Eid al-Adha e macellazione islamica. Qual è veramente il problema?

Puntuale come la festa islamica dell’Eid al-Adha, che commemora il sacrificio di Abramo, celebrata in questi giorni, arriva anche la polemica intorno a essa. Che consiste nella protesta contro lo sgozzamento di agnelli e montoni per celebrare l’occasione: altrettanto rituale del rito stesso.
Ora, possiamo capire che gli animalisti si lamentino: è pur sempre un sacrificio animale. E chi gli animali non li mangia è evidente che non sia d’accordo, ed è sacrosanto che possa manifestare la propria opinione: che non è solo legittima, ma esprime un punto di vista su cui c’è molto da riflettere, anche in termini di sostenibilità del pianeta e del nostro stile di vita. Il che implicherebbe protestare in egual misura sia nei confronti di chi gli animali li uccide e li mangia per motivi religiosi, sia di chi lo fa per il puro piacere del palato, o semplicemente per abitudine e idee diverse in materia.
È quando la protesta è per così dire selettiva, che insospettisce. Come accade sempre più spesso intorno alla festività islamica, detta anche Eid al-Kabir, la festa grande. In primis perché la macellazione halal è esattamente identica, sia nelle motivazioni che nell’aspetto tecnico (lo sgozzamento dell’animale previo taglio della carotide, e il conseguente progressivo dissanguamento) alla macellazione ebraica kosher. Infatti molti di coloro che protestano, quando lo scoprono, si ritirano in buon ordine: anche perché la macellazione kosher è legale da quando esistono gli ebrei, cioè da prima che esistessero i cristiani. Com’è che proteste di fronte ai macelli che lavorano per le comunità ebraiche non ce ne sono? Se invece il problema sono gli agnelli, ricordiamo sommessamente che, in occasione della Pasqua, cristiani e laici ne fanno una strage ben più cospicua ogni anno, con numeri imparagonabili. Infine, in passato, e un po’ di nascosto anche nel presente, l’uccisione per dissanguamento era pratica abitudinaria della civiltà contadina, in particolare per il maiale, animale invece considerato impuro per ebrei e musulmani.
Torniamo all’islam. La pratica è tradizionale e diffusa. Personalmente vi ho assistito in diversi paesi musulmani, e anche da noi. L’importante è che non avvenga in privato, senza rispettare elementari norme igieniche, come occasionalmente accaduto in passato. È per questo, peraltro, che le comunità islamiche, esattamente come quelle ebraiche, hanno siglato degli accordi con i macelli, a termini di legge e nel rigoroso rispetto di tutte le normative. Aggiungiamo, peraltro, che il cibo viene condiviso anche con i poveri e gli indigenti, nella misura di un terzo, essendo un tradizionale atto di elemosina e di condivisione, appunto. Ma proprio per questo è pratica oggi spesso sostituita dal conferimento dell’equivalente del costo dell’animale in opere di carità. Infine, se il problema è la sofferenza dell’animale, ricordiamo che ci sono molti studi e opinioni di veterinari che sostengono come l’animale soffra meno, mediante il dissanguamento. Il che non dovrebbe stupire, visto che – e non è ovviamente un suggerimento – quello per dissanguamento è il modo meno doloroso che conosciamo anche per suicidarci. In più, nel caso degli animali, viene accompagnato da una benedizione: un atto di rispetto a noi ignoto, che pure apprezziamo tra i nativi americani e altre popolazioni indigene.
Parliamo del problema vero, allora, se vogliamo porlo. Che è quello dell’industrializzazione della morte animale nella modernità. Che ha una storia lunga, tutta occidentale e non religiosa: la catena di montaggio non l’ha inventata Henry Ford per le automobili, ma lo Union Stock Yard, il macello di Chicago, da cui Ford prese ispirazione.

Il macello islamico. Indignati con chi e per cosa, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2025, editoriale, pp. 1-5

Di bambini, moschee, polemiche politiche e identità reattive

La questione della visita dei bambini di una scuola cattolica a una moschea (non importano i nomi e i luoghi) ha avuto una eco molto forte, così come il nostro editoriale di ieri l’altro sul tema. Decine di condivisioni, ma anche diversi educati interventi critici dei nostri lettori. Segno che è un tema sensibile, su cui si ha voglia di discutere. Proviamo, allora, a tirare le fila delle critiche. E a rispondere, per quanto possibile nei limiti di un articolo, quando al tema ho dedicato libri interi.

Un primo livello di discussione riguarda la scelta della scuola, e la sua autonomia decisionale. Può una scuola frequentata da molti bambini musulmani fare un approfondimento, con visita guidata, su quella religione? Lo può decidere solo lei. Non i genitori: che pure, in questo caso, sono stati consultati preventivamente e hanno espresso il loro assenso. Lo stesso per l’educazione all’affettività e sessuale: si può fare solo se i genitori sono d’accordo? Sicuri? Se di educazione sul tema abbiamo bisogno, si fa, punto. E poi come si quantifica il disaccordo? Sarebbe democratico se bastasse l’opposizione di uno per ledere l’interesse di tutti? Così come non si consultano i genitori, e nemmeno la politica, sui programmi di italiano. Molti genitori pensano che la matematica non serva a niente, altri considerano pericolosa persino la biologia perché si parla di genere, ma non per questo si smette di insegnarle. Quando è stato introdotto l’obbligo scolastico, molti genitori erano contro: lo stato non interveniva con comprensione, ma mandava i carabinieri a prelevare in casa i bambini per portarli a scuola.

Le strumentalizzazioni della politica hanno le loro ragioni. Ma non hanno nulla a che fare con il merito delle questioni. La politica vive di contrapposizioni, e il consenso si costruisce meglio se hai un nemico, come insegnava Machiavelli. Se poi il nemico è una minoranza stigmatizzata (che siano gli ebrei in altre epoche, o gli immigrati, o i musulmani oggi, ma potrebbero essere i gay – o magari i conservatori o i razzisti o semplicemente quelli con un’opinione diversa dalla nostra, i presunti cattivi giudicati dai presunti buoni), si chiama capro espiatorio, e serve per acchiappare voti. Non è nobile, ma funziona, e la politica lo sa benissimo, e ne usa a man bassa. Tanto più perché le minoranze contano meno, e spesso hanno meno diritti, incluso quello di voto in questo caso, per cui non si paga pegno: si guadagnano i voti di chi è contro, senza perdere quelli dei diretti interessati. È un meccanismo che mostrano bene le identità reattive: quelle che si formano in reazione, o contro, qualcuno. Come la pletora di persone che hanno scoperto di essere cristiane da quando ci sono i musulmani: prima non se ne erano accorte. Tuttora i politici che tuonano di più di radici cristiane sono quelli che in chiesa vedete meno, e a cui il contenuto del messaggio evangelico interessa meno. Ma vale anche per altre minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali: tanto che i conflitti più forti spesso non sono tra gruppi, ma al loro interno, a proposito degli altri.

C’è chi, nel merito, chiede di difendere i valori cattolici. Legittimo. Forse la domanda vera è se a minacciarli è il nemico che ci viene messo di fronte, l’islam, o quello che ci sta alle spalle, apparentemente nostro alleato: la secolarizzazione, l’individualismo, il consumismo e quant’altro. E se i religiosi di altre comunità non siano semmai dei potenziali alleati. Anche perché, poi, il problema vero è chi decide quali sono, i valori cattolici: per qualcuno tutto si riduce all’aborto, per altri all’accoglienza degli immigrati, mentre probabilmente le cose sono un po’ più complesse.

C’è chi ha sollevato il tema della reciprocità. Comprensibile, ma nel caso in questione mal posto, visto che è un ambiente cattolico, dove si prega e ci si fa il segno della croce con regolarità. Anche questo tema, tuttavia, è più complesso: in Marocco o in Senegal, per fare un esempio, i cattolici godono di piena libertà di culto, in Afghanistan no – dobbiamo prendercela con i marocchini che sono da noi perché gli afghani che non sono da noi non ce la danno? Anche la polemica sul fatto che i bambini in moschea si sono inginocchiati e hanno mimato il gesto della preghiera, appare fuorviante: i bambini fanno e imparano così, e cinque minuti dopo se ne sono dimenticati, ed è il loro bello, e la loro libertà, da cui avremmo molto da imparare. A scuola si fa questo. Se lo chiamiamo indottrinamento, come dovremmo chiamare l’allenatore che porta i ragazzi a tifare per la squadra che piace a lui, o l’insegnante (o il parroco, o l’assessore) che gli fa leggere un libro o li porta a teatro a vedere un autore che ha un proprio specifico punto di vista: che li indottrina, o che gli offre delle opportunità e li abitua alla pluralità dei punti di vista?

Il problema vero, alla fine, è l’islam, o meglio il nostro modo di percepirlo. Se siamo convinti che vogliono islamizzarci per via demografica, o vogliono imporci la sharia (da cui spesso sfuggono, proprio per vivere più liberi da noi), o vogliono togliere il crocifisso o il presepe dalle scuole (mai successo per iniziativa dei musulmani, che iscrivono i loro figli e ancor più figlie pure a scuole cattoliche), anche se è un sentito dire, non cambieremo idea neanche di fronte all’evidenza.

Il problema è la questione femminile? Molto giusto. Ma perché la nostra attenzione è selettiva? Perché a proposito dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina non islamiche non protestiamo? Perché se un marito o un padre pakistano è violento con la propria moglie o figlia diciamo che è colpa dell’islam, mentre se è rumeno non diamo colpa all’ortodossia, e se è italiano al cattolicesimo? E se il problema è la democrazia (problema serissimo), siamo sicuri che certi hindu, protestanti o ebrei siano più democratici? Non è un problema di modello di sviluppo, di singolo paese, di epoca storica, più che di religione? Avremmo giudicato il cattolicesimo compatibile con la democrazia, nell’Europa degli anni ’30, quando la chiesa era alleata di Mussolini, Franco, Salazar, o trent’anni fa in America Latina, quando sosteneva le peggiori dittature centro e sud americane?

Certo, nell’islam ci sono dei problemi. Il terrorismo jihadista ce lo ha insegnato (peraltro trent’anni fa il terrorismo da noi era politico, oggi nel mondo è spesso anche indipendentista, etnicista, e pure suprematista e razzista, e quando è religioso non è solo islamico). Lo combattono anche la maggioranza dei musulmani. È giusto parlarne e sollevare il problema. Per affrontarlo insieme, nell’interesse di tutti. Non per combattere i fedeli di una religione, in nome di un’altra, o forse solo di una presunzione di superiorità. Che si dovrebbe dimostrare nei fatti.

La società, le religioni, la politica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Scuola cattolica e visita in moschea. Il problema è l’ignoranza della politica

Di fronte all’ignoranza – nella sua accezione etimologica di mancanza di conoscenza – sono possibili due atteggiamenti. Uno è quello che potremmo definire dantesco: lasciar perdere (“non ragioniam di lor ma guarda e passa”, come si suggerisce nel canto terzo dell’Inferno a proposito “di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”). L’altro è quello di provare a ragionare nonostante tutto, anche se l’oggetto del contendere è risibile, e non è facile. Anche perché c’è un’ignoranza per così dire pura, con cui si può interloquire (appunto perché è solo una carenza di conoscenze), e una che è mossa dalla strumentalizzazione politica contro un presunto nemico, che è facile trasformare in capro espiatorio, e che è più difficile da sradicare.

La (non) notizia di partenza è quella della visita dei bambini di una cattolicissima scuola paritaria parrocchiale a una vicina moschea, frequentata anche da molti genitori i cui figli frequentano la scuola in questione: in cui peraltro ci si fa il segno della croce prima di pranzo e spesso si recitano le preghiere in aula.

L’ignoranza ha naturalmente protestato. Ignorando, per l’appunto, che la nostra società è composta da molte diversità: per dire, oltre il dieci percento delle persone (di più, in Veneto) che vivono da noi sono immigrate. E appartengono, tra le altre cose, a minoranze religiose diverse (cattolici, musulmani, ortodossi). E che frequentarle, studiarle, includerle, rapportarcisi, è l’abc della vita sociale, oltre che del patto costituzionale. Mentre stigmatizzarle favorisce la raccolta di un facile consenso, ma non fa un buon servizio alla società.

Con i criteri dell’ignoranza non ci dovrebbero essere moschee (in effetti la regione ha approvato una legge contro, perfettamente inapplicabile, e infatti le moschee ci sono). Gli oratori non dovrebbero accogliere i bambini musulmani (una ricerca a Milano li quantificava intorno a un terzo degli utenti). Nelle scuole non se ne dovrebbe discutere e guai a fare visite di conoscenza (che peraltro, laddove davvero i musulmani fossero come li descriviamo avrebbero un effetto controproducente). E la diversità non dovrebbe essere nemmeno presa in considerazione: quindi niente visita anche alle sinagoghe, ma nemmeno alle chiese, visto che pure esse (lo ricordiamo a chi non se ne rendesse ancora conto) rappresentano oggi non una presunta maggioranza, ma solo la più grande e storicamente importante delle minoranze religiose.

Quella della chiusura alle culture altrui – incarnate in persone, in questo caso – è sempre una scelta ottusa e perdente: che non ci arricchisce, ma al contrario ci impoverisce (proviamo a immaginare se ci nutrissimo solo di letteratura, musica, cinematografia italiana, o peggio veneta, per non rischiare contaminazioni). Peraltro non ci salva nemmeno dai conflitti culturali, ma al contrario ne produce di nuovi e perfettamente inutili. Ricordiamo, en passant, che la Serenissima, cui molti degli oppositori alla visita in moschea amano nominalmente richiamarsi, aveva consentito la costruzione sul Canal Grande di un Fondaco (da funduq, parola araba ancora oggi usata per albergo) dei Turchi, inaugurato nel 1621 e durato fino al 1838, in cui era presente una moschea (anche allora, nel 1602, un anonimo cittadino veneziano promosse una petizione contro: ma perse… e oggi è il civico museo di storia naturale, che l’ignoranza potrà visitare con profitto). Che il Corano verrà dato alle stampe per la prima volta, in arabo, sempre a Venezia, nel 1537, e una sua prima traduzione seguirà dieci anni dopo (mentre la traduzione più nota e importante per la cultura europea sarà stampata a Padova nel 1698 a cura di padre Ludovico Marracci). Dobbiamo vergognarci, di questa eredità, o al contrario vantarcene? E ci sarebbe stata, se gli attori di questi processi avessero avuto la mentalità di chi non vorrebbe nemmeno far visitare una moschea? O non sarà questa la stessa radice culturale che fa rispondere molti italiani, a domanda se sarebbero disposti a utilizzare i numeri arabi, che loro no, mai, che sarebbe una vergogna, una inaccettabile sottomissione a una cultura nemica? (per sicurezza, ci teniamo a precisare che i numeri arabi sono quelli che usiamo d’abitudine …).

Persino il Mussolini cui si richiamano altri locali nemici verbali dell’islam definiva l’Italia, in un discorso del 1928, come “amica del mondo islamico e conscia delle sue funzioni di grande Potenza mussulmana”; aggiungendo nel 1938, dopo aver ricevuto in dono in Libia la ‘spada dell’islam’, a proposito delle popolazioni dell’italico impero, di voler assicurare “la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto delle leggi del Profeta” e “dimostrare la sua simpatia ai Musulmani e all’Islam del mondo intero”.

Ecco, ci sembra che le reazioni odierne di ottusa chiusura di fronte a un fatto banale siano quelle che fanno andare il Veneto sulle pagine nazionali per i motivi sbagliati. Magari è il caso di rendersene conto.

 

Bimbi e religioni. L’abc della vita sociale, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5

Il niqab a Monfalcone: tra diritti, tradizione e repressione. Aprire il dibattito senza chiudere gli occhi

Monfalcone torna alla ribalta della cronaca, per un problema che è bene ci poniamo tutti noi. Il caso è quello delle studentesse del Bangladesh che vestono il niqab, una forma di velo islamico che copre anche il viso, lasciando visibili solo gli occhi: e che vengono quindi identificate all’ingresso dell’istituto scolastico che frequentano.

Premessa: il velo islamico di cui parliamo normalmente è l’higiab – sostanzialmente un foulard, che copre solo i capelli. E che non può fare problema, proprio perché non ha altre implicazioni, fa parte della nostra cultura tradizionale, ed è assimilabile alla copertura del capo adottata dalle suore (o dai sikh): il suo uso rientra nella libertà di vestirsi di ciascuno. Il niqab invece copre anche, come abbiamo detto, il viso. E qui il problema c’è.

I dirigenti scolastici fanno quello che possono, in assenza di una normativa, e nel rispetto dell’autonomia loro garantita, per assicurare la continuità scolastica delle ragazze, identificandole e facendole entrare con il niqab: il rischio, altrimenti, è che non vadano più a scuola. Ma una normativa occorre. Perché occorre educare anche le comunità, e noi stessi. La questione della visibilità del volto è seria non, come si dice, per questioni di sicurezza (ci sono anche quelle, ma non è per quello che si solleva il problema), ma perché nella cultura europea e occidentale, storicamente, è attraverso i volti che si crea la relazione: viviamo di apertura, non di chiusura – e abbiamo avuto occasione di rifletterci sopra proprio nel periodo in cui tutti siamo stati obbligati a portare una mascherina, e ne abbiamo subìto le implicazioni, anche emotive e relazionali. Tra l’altro, non è neanche questione di rispetto di tradizioni altrui. Fino a ieri, il niqab era presente solo in piccole aree del Golfo, e poco altro. E ci sono paesi islamici dove l’higiab è maggioritariamente diffuso, ma il niqab è addirittura vietato per legge. Esattamente come è vietato in alcuni paesi europei. Lo stesso Bangladesh ignorava l’uso del niqab fino a qualche decennio fa: non è tradizione, ma innovazione. La sua recente diffusione tra le popolazioni islamiche anche in luoghi dove non c’è mai stato, in Asia, in Africa o nei Balcani (e in Europa occidentale), è dovuta infatti al manifestarsi di correnti religiose particolarmente conservatrici, sostenute dal denaro e dalle istituzioni educative proprio dei paesi del Golfo, incidentalmente nostri alleati: chi va là a studiare l’islam (e sono moltissimi, grazie ai fondi a disposizione, al prestigio dei luoghi santi di Mecca e Medina, e ai molti incentivi offerti), spesso torna introducendo e talvolta imponendo una usanza prima inesistente, e non islamica, di per sé. Ecco perché bisognerebbe intavolare una discussione seria sul tema, insieme e non contro le comunità islamiche: parlando con loro, non a proposito di loro e contro di loro. Per averle studiate e frequentate abbastanza a lungo, mi azzardo ad affermare che se si facesse un referendum, la maggioranza dei musulmani, e una travolgente maggioranza delle musulmane, sarebbe a favore dell’higiab, ma contro il niqab. E un serio dibattito sul suo eventuale divieto potrebbe essere un modo per aiutare chi è contro a poterlo dire ad alta voce: cosa non facile, perché significa, mettersi contro un pezzo della propria comunità. Soprattutto, anche chi non lo usa e non lo vuole, difende il diritto di altre a portarlo, se percepisce che il problema è sollevato solo in chiave polemica, anti-islamica, magari da parte di chi si attiva anche per chiudere (spesso violando la legge oltre che i principi costituzionali) pure le moschee. Il problema è che le strumentalizzazioni ci sono, e invece di aiutare a risolvere il problema lo aggravano. Se la battaglia contro il niqab la agitano i soliti noti che non perdono occasione per continuare le proprie battaglie discriminatorie anti-immigrati e anti-musulmani, alimentando un facile consenso che effettivamente porta visibilità e fortuna elettorale, non andiamo lontano. A costoro vorremmo solo rispondere che c’è una differenza tra l’agitare i problemi per affrontarli e risolverli, o farlo per lucrare un facile consenso mettendo i propri elettori contro gli immigrati, che nel caso in questione sono un terzo della popolazione di Monfalcone (gioco facile anche perché i primi votano, i secondi in maggioranza no, e quindi conculcare i loro diritti è un’operazione a rischio zero). Bisogna uscire da questa dinamica. Ma non avere paura di sollevare temi che possono anche essere scomodi, ma che è necessario affrontare. Proprio per evitare polemiche future. E soprattutto per mettere le basi di un patto sociale solido e condiviso, anche in una società culturalmente e religiosamente sempre più plurale.

 

Il velo e la regola che manca, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 febbraio 2025, editoriale, pp. 1-5

Israele e Palestina, due pesi e due misure. Troppi silenzi sulle stragi

Lo scorso 7 ottobre una azione terroristica inaudita, pianificata da Hamas, ha portato all’uccisione di 1200 israeliani, tutti civili, tutte vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, e al rapimento di 250 ostaggi. Sono passati 300 giorni, da allora. E la risposta israeliana a questo orrendo massacro ha portato fino ad ora all’uccisione di forse 40.000 (quarantamila!) palestinesi, la stragrande maggioranza dei quali civili, vittime innocenti, incolpevoli, inconsapevoli, moltissime dei quali bambini. Una strage sproporzionata, una rappresaglia indiscriminata, violentissima. A cui si aggiunge la crisi umanitaria, certificata anche dalle Nazioni Unite – e spesso intenzionalmente indotta – dovuta ai milioni di sfollati, all’impossibilità di offrire cure mediche, alla difficoltà negli approvvigionamenti di cibo, di acqua, di medicinali, di energia elettrica. A cui vanno aggiunti gli abusi di soldati e coloni illegali nei territori palestinesi, e un avventurismo politico senza exit strategy, che sta allargando il conflitto in Cisgiordania, in Yemen, in Iran, in Libano, con atti mirati che superano di gran lunga la gravità dei danni provocati dai razzi lanciati su Israele dai suoi nemici. Tutto questo riguarda anche noi: occidentali, europei, italiani. Per le sue conseguenze pratiche (tra cui il probabile arrivo di migliaia di nuovi profughi palestinesi alle nostre frontiere) e politiche: il sostegno acritico al governo israeliano ci isola di fronte al resto del mondo, tanto è inguardabile, per occhi appena onesti, questa logica dei due pesi e due misure.

Eppure prevale un assordante silenzio. Anche nel Nordest, dove pure ci sono sia alcune tra le comunità ebraiche più importanti, antiche e colte, sia una cospicua presenza immigrata musulmana. Poche manifestazioni, e lasciate in gestione a pochi militanti delle ali estreme dello schieramento politico, che non hanno coinvolto i partiti principali e l’opinione pubblica. E relativamente poche prese di posizione esplicite interne alla stessa comunità ebraica locale: legata per ovvi motivi allo stato di Israele (e giustamente timorosa del fatto che sia in gioco la sua stessa esistenza, cruciale per tutti gli ebrei del mondo), ma che non dovrebbe esserlo al suo governo, che dovrebbe essere legittimo criticare, come fanno peraltro molti ebrei israeliani dall’interno e in situazione assai più difficile. Comunità che ha ricevuto una doverosissima solidarietà dopo il 7 ottobre, mentre quasi nulla ne ha ricevuto la comunità palestinese, pur presente sul territorio, anche con esponenti conosciuti (tra cui imam, ma anche medici, professionisti, imprenditori).

Il confronto viene spontaneo. Quando ci sono stati attentati terroristici in nome dell’islam in Europa (ma anche a proposito dei crimini dello Stato Islamico in Medio Oriente), si chiedeva ai musulmani da noi, che fattualmente non c’entravano niente, che spesso venivano da paesi che non erano quelli coinvolti nel terrorismo, e addirittura a quella nati qui, e quindi europei di nascita e formazione, di dissociarsi da quei fatti orrendi e abnormi. E molti l’hanno fatto spontaneamente, arrivando a “dirsi Charlie” dopo gli attentati perpetrati a Parigi, a Bruxelles e altrove. Forse sarebbe giusto chiedere alle comunità ebraiche di levare una voce critica, che c’è, anche nei confronti del governo israeliano, per i crimini che sta perpetrando. Sarebbe più credibile anche la loro richiesta di sostegno, in questo modo; e più facile per i non ebrei offrirlo (specularmente, anche i musulmani, se fossero maggiormente capaci di critica esplicita nei confronti di Hamas e delle leadership islamiche, sarebbero più credibili e riceverebbero più sostegno – l’onestà intellettuale paga più della partigianeria, su tutti i fronti). Altrove, dagli Stati Uniti a molti paesi europei, gli ebrei per primi, e le pubbliche opinioni, hanno reagito, platealmente. Da noi prevale una certa timidezza, e la difficoltà, della politica in primo luogo, anche solo a indicare nell’attuale governo di Israele (certo non nello stato di Israele o peggio nel popolo israeliano) uno dei maggiori responsabili di questa strage. Perché le vittime sono arabi? Perché sono musulmani (e qui sbagliamo: molti palestinesi non lo sono)? Ecco, forse la semina anti-islamica di questi anni, dai testi di Oriana Fallaci in avanti, ha giocato un ruolo. Ma non basta a spiegare tutto. Forse dobbiamo solo assumere, tutti noi, il banale coraggio di dire quello che pensiamo ad alta voce, poco importa se a qualcuno non piacerà, e se magari è sbagliato. E cominciare a discutere con tutti gli interlocutori. Perché le amicizie sono vere solo quando si è capaci di una discussione franca: se l’amicizia può reggere a un litigio e sopravvivere a una divergenza di opinioni.

Israele e Palestina. Quei silenzi sulle stragi, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto” 2 agosto 2024, editoriale, p. 1-5

Dante, Maometto e la Divina Commedia. La strada per l’inferno (dantesco) è lastricata di buone intenzioni

Quando di una vicenda si appropria la politica per alimentare una presunta guerra culturale, la notizia vera (peraltro, datata: risalirebbe a qualche mese fa) sparisce dietro le polemiche e le strumentalizzazioni. Per cui prendiamola per come ci è pervenuta. Mi riferisco all’esonero di due studenti musulmani di una scuola media di Treviso dallo studio della Divina Commedia, per rispetto della loro fede religiosa, dato che Dante colloca il profeta dell’islam all’inferno.

Nei resoconti stampa si parla dell’iniziativa di un o una insegnante, di una spiegazione data alle famiglie su cosa i figli avrebbero studiato (che quindi, richieste di un parere, hanno preferito l’esonero), o di una richiesta delle famiglie stesse – e le versioni diverse già nascondono differenti opinioni politiche e opzioni ideologiche.

Due considerazioni sul fatto in sé, e un ragionamento sulle sue conseguenze. Il fatto. Se è avvenuto come descritto, naturalmente è – prima che grave – sciocco e superficiale. Perché in generale non si chiede un parere alle famiglie su ciò che i figli debbono o non debbono studiare: il programma è lì per tutti, e guai se la scuola comincia ad aprire una trattativa sui contenuti. E perché non se ne può più – quando si tratta di pluralismo religioso – di fare le cose male a fin di bene: come noto, la strada dell’inferno, anche quello dantesco, è lastricata di buone intenzioni. D’altro canto, una qualunque famiglia, di qualsiasi religione (anche cattolica), magari di livello culturale modesto, posta di fronte all’alternativa se studiare un autore di cui non sa nulla ma che parla male della fede in cui crede, oppure no, sceglierebbe la seconda opzione. Anche se – se è vero che l’alternativa è stata Boccaccio – viene da sorridere pensando ai risvolti moralmente più problematici e per l’appunto boccacceschi della vicenda. Dettaglio ironico ulteriore: lo studio di Dante sarebbe potuto servire per aprire alla comprensione della cultura islamica. Uno dei primi libri che ho preso in mano, quando ho cominciato a occuparmi di islam, per cercare di leggere il mondo dal punto di vista altrui e ragionare sulle reciproche influenze culturali, insieme a “Storici arabi delle Crociate”, pubblicato da un grande orientalista italiano, Francesco Gabrieli, fu proprio “L’escatologia islamica nella Divina Commedia” di Miguel Asín Palacios, in una preziosa edizione in due volumi (quasi settecento pagine di ponderosa erudizione) che dava conto anche della polemica seguita alla pubblicazione del libro: non sorprendente, dato che l’autore intendeva dimostrare come il poema dantesco fosse fortemente ispirato a fonti islamiche, e in particolare all’ascensione miracolosa di Muhammad al cielo, che i musulmani celebrano in una ricorrenza ad essa dedicata. Tesi rafforzata da ulteriori successive scoperte letterarie e traduzioni. Le vie della cultura sono infinite, e spesso sorprendenti.

Le conseguenze di queste polemiche sono tuttavia sociali e culturali. Perché innescano un riflesso condizionato di polemiche su una ipotetica ‘cancel culture’, e soprattutto di accuse ai musulmani. Vale la pena notare, allora, che per lo più non sono stati loro a fare richieste di rifiuto o cancellazione: che si trattasse del presepe o della recita di Natale, in cui i bimbi musulmani, pur di partecipare, farebbero volentieri anche la parte di Gesù (venerato profeta dell’islam, secondo di importanza solo a Muhammad) o di Maria (cui è dedicata una delle sure più importanti del Corano). Peraltro molti minori musulmani sono iscritti a scuole cattoliche per scelta proprio dei genitori, che – come molti italiani, più o meno credenti – preferiscono a torto o a ragione un ambiente educativo religioso a uno laico. Queste iniziative sono state sempre proposte da insegnanti di buone intenzioni e discutibili valutazioni, senza consultare i musulmani, al loro posto e a loro insaputa. Ma grazie al tam tam mediatico e alla strumentalizzazione politica si inscrivono nella memoria di ciascuno come inaccettabili pretese dei musulmani che non vogliono integrarsi: e allora, che se ne tornassero a casa loro… È questo il peggior servizio che si potrebbe fare ai musulmani, e il maggior danno che iniziative irriflesse come queste producono. Sarebbe il caso che anche gli insegnanti ci ragionassero sopra, dato che finiscono per ottenere il risultato opposto a quello auspicato.

Il caso Dante. Chi pensa di aiutare l’islam, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 28 maggio 2024, editoriale, pp, 1-2

Ramadan a scuola e al lavoro: la distanza tra società e politica (e tra realtà e ideologia)

Ieri si è festeggiato l’Aid al-Fitr, la festa di fine Ramadan. Per i musulmani è un po’ come il Natale: oltre alla festa religiosa, che è anche un importante momento di socialità per la comunità, ci si ritrova con le famiglie allargate, si preparano piatti speciali, si fanno doni ai bambini. Ed è molto sentito, non foss’altro perché arriva alla conclusione di un mese di digiuno – reale, nonostante le ironie di qualcuno – dall’alba al tramonto. Se spiritualmente ciò che caratterizza il Ramadan è precisamente il digiuno – raccomandato peraltro, come pratica ascetica, in molte religioni – sociologicamente ciò che lo caratterizza è la sua rottura (con l’iftar, un momento conviviale in cui si mangia qualcosa insieme, celebrato quando possibile in famiglia o in moschea), e anche il desiderio di vedere riconosciuta pubblicamente la propria identità sociale, celebrandolo in luoghi pubblici sufficientemente ampi da contenere un afflusso maggiore di quello abituale, e invitando le autorità civili e religiose. A testimoniare il ruolo sociale del Ramadan è anche il fatto che, nonostante la secolarizzazione operi anche nelle seconde generazioni musulmane (e già nelle prime), cala la frequentazione delle moschee, la preghiera quotidiana, la lettura del Corano, ma non, o molto poco, il rispetto del digiuno. È anche un mese in cui – come si fa anche nel mondo cattolico, con i ‘fioretti’ durante la quaresima – la mortificazione autoinflitta del digiuno viene trasformata in condivisione, raccolta di elemosine per i più poveri, cena gratuitamente offerta a tutti, in particolare ai più bisognosi, da parte di chi ha maggiore disponibilità.

Oggi, a seguito della loro maggiore presenza quantitativa, e al numero crescente di famiglie, la visibilità delle pratiche religiose islamiche diventa vita quotidiana e prassi consolidata, quando non abitudine. Alcuni luoghi di lavoro con manodopera immigrata chiudono o concedono festività per l’occasione, ricevendone in cambio un beneficio di gratitudine e riconoscenza (peraltro c’è chi, da decenni, fa già di più: la prima fabbrica di cui ho notizia che abbia concesso uno spazio interno per svolgere la preghiera di venerdì è veneta e risale agli anni Novanta, quasi tutte quelle che hanno la mensa hanno introdotto senza proteste un’alternativa vegetariana o senza maiale, mentre ci sono imprenditori che scambiano volentieri la vacanza dei dipendenti in agosto con quella nel mese di Ramadan, per chi ha la famiglia nel paese d’origine, con vantaggio reciproco). Molte parrocchie e diocesi si scambiano visite con le moschee e gli imam, partecipando alle rispettive festività e non di rado concedendo spazi per la celebrazione dell’Aid. Non pochi sindaci, sull’esempio del presidente Mattarella, hanno inserito i messaggi di auguri e saluti alle comunità religiose minoritarie nel loro calendario istituzionale. E, infine, alcune scuole con popolazione immigrata numerosa, cominciano a considerare anche questa come una festività possibile (non in sostituzione di altre, men che meno quelle cristiane, ma tra le poche autonomamente decidibili dalla scuola), come si è visto quest’anno, con il solito contorno di polemiche da parte della politica.

Ecco, in tutto questo, quello che colpisce di più è proprio il contrasto tra la normalità sociale del fenomeno – la società cambia, e se ne prende atto – e l’eccezionalismo che costruisce la politica. Tra l’incontro fattuale che avviene sul lavoro, nelle scuole, nello sport, nel tempo libero, in cui persone di diverse culture, religioni, colore della pelle, partecipano agli stessi momenti di condivisione, dalle feste di compleanno in su. E lo scontro reale che producono infuocate parole d’ordine che incitano di fatto all’odio sociale, paventando inesistenti attentati contro l’identità cristiana del paese. Peraltro, in maniera singolare, mentre parroci e vescovi si prodigano nella costruzione di momenti di incontro, i presunti difensori di questa identità (autoimpostisi come tali, anche se di rado li si vede in chiesa, peraltro) costruiscono occasioni di conflitto sociale sulla pelle delle persone, stigmatizzando intere comunità, solo per conquistare un quarto d’ora di visibilità, da giocarsi alle prossime elezioni: inviterei a sostituire, in certi veementi discorsi politici o articoli di giornale, la parola musulmani con la parola ebrei, per vedere l’effetto che fa.

La società è dunque più avanti della politica che pretende di rappresentarla. E forse è il caso di cominciare a farlo presente al ceto politico: dietro il loro uso disinvolto e mirato di divieti e proibizioni c’è un problema etico e civile grosso come una casa. E dovremmo ricordare ai nostri rappresentanti che sono pagati per risolvere problemi, non per crearne.

 

Le feste di fine ramadan, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 11 aprile 2024, editoriale, pp. 1-6

Chi è contro l’integrazione? Moschee e politica: il caso Monfalcone

La chiusura delle moschee di Monfalcone mostra quante contraddizioni e strumentalizzazioni circondino l’integrazione degli immigrati, e quanto spesso l’ostacolo ad essa siano gli autoctoni, e non i diretti interessati.

Il fatto. La sindaca Cisint, pochi giorni prima di Natale, ha chiuso due centri culturali islamici e interdetto il parcheggio a un terzo. Ottomila musulmani hanno civilmente manifestato contro la chiusura, dietro lo striscione “Siamo tutti monfalconesi. No alle divisioni”, sventolando bandiere italiane e europee; e lei ha indetto uno scambio di auguri in un’altra piazza (con presenze comparativamente modeste: ma bastano i media a fare da eco), accusandoli di provocazione e di guerra di religione, evocando un inesistente attacco al Natale, sostenuta dal ministro Salvini e dal presidente della regione Fedriga.

Qual è il problema vero? Che a Monfalcone, 28mila abitanti, vivono 8mila stranieri, quasi il 30%, la metà dei quali provenienti dal Bangladesh, musulmani. E perché ci sono così tanti musulmani a Monfalcone? Perché lì vivono e lavorano, in buona parte a Fincantieri e nell’indotto della cantieristica. Non dovrebbe stupire che abbiano desiderio – e diritto – a un luogo di culto: anche gli italiani emigrati la prima cosa che costruivano, dopo la propria casa, era la chiesa. Ma invece di aiutarli a costruirsi una moschea dignitosa, si dichiara guerra ai loro luoghi di culto.

Certo, capiamo che è difficile governare questa complessità: peraltro, con un numero di immigrati aumentato fortemente proprio durante il primo mandato della sindaca, a testimonianza del fatto che non basta dire di non volere gli immigrati per vederli sparire. E allora perché chiudere le moschee? Con un argomento usato spesso: cambio di destinazione d’uso, sovraffollamento e sicurezza, e quindi inagibilità. Immaginiamo si usi la stessa solerzia per tutti gli altri cambi di destinazione d’uso, si siano chiuse per eccessivo affollamento le chiese durante le messe di Natale, e si controlli capillarmente sicurezza e norme antincendio di tutte le imprese (a cominciare da Fincantieri), i negozi, le scuole, le polisportive, i circoli culturali e gli oratori della città, per evitare sospetti di attenzione selettiva. Ma anche fosse: come potrebbero le moschee essere costruite alla luce del sole, visto che mai otterrebbero i permessi relativi? Altre regioni, come Veneto e Lombardia, hanno addirittura approvato leggi per impedirle…

Ecco, il problema è qui, ed è culturale, e di scontro tra l’ideologia e il principio di realtà. L’ideologia vorrebbe una Monfalcone ‘pura’ etnicamente (ma che vuol dire in una città in cui i meridionali son venuti a lavorare nei cantieri fin dalla loro apertura, cent’anni fa?). La realtà si scontra con un fabbisogno di manodopera che certo andrebbe gestito meglio, vincolando Fincantieri e le altre imprese a regole e contratti più cogenti (e questo si dovrebbe fare, infatti, non prendersela con l’ultimo anello della catena, il più debole), ma senza la quale la città sarebbe assai più povera, e in drammatico calo demografico: mentre così rischia di trovarsi in vantaggio competitivo rispetto ad altre realtà della regione. E invece no: si tolgono le panchine dalla piazza perché le usano gli immigrati, si pratica un tetto massimo di stranieri nelle scuole, e financo si toglie il cricket dalla festa dello sport monfalconese solo perché praticato dai bengalesi – mettendo i residenti gli uni contro gli altri. Sarà vantaggioso elettoralmente (la sindaca ha ottenuto il secondo mandato con una maggioranza del 72%, anche se i suoi voti sono stati 7500, meno dei manifestanti dell’altro giorno), ma è miope, perché si produce il contrario di quello che si dice di volere, senza metterne le basi: maggiore integrazione, che poi vuol dire maggiore sicurezza e benessere per tutti.

Cosa succederà, andando avanti così? Inevitabilmente, che una parte della città governerà contro l’altra, anziché con. Facile, anche perché l’altra parte, per ora, non ha per lo più la cittadinanza, e non vota. Ma tale scelta rischia di configurarsi come un blando e non dichiarato apartheid, in cui persone diverse per etnia e religione hanno diritti diversi, le cui conseguenze si pagheranno in futuro.

Ricordiamo, en passant, il precedente di Verona. Il sindaco allora leghista Tosi, al primo mandato, aveva un programma fortemente anti-islamico. Ha chiuso la moschea, come promesso: i musulmani hanno fatto ricorso al TAR e l’hanno vinto. L’ha richiusa, hanno rifatto ricorso, e l’hanno rivinto. È finita che nel secondo mandato sindaco e imam si facevano i selfie insieme, e oggi nessuno sano di mente, a Verona, rimetterebbe in questione il diritto costituzionale dei musulmani a riunirsi nel proprio luogo di culto. Magari pensarci prima?

 

Cantieri e moschee chiuse, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 dicembre 2023, editoriale, p. 1-2

FIFA 2022 in Qatar: il Marocco e i nuovi equilibri mondiali

Comunque vada a finire la coppa del mondo del Qatar, la presenza in semifinale del Marocco, prima volta per una squadra africana, rappresenta un cambiamento storico, non rubricabile a un evento solamente sportivo.

È innanzitutto il simbolo del riscatto di un continente. Non a caso l’Africa tifa compatta per il Marocco, come anni fa aveva tifato Camerun, Senegal o Ghana quando erano arrivati ai quarti di finale. È un segno di equilibri mondiali che si modificano, e che peseranno sempre di più in futuro, economicamente, demograficamente (la Nigeria si avvia a superare gli USA come terzo paese più popoloso del mondo…) e anche politicamente.

Più in specifico, è un riscatto anche del mondo arabo, dove pure si gioca il mondiale, anche contro i paesi suoi ex-colonizzatori: nel caso dell’ex-colonizzato Marocco, battendo direttamente la Spagna, che nel territorio marocchino mantiene le enclaves neo-coloniali di Ceuta e Melilla, il Portogallo (proprio a Ceuta ebbero inizio le guerre marocchino-portoghesi, 600 anni fa), e andando ad affrontare la Francia, il colonizzatore più recente, il cui protettorato sul Marocco ha retto fino a settant’anni fa. Questa solidarietà interna al mondo arabo si è vista anche con la bandiera palestinese esibita dalla nazionale marocchina e da molti tifosi, a ricordare una ferita ancora aperta, che in occidente si tende a dimenticare, ma che nel mondo arabo è vivissima. Non stupisce che ovunque, nei paesi arabi, si tifi Marocco.

È un riscatto anche, in certo modo, dell’islam. I giocatori del Marocco hanno pregato sul terreno erboso dei campi di calcio mondiali, in direzione della Mecca, e anche questo fattore gioca un ruolo sullo scacchiere globale, nei paesi musulmani ma anche tra gli emigrati in paesi occidentali, dove l’islam è spesso malvisto, e non solo a causa del terrorismo. Re Mohamed VI appartiene a una dinastia che reclama una discendenza diretta dalla famiglia del Profeta, e questo è parte importante della sua legittimazione, che si sta attuando anche con una accorta politica di finanziamento di luoghi di culto e di formazione religiosa rivolta a imam e predicatori di tutta l’Africa (e della diaspora occidentale), in concorrenza e contrapposizione con l’islam radicale e salafita.

Riscatto, inoltre, del Marocco stesso, che da molto tempo persegue, con sempre maggiore successo, un ruolo di leadership – innanzitutto economica, attraverso oculati investimenti in sviluppo e infrastrutture – per tutta l’Africa, con particolare attenzione a quella subsahariana. Un ruolo da grande potenza regionale, al contempo in dialogo e collaborazione con l’Unione Europea. Quello che noi chiamiamo Marocco, in arabo maghrib, vuol dire occidente, e questa è dopo tutto la sua collocazione geografica, ma anche il ruolo di tramite che si è scelto, come paese in tumultuosa crescita economica, ma anche attore di una transizione politica che lo porta verso una sempre maggiore democratizzazione e libertà sostanziale.

Riscatto, infine, degli immigrati marocchini in Europa, della cui presenza straniera costituiscono una parte importante (in Italia sono oltre 400mila, terza componente dopo rumeni e albanesi). Non stupisce che sia così. Anche quando l’Italia vinceva contro altri paesi europei in cui erano stati accolti ma anche spesso maltrattati, gli italiani in essi emigrati avevano un motivo in più per gioire. Certo, qua e là c’è stata qualche inaccettabile intemperanza di troppo nel manifestare la propria soddisfazione (anche se, come in Italia, molto inferiore alle intemperanze contro i marocchini). Un surplus di rabbia, o un segnale di malessere, che in paesi come Francia o Belgio è anche una comprensibile protesta contro una integrazione non sempre riuscita, e una marginalizzazione di fatto che questi paesi hanno lasciato crescere nelle loro banlieues, pur in mezzo a evidenti successi di integrazione (a Bruxelles il nome più diffuso, alla nascita, è Muhammad). Ma l’argomento lanciato da qualche politico di destra, come Eric Zemmour, “in Marocco sono scesi nelle piazze pacificamente, in Francia ci sono stati tafferugli” (anche se risibili rispetto alla grande maggioranza di gioia civilmente espressa) rischia di essere scivoloso: più una constatazione di incapacità e impotenza della Francia rispetto al Marocco, dopo tutto. E peraltro le stesse persone, se non ci fosse stato il Marocco a giocare, avrebbero tifato per il paese in cui vivono. Come gli emigranti italiani all’estero quando non gioca l’Italia, dopo tutto.

 

Il riscatto del mondo arabo, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 dicembre 2022, editoriale, p.1