalla Corte: un provvedimento che, da solo, svuoterebbe le carceri più di qualunque indulto, e con maggiore sensatezza, visto che il 40% dei detenuti e la metà degli stranieri sono in carcere per reati legati alla droga, e oltre il 20% dei detenuti è tossicodipendente, e potrebbe verosimilmente curarsi meglio altrove.

La Fini-Giovanardi, del resto, approvata nel 2006, andava in controtendenza con le riflessioni avviate a livello di Nazioni Unite, sull’inefficacia delle politiche di mera repressione, e con le legislazioni introdotte da vari paesi: indirizzatesi verso una depenalizzazione sostanziale di quanto gira intorno al consumo di droghe leggere, e sperimentando talvolta forme di legalizzazione. Si rende quindi necessario un ripensamento della normativa, e più in generale delle politiche sulle droghe, della penalizzazione e della detenzione come rimedio ai danni che provocano, sia in termini di efficacia individuale e sociale, che come strumento di lotta al crimine organizzato: coinvolgendo la pubblica opinione, poiché è un tema molto sentito dagli individui e dalle famiglie, prima ancora che dalle istituzioni. In maniera laica, senza crociate culturali, nell’uno e nell’altro senso: pensando a un’idea alta di giustizia, e anche di società, di comportamenti accettabili o meno. Non si può tuttavia evitare un bilancio dell’attuale impianto legislativo e culturale, pesato su troppi ragazzi: minacciati gravemente per un ‘reato senza vittime’ che nella consapevolezza dei più è inesistente, sottoposti talvolta all’inutile pesantezza della legge e dei suoi esecutori (che avrebbero potuto essere impiegati più utilmente in altro modo, con maggiore beneficio per la sicurezza pubblica), troppo spesso finiti in carcere, e qualche volta finiti peggio, per un comportamento deviante certamente minore (in un paese che legalizza l’azzardo e penalizza molto meno tutti i reati fiscali, ad esempio), producendo una visione iniqua della giustizia, e il sospetto gravissimo di adottare, in materia penale, due pesi e due misure. Partire dall’uso della cannabis per fini terapeutici può essere un modo soft di aprire un dibattito non più procrastinabile.

La svolta di Renzi sulle droghe, in “Messaggero veneto”, 11 marzo 2014, p. 1

Cannabis: i benefici per tutti, in “Mattino” Padova, “Tribuna” Treviso, “Nuova” Venezia, “Corriere delle Alpi”, 12 marzo 2013, p.1

Politica, simboli, mutamento

Il governo Renzi nasce male, nelle sue forme: congiura di palazzo, scelta dei ministri e dei sottosegretari con troppe conferme e troppi compromessi con gli alleati. Nasce tuttavia con aspettative forti e promesse altisonanti, fondate essenzialmente sull’uomo che lo guida, sulla promessa quasi palingenetica che lo accompagna. Continua a leggere