Non è questione di "quote rosa"…

Non è questione di “quote rosa”. Anzi, per favore, aboliamo l’espressione, ormai francamente insopportabile oltre che inconsapevolmente sessista – e datata (a parte il fiocco alla nascita, che non è scelta loro, davvero il rosa caratterizza ancora l’immaginario femminile?). Continua a leggere

Il mestiere difficile. Ripensare la scuola, tra perdita del monopolio educativo e complessità sociale

Maestri e maestre che maltrattano bambini. E maestri e maestre maltrattati dai genitori dei loro alunni. Professori che insultano. E professori insultati. Docenti che sospendono i ragazzi. E docenti che sono sospesi dall’insegnamento.
Niente è veramente nuovo. Ma tutto oggi ci colpisce di più. Perché tutto viene subito mediatizzato. E che si tratti di telecamere messe di nascosto dagli investigatori nel caso di indagini, o di studenti che girano video all’interno della classe, tutto finisce immancabilmente nel tritacarne della comunicazione e dei social network.
Nessuno più ricorda che maestro, da magister, che a sua volta deriva da magis, evoca una qualità, un “più” (curiosamente, a contrario del ministro, che evoca un “minus”). O che l’insegnante è colui che lascia, o dovrebbe lasciare, un signus, si auspica positivo, nei suoi studenti. Il ruolo – è un lamento antico – è scaduto di prestigio, di considerazione sociale e, comparativamente, di livello salariale (cose che, in una civiltà che misura tutto sulla quantità di denaro ricavata da una attività, vanno necessariamente insieme). Ma soprattutto, sembra di aver perso di attrattiva agli occhi degli stessi insegnanti. Sempre più demotivati: loro, come i loro studenti. Sempre più annoiati: loro, come i loro studenti. E sempre più impreparati (loro, come i loro studenti) a vivere in una società complessa, plurale, che vive in una condizione di mutamento continua e accelerata. Ragione per cui le cose non posso rimanere le stesse: e le istituzioni – incluse le istituzioni formative – nemmeno.
La scuola è sottoposta a una duplice pressione. Da un lato le famiglie – a loro volta sempre più in difficoltà, per le stesse ragioni, nello svolgere il loro compito di agenzia educativa primaria – scaricano su di essa una parte sempre più ampia di compiti educativi, incluse le competenze di base, l’abc del saper stare in società, in relazione. Dall’altro si avvia essa stessa a diventare una agenzia educativa tra le altre, perdendo il suo sostanziale monopolio e l’autorevolezza ad esso correlato (e la cosa è più visibile man mano che si sale di complessità, verso l’insegnamento superiore e universitario). E sempre più è sottoposta alla concorrenza di altri saperi e di diverse modalità di acquisirli: si pensi alla pervasività, alla capacità di penetrazione e all’efficacia dei nuovi media, a cominciare da quel “professor Google” grazie al quale tutti si sentono in diritto di considerarsi onniscienti, preparati, e soprattutto alla pari rispetto a chi esercita il ruolo docente (che, nel frattempo, non essendosi accorto che in sempre più campi è davvero così, e in fondo non ci sarebbe niente di male – perché la scuola dovrebbe insegnare altro, non nozioni che saranno rapidissimamente superate – si ritrova spiazzato).
Bisognerebbe ripensarla in profondità, la scuola. E in varie parti del mondo lo si sta effettivamente facendo. E’ infatti inevitabile che essa perda la centralità assoluta e la pretesa di unicità e universalità che ha avuto in passato (l’Italia l’ha fatta la scuola pubblica, e molto dopo la televisione, non altro). Ma non perderà tuttavia la sua funzione: anzi. Il compito di educare, di e-ducere, di portare verso qualcosa, di guidare verso altri traguardi, sarà sempre più necessario, man mano che aumenta la complessità sociale e dunque la necessità di fornire linee interpretative, di ricondurre a intelligibilità una realtà magmatica. Ma si potrà fare solo ritornando all’idea originaria di scholè: una attività preziosa e fondamentale di otium, di pensiero libero, di studio, di educazione al ragionamento, da sottrarre alla dittatura del neg-otium, del lavoro di tutti i giorni. Un libero e piacevole – ma indispensabile e dunque garantito e privilegiato dalla società – uso delle proprie capacità e dei propri talenti in modo da metterli davvero a servizio di una casa comune che ne avrà sempre più bisogno. Non per vivere, o sopravvivere: ma per vivere bene. Dando un senso all’esistenza, indipendentemente da ogni bisogno e scopo pratico.
La libertà che salva la scuola, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 20 maggio 2019, editoriale, p.1

Si possono selezionare gli immigrati? La linea di Trump

Può uno stato scegliersi i suoi immigrati? E’ il quesito che sottende la scelta di Trump di cambiare le leggi sull’immigrazione. Continua a leggere

Senza distinzioni di genere

Senza distinzioni di genere

7 Maggio 2019

di Stefano Allievi. Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

A parte le ovvie differenze biologiche, nel mondo di oggi persistono distinzioni di genere, che riguardano diritti e doveri di maschi e femmine. Ma come sarebbe il mondo se… Continua a leggere

Primo maggio: ieri e oggi. Domani?

Le manifestazioni del Primo Maggio ho cominciato a frequentarle da studente: erano un atto politico tra tanti, per chi si sentiva più o meno impegnato. Nella prima metà degli anni ’80 – e per quasi una decina d’anni – sono diventate anche parte del mio lavoro: facevo, allora, l’operatore sindacale a Milano, e contribuivo alla loro organizzazione. Era ancora un’epoca di grande partecipazione: si respirava l’orgoglio operaio (testimoniato dalla fierezza e la numerosità delle delegazioni delle fabbriche), l’importanza di contarsi e la dignità attribuita al momento; si utilizzava l’occasione per fare il punto sulle relazioni industriali e la situazione politica, con un intento pedagogico (testimoniato dai torrenziali comizi dei leader sindacali e di altri esponenti del mondo della cultura e della politica); e si viveva il clima di festa, che terminava spesso con una mangiata con gli amici e lunghe camminate per tornare a casa in assenza di mezzi pubblici. Il mondo cattolico partecipava anch’esso: l’allora cardinal Martini, in quella che era la festa di San Giuseppe lavoratore, per rispetto della festa sindacale e per non diminuire la partecipazione dei lavoratori cristiani alle manifestazioni, organizzava delle veglie di meditazione la sera del 30 aprile, anch’esse molto partecipate. Continua a leggere

Le polemiche inutili (e i veri problemi) sul 25 aprile

Quella sul 25 aprile è una polemica fastidiosa e stucchevole: come quasi tutte le polemiche che dividono per principio – e non sul merito – maggioranza e opposizione (e pure la maggioranza al suo interno, come tradizione da quando c’è questo governo). E come tutte le occasioni per posizionarsi senza ragionare sul perché ci si posiziona: in cui lo scopo non è dire, ma dirsi. Continua a leggere

Il sindaco e la bambina: quando gli adulti perdono la bussola

Il caso della bambina di Minerbe a cui è stato dato tonno e cracker invece del pranzo in mensa con gli altri suoi compagni, come ‘punizione’ indiretta ai genitori che erano in arretrato con i pagamenti, si presta a qualche riflessione, anche al di là del merito della vicenda. Continua a leggere

La retorica della cittadinanza

Quando la politica si riduce a retorica non può che produrre risultati maldestri. Se poi la retorica (che dopo tutto presuppone il ben scrivere e parlare) è di qualità mediocre, si riduce a chiacchiera deteriore: frasi fatte, appelli ai buoni sentimenti, desiderio conformista di intercettare consensi. Continua a leggere

Dopo Christchurch: Le parti invertite del terrore

Christchurch: che tristezza, un nome così, per una strage di musulmani in moschea… Ma è un’ironia che non dispiacerebbe al suo autore, e forse perfino inconsapevolmente cercata. Lui, che nel suo improbabile pantheon ha messo di tutto: perfino il doge veneziano Sebastiano Venier, o il condottiero Marcantonio Bragadin, di cui probabilmente tutto ignora, salvo forse il fatto che è stato martirizzato dai Turchi. Questi rimandi alla storia lontana, come alla contemporaneità, a terroristi anti-islamici come Anders Breivik e delinquenti xenofobi come Luca Traini, o a vittime innocenti del terrorismo islamico in Europa, poco ci spiegano, tuttavia, di quanto accaduto, e ancora meno sono in grado di spiegare le ragioni – per quanto di ragioni si possa parlare – di una voglia di rivincita identitaria contro innocenti e pacifiche famiglie musulmane che stavano pregando, portata fino alla strage. Continua a leggere

Noi e gli stranieri: come abbiamo potuto diventare così?

La notizia è in sé – purtroppo – banale. Un fatto di cronaca come tanti: un automobilista che investe e ferisce gravemente dei pedoni. Aggiungiamoci qualche aggravante: l’automobilista investitore era palesemente ubriaco, e stava scappando da un posto di blocco; e gli investiti erano una famiglia che si stava mangiando un gelato – il ferito più grave è un bimbo di pochi mesi, sbalzato dal suo passeggino e finito violentemente a terra (mentre scriviamo, sappiamo solo che gli è già stata amputata una gamba, e del resto non si sa). Infine, i dettagli di contorno, che rendono la notizia più morbosamente accattivante: nazionalità e caratteristiche di investitore ed investiti – che è quello che veramente ci interessa. Perché, ammettiamolo, ormai le cose funzionano così: che mezza Italia, o forse un po’ di più, di fronte a una notizia come questa, spera che l’investitore sia straniero, per poter legittimare la propria rabbia o il proprio schietto odio nei confronti degli immigrati; e l’altra metà, o forse un po’ di meno, spera che non lo sia, per evitare che il fatto diventi l’ennesimo episodio di una campagna anti-immigrati già anche troppo aperta ed esplicita. Nel caso di specie c’è un ulteriore piccante dettaglio: l’investitore non solo è italiano, ma è un militante venetista, un po’ xenofobo e sostenitore di politici xenofobi quanto è opportuno in quegli ambienti; e gli investiti sono una famiglia di pacifici immigrati albanesi ben integrati. Ciò che ha consentito a una parte della seconda metà scarsa di italiani di stigmatizzare e in qualche modo di godere dell’inaspettato rovesciamento di prospettiva rispetto alla narrazione anti-immigrati dominante. Continua a leggere