Migranti: due destre a confronto in Veneto. Tra Mantovan e Vannacci

Sulle pagine del Corriere del Veneto comparivano ieri due voci che mostrano plasticamente le differenze tra due destre, alleate al governo della regione, ma distanti come non mai nell’affrontare un tema fondamentale: quello dell’immigrazione.

Da un lato l’assessore competente Valeria Mantovan, dall’altro il muscolare ex-generale Vannacci. Di fronte alla notizia di una scuola elementare a Mestre in cui la maggioranza dei nuovi iscritti ha un cognome straniero, Vannacci tira fuori il suo abituale repertorio. Lui non propone: contrappone. Non cerca soluzioni: condanna. E basta. Puntando anche su presunti costi economici: “L’integrazione al contrario. Così noi [dove ‘noi’ non include gli immigrati regolarmente residenti nel nostro paese, naturalmente] siamo costretti a pagare due volte: con le nostre tasse paghiamo agli STRANIERI scuola, sanità, alloggi popolari, bonus sussidi e poi paghiamo una seconda volta per la scuola privata dei nostri figli (…). Finiremo per diventare stranieri nella nostra patria”. Poco importa che quanto Vannacci descrive sia un’opinione infondata, per quanto popolare. Perché molti stranieri sono in realtà diventati cittadini, con i relativi diritti. Perché pagano le tasse, e quindi i servizi se li pagano da sé. Anzi, come certifica l’INPS, piaccia o meno, a differenza degli italiani versano più di quanto incassano. E quanto a pressione fiscale, nonostante i salari mediamente più bassi, versano percentualmente più di molte categorie autoctone, dato che prevale il lavoro salariato. Che laddove è irregolare, per lo più lo è per volontà di datori di lavoro italiani che evadono più dei loro dipendenti stranieri. Infine, perché la scuola privata è una scelta, non un obbligo: e quindi è giusto che chi la vuole se la paghi.

Mantovan invece prende atto che questa situazione “è il frutto dell’andamento demografico. Le famiglie italiane fanno meno figli. Ma c’è un altro elemento importante: la forte integrazione nel nostro territorio. Le famiglie straniere vivono, lavorano, crescono i loro figli qui. È un fenomeno naturale”. E ancora: “La scuola è il luogo dell’integrazione (…) Dobbiamo porre attenzione su un approccio didattico diverso, specifico e potenziato per fornire ai docenti strumenti nuovi”. Anche “per le famiglie, non solo per i bambini”. Quindi “non si entra a gamba tesa, su questi temi”. Ed “è inutile fare polemiche, il fenomeno è irreversibile”.

Non è difficile trovare le differenze. Ideologia e slogan di opposizione (pur non essendoci) da una parte, pragmatismo di governo dall’altra. Ma ci sono anche altre ragioni, più politiche: un leghismo sempre più schiacciato su un suprematismo che punta sul capro espiatorio immigrato, e una destra che invece recupera la sua radice storica, che era sociale (dal Movimento sociale italiano in avanti: anche se non siamo sicuri che il predecessore di Mantovan, Donazzan, avrebbe usato gli stessi toni pacati e gli stessi argomenti). Ma c’è dell’altro, anche. Un dato generazionale: Mantovan ha 35 anni, Vannacci quasi 60. E infine uno esperienziale: Mantovan è nata in una famiglia mista, la madre era egiziana. Conosce le dinamiche dall’interno. E questo fa tutta la differenza del mondo.

 

Mantovan, Vannacci e l’immigrazione. Trova le differenze, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 settembre 2025, editoriale, pp. 1-9

 

Governi e società civile di fronte a Gaza. Tra Riviera e Flotilla, l’importanza dei simboli

Gaza è entrata a far parte del nostro orizzonte e del nostro immaginario, piaccia o meno. Ci unisce nell’attenzione. E ci divide nelle posizioni che prendiamo. Non ci divide solo politicamente, e per così dire orizzontalmente: destra e sinistra, filo-Israele o pro-Palestina. Ci divide anche verticalmente: alto e basso, governi e società civile.

La politica è divisa, come ovvio. Si schiera con gli uni o con gli altri, o più precisamente contro gli uni o contro gli altri: dimenticando che potrebbe stare con l’uno e con l’altro quando sono nel giusto, contro l’uno e l’altro quando non lo sono, ma dovrebbe innanzitutto stare con le vittime (tutte), gli innocenti, i violentati, i massacrati, i deportati, gli affamati, i perdenti e i perduti, ovunque siano. Complessivamente, tuttavia, appare inattiva, inefficace, incapace. Anche quando prende (finalmente e tardivamente) posizione, e comincia a riconoscere i torti dell’aggressore, smettendo di fare distinguo insostenibili tra morti e morti, tra bambini e bambini, lo fa timidamente, con parole insopportabilmente neutre, con diplomatica cautela, con perbenistica condiscendenza, evitando di dire pane al pane, di nominare ciò che accade con il suo nome, per evitare parole sgradevoli. Pochi, pochissimi, se hanno potere, hanno anche il coraggio di dire che Israele, con questa guerra, è andato oltre tutti i limiti possibili e immaginabili dell’orrore, che le sue azioni non hanno più giustificazioni, essendo la sua reazione (ammesso e non concesso che sia solo una reazione al 7 ottobre) incommensurabile. Che pagherà esso stesso un prezzo immenso, avendo in buona misura già dilapidato un credito enorme: di reputazione, di simpatia, di consenso, di dignità morale. La parte peggiore della politica e del potere occidentale (perché, sì, è l’Occidente che si è autoisolato nel sostegno incondizionato – o ancora troppo poco condizionato – a Israele) fa anche di peggio, immaginando una oscena Riviera di speculazioni immobiliari e finanziarie miliardarie su una terra rubata ad altri con la forza, deportando intere popolazioni.

Ecco allora che la società civile, di fronte a uno spettacolo indecoroso e inguardabile, reagisce: la Global Sumud Flotilla è parte, solo una parte, di questa reazione globale e diffusa, insieme a manifestazioni di solidarietà, controinformazione, richieste di boicottaggio, o semplicemente di uscita dal silenzio e dall’indifferenza. Sì, certo, c’è un elemento spesso ideologico e non solo umanitario, in questa azione. Sì, certo, c’è un’attenzione geopolitica selettiva (“e allora il Sud Sudan, dove è in corso un genocidio anche peggiore?”, si dice: come se chi lo dice, invece, se ne interessasse…). Sì, certo, c’è anche una quota di partigianeria politica, più interessata allo schieramento che al merito. Sì, certo, c’è anche tanta ingenuità. E sì, certo, ci sarà anche un po’ di protagonismo in favore di telecamere. Ma è la prima e unica iniziativa veramente transnazionale (quasi cinquanta i paesi coinvolti), e con una valenza simbolica forte, che si è vista, in quasi due anni: i governi non hanno saputo fare di meglio – e la vita collettiva ha invece bisogno anche di simboli, di emozioni, di spinte valoriali incarnate. È, anche, una iniziativa dal basso, che nasce da un impegno diffuso, ramificato, diversificato nelle sue motivazioni (politiche, religiose, umanitarie): che coinvolge enti locali che sostengono ufficialmente l’iniziativa, prese di posizione di sindacati dei lavoratori (con minacce di chiudere i porti in caso di blocco della missione) e, lo vedremo con l’inizio dell’anno scolastico e accademico, mobilitazioni di studenti. Con gente che è disposta a correre dei rischi, e a pagare un prezzo personale (cosa che non si può dire dei governanti del mondo). E, soprattutto, è qualcosa di reale: c’è, esiste, è in campo. Mentre la cautela intollerabile della realpolitik finora non ha prodotto nulla di concreto: anzi, con la sua sostanziale ignavia ha consentito il proseguimento e addirittura l’aumento di intensità del massacro.

Ancora una volta, sono le generazioni più giovani che ci mandano un segnale. Sta a noi coglierlo, o meglio accoglierlo, o rifiutarlo con supponenza e degnazione: dall’alto (o dal basso) del nostro cinismo, della nostra pigrizia anche intellettuale, della nostra incapacità di immaginare un’azione, e un pensiero che la supporti. Come se la cosa non ci riguardasse. Non è così. Ce ne accorgeremo presto.

 

L’orrore oltre i limiti. La tragedia di Gaza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2025, editoriale, pp. 1-5

L’anima perduta dell’Occidente

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Occidente

1670481019-pota-1-142188di Stefano Allievi

Quando è successo, che l’Occidente ha smesso di essere quello che diceva e credeva di essere – l’avamposto della democrazia e dei diritti universali – generalizzando un regime di doppia verità, per cui ciò che vale per noi e al nostro interno (a cominciare dal rispetto del diritto alla vita e alla dignità della persona umana) non può e non deve valere per gli altri?

Dove è stato discusso e deciso, che tutto ciò che era un valore prima (solidarietà, apertura, libertà anche per gli altri e non solo per noi, umanità) oggi sia considerato una debolezza e un disvalore?

Come è successo, che abbiamo perso l’anima?

Ecco, non sappiamo quando, dove e come è successo, ma molti di noi, sempre più spesso, hanno netta la sensazione che sia successo.

Eravamo visti come la meta da raggiungere: e fisicamente, visto che continuiamo a essere più ricchi e sviluppati di altri, lo siamo ancora. Ma in passato dettavamo anche gli standard valoriali, o avevamo la presunzione di farlo. Oggi, da questo punto di vista, siamo sempre più lontani dal resto del mondo: un po’ perché gli altri non sono più sicuri che valga la pena essere come noi, e un po’ perché siamo noi ad allontanarci da noi stessi e a respingere gli altri.

Lo si vede bene sulle grandi questioni della geopolitica: dove sempre più spesso, anche all’assemblea generale delle Nazioni Unite, quasi tutto il resto del mondo (Africa, Asia, America Latina) vota in maniera diversa da noi (è la piccola Europa, con gli Stati Uniti, a essere isolata), e preferisce votare con Russia e Cina, pur non amandone il modello di sviluppo e non abbracciandone i valori.

95Siamo apertamente dileggiati per la nostra incoerenza, e non di rado disprezzati dal resto del mondo, isolati nella nostra antica e coloniale presunzione di centralità. Il nostro plateale doppio standard nei confronti di Israele ne è l’immagine più forte: basta immaginare una banale inversione di ruoli (con i palestinesi che fanno agli israeliani il dieci per cento di quanto gli israeliani hanno fatto ai palestinesi, e non da oggi), per cogliere la nostra evidente contraddizione – quanto ci saremmo indignati, e quanto prima avremmo agito, a parti invertite! Ma anche rispetto all’Ucraina, in fondo, ci preoccupiamo di più di programmare la sua futura ricostruzione, dopo tutto nel nostro interesse, che di evitare che venga distrutta.

Ma vale anche per le nostre questioni interne. Come lo sdoganamento di linguaggi civilmente e persino giuridicamente offensivi e apertamente ostili (anche qui: basta immaginarli a parti invertite), che ci erano almeno istituzionalmente estranei, a proposito di diversi, immigrati, musulmani, gay, transgender, o quale che sia il nemico di turno. E non si tratta solo degli Stati Uniti. Loro stanno tracciando la strada. Ma l’abbiamo imboccata, in parte, anche noi: non foss’altro perché assistiamo a questa mutazione senza stigmatizzarla, in pavido e complice silenzio.

Quando è successo che il nostro storico alleato si è trasformato, da faro e avamposto della nostra (e sottolineo: nostra) comune civiltà, a luogo da non frequentare e esempio da non seguire? Quando ha smesso di essere il fratello maggiore da imitare, quello avanti di vent’anni su quello che sarebbe stato anche il nostro futuro, per diventare il cugino imbarazzante da evitare, salvo giusto nelle ricorrenze familiari che ci obbligano a incontrarci, ma di cui tolleriamo e sostanzialmente appoggiamo le mattane, perché è grande e grosso e potrebbe farci del male?

tramonto-occidente-notteCome è stato possibile che la terra delle libertà e delle opportunità, da cui avevamo creduto di imparare la democrazia, e che la nostra libertà l’hanno difesa e ce l’hanno restituita pagando un pesante tributo di sangue, diventasse un luogo di un conformismo e di un servilismo istituzionale imbarazzante? Dove scene di individui armati, col viso nascosto dai passamontagna, che oltre e contro ogni regola innescano raid contro innocenti messi in carcere o deportati senza processo, diventassero immagini quotidiane e familiari nelle città, in fondo accettate nell’indifferenza dei più? Quando esattamente è diventato normale diminuire platealmente le tasse ai ricchi per aumentarle ai poveri? E, del resto, anche noi, quando esattamente abbiamo discusso e deciso di spendere il 5% del nostro prodotto interno lordo in armi (o almeno di dire che lo faremo), quando spendiamo il 4% in educazione e istruzione?

Non sappiamo dove è stato discusso. Sappiamo che tutto questo qualcuno l’ha deciso, e molti lo mettono in pratica. E ne pagheremo il prezzo, tutti noi. Con un progressivo e imprevedibile isolamento internazionale (certo: tanto continuiamo a essere i più ricchi – ma le cose, gli equilibri, stanno cambiando anche da questo punto di vista, e più rapidamente di quel che crediamo). Con una drammatica caduta reputazionale, di cui ancora non ci rendiamo conto. E con il disprezzo delle nostre stesse generazioni più giovani, quelle dei nostri figli e nipoti, che ci giudicheranno (hanno già cominciato a farlo) per quello che hanno visto, o meglio non hanno visto da parte nostra, dalla lotta (quasi abbandonata) contro il climate change al nostro continuo voltarci dall’altra parte a Gaza (e in Cisgiordania, peraltro, dove non ci sono nemmeno gli alibi che si pretendono validi altrove). 

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
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Stefano Allievi, professore di Sociologia e direttore del Master in Religions, Politics and Global Society presso l’Università di Padova, si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso, con particolare attenzione alla presenza islamica. Tra i suoi libri Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET 2021) e Il sesto continente. Le migrazioni tra natura e società, biodiversità e pluralismo culturale (con G. Bernardi e P. Vineis, Aboca Edizioni 2023). Per Laterza è autore di: Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna, 2016); Immigrazione. Cambiare tutto (2018); 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (2018); La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (2020); Governare le migrazioni. Si deve, si può (2023), Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni (2025).

A malinquorum. Qualche riflessione post-referendum

Salvo i dettagli su numeri esatti e percentuali, il referendum è finito come tutti sapevano che sarebbe finito: con il mancato raggiungimento del quorum, e la non vittoria dei sì, maggioritari tra i voti espressi ma insufficienti e dunque, in definitiva, inutili.
A questo punto qualche riflessione è d’obbligo. Sull’utilizzo del referendum, per cominciare. In un paese in cui la politica non decide nulla, nemmeno (men che meno) sui grandi principi e le battaglie valoriali – si pensi ai diritti civili, alle coppie omogenitoriali e al riconoscimento dei loro figli, al principio di autodeterminazione e al fine vita, e tante altre questioni pure sentite e discusse – è inevitabile che si debba attendere la supplenza della magistratura, o appunto i referendum. Detto questo, il suo uso è spesso più tattico – politico nel senso di politicante – che di principio. L’abbiamo visto anche in questa tornata referendaria. Se il referendum sulla cittadinanza aveva valore di battaglia civile – di allargamento, molto concreto e sostanziale, della sfera dei diritti – gli altri sono sembrati a molti più una resa di conti interna a un campo (in questo caso, al mondo della sinistra, dove alcuni erano chiamati a votare contro norme che avevano approvato in passato): un tentativo, legittimo ma obliquo, di far pesare leadership e organizzazioni in funzione di indirizzo politico e egemonia ideologica su un’area politico-elettorale. E il fatto che quattro quesiti su cinque fossero di questo tenore, e per giunta su aspetti molto tecnici e in qualche caso opinabili nelle loro conseguenze, ha di fatto oscurato e marginalizzato – e quindi danneggiato – la discussione sull’unico che aveva un vero valore civile. E forse è il momento che i promotori di referendum comincino a ragionare sugli effetti che ha il non vincerli. La situazione non rimane uguale a prima: è un sostanziale e sostanzioso passo indietro, che finisce per legittimare e rinvigorire i conservatorismi anziché le spinte innovative.
Un gigantesco interrogativo pesa anche sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.
Infine, una riflessione seria va fatta sulle forme stesse dell’esercizio del voto. Ma è mai possibile che nel 2025 non si sia ancora capaci di formulare dei quesiti che facciano riferimento al contenuto di ciò per cui si vota, anziché a formule giuridiche esoteriche, incomprensibili anche a un plurilaureato? È anche così che si uccide la democrazia, insieme ai timbrini sul certificato elettorale cartaceo (ma perché non basta la carta d’identità?) e alle matite copiative, e altri ridicoli rituali burocratici senza alcun senso della realtà e della storia, impensabili e persino indecenti in epoca di intelligenza artificiale. E la responsabilità è di tutti, destra sinistra e centro. Ma è mai possibile che non si sia capaci di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.

Senza quorum?, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 giugno 2025, editoriale, pp. 1-2

I referendum non sono tutti uguali. Perché quello sulla cittadinanza è il più importante.

Il referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché

di Stefano Allievi

https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/politica/25_giugno_06/il-referendum-piu-importante-e-quello-sulla-cittadinanza-vi-spiego-perche-b2ca57b1-e0ee-4a7b-aa7e-70570f470xlk.shtml

Non tutti i referendum sono uguali. Non tutti hanno lo stesso valore e lo stesso peso. E questo a prescindere dalle convinzioni di ciascuno di noi.
I cinque referendum per cui siamo chiamati a votare sono tra loro molto eterogenei, e questo rischia di avere effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi sono sul tema del lavoro, e hanno a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Uno invece si occupa di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccano aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni che abbiamo): ma non trasformano la conformazione della società in maniera radicale. Quello sulla cittadinanza, invece, per vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si salda con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale.

I testi

I testi dei quesiti sono tutti e cinque incomprensibili. E sarebbe il caso di predisporre una modifica delle norme che vincolano a una stesura meramente burocratico-formale dei quesiti (volete voi l’abolizione dell’art X della legge Y?) per favorire una scrittura dei testi basata sulla comprensibilità dei contenuti (altrimenti, come stupirsi di una sempre più scarsa partecipazione a ciò che viene impedito di capire?). Ma se i quesiti sul lavoro toccano più marginalmente la vita delle persone, quello sulla cittadinanza decide sul “diritto ad avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt. Di un’idea di società, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decide chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomiglia più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.

La cittadinanza

Cosa chiede questo referendum? Di far scendere gli anni di residenza necessari per poter avanzare la domanda di cittadinanza. È il modo migliore per arrivare a una nuova normativa? No, evidentemente. Il tema avrebbe meritato un’ampia discussione parlamentare, che avrebbe fatto salire anche la consapevolezza del paese sul tema. Ma la politica non ha voluto farla: come su tutte le questioni importanti ma divisive (e tutte le questioni importanti lo sono) preferisce abdicare al suo compito. Motivo per cui, come sulle tematiche assai sentite dei diritti civili, tocca aspettare le sentenze della Corte Costituzionale. O, appunto, i referendum.
I promotori del referendum, avendo solo la possibilità di abrogare qualcosa (la normativa italiana non contempla il referendum propositivo), hanno scelto una strada semplice: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ridurre i tempi, portando gli anni necessari per poter fare domanda da dieci a cinque (come in Germania, in passato il paese europeo con lo ius sanguinis più rigoroso, ma anche Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo, mentre in Austria e Finlandia sono sei). Il problema è che in Italia non sono reali: lo stato si prende ufficialmente tre anni di tempo per rispondere, ma spesso sono di più (senza conseguenze: nessuno fa causa a uno stato che può decidere se siamo suoi membri), e quindi si arriva quasi ai dieci sostanziali (quindici, oggi).

Le conseguenze

La riduzione dei tempi non tocca solo chi può presentare la domanda (molti non lo faranno comunque, per disinteresse, o perché cittadini di paesi che non contemplano la doppia cittadinanza). L’acquisizione della cittadinanza dei genitori andrebbe a ricadere automaticamente sui figli minori (sono esclusi quindi i minori stranieri non accompagnati), intervenendo quindi sul mai approvato ius scholae: una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (in realtà meno, per i motivi detti prima), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione frequenta le nostre scuole insieme ai nostri figli. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro compagni considerano loro pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono di origine straniera. Ma a cui sono negati i diritti che hanno i nostri figli. E a cui restituiamo ogni giorno, per questo solo fatto, un messaggio di esclusione, di rifiuto. Un messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile considerarlo un incentivo all’integrazione. E quindi un vantaggio per noi, autoctoni.

Il referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 giugno 2025

L’opposizione (e la leadership) che non c’è. La risposta di Alessandra Moretti

Ho scritto alcune centinaia di editoriali su, pro o contro qualcuno o qualcosa (quasi cinquecento, solo per il “Corriere del Veneto”). Possono piacere o meno, essere condivisi o meno, ma sono analisi e opinioni. Anche quando riguardano la politica. Spesso il tema più caldo: non per i lettori, ma per coloro di cui si parla.

Ho scritto parecchi editoriali critici – come è dovere della stampa fare – sul presidente della regione, su qualche iniziativa della giunta, su altri membri della medesima, su leggi regionali che non condividevo, sui partiti della maggioranza. I media sono o dovrebbero essere delle specie di guardiani della democrazia (quando non sono – e purtroppo spesso sono – dei meri megafoni del potere). Mai il presidente della regione ha risposto (l’ha fatto, un paio di volte, l’assessore Donazzan, un’altra che non gradisce le critiche). Così come ne ho scritti di apprezzamento, quando è stato il caso: come pure è giusto fare.

Ieri ho scritto un editoriale molto critico sull’inesistenza di una leadership dell’opposizione, e sull’opposizione stessa (lo trovate qui). Raramente ho ricevuto così tante reazioni positive, in privato (messaggi su whatsapp, mail, telefonate): anche, direi soprattutto, dall’interno del principale partito di opposizione, di cui mi occupavo nel testo, e in generale da persone che all’opposizione si ritrovano, ma ne vorrebbero una diversa. Ho ricevuto anche educate ulteriori informazioni, da parte di chi ha voluto correttamente puntualizzare, senza polemica, alcune mie osservazioni. E poi ho ricevuto la lettera che trovate di seguito, che il mio giornale ha correttamente pubblicato, e che – dopo averne parlato con il direttore – abbiamo lasciato concordemente senza risposta. E’ uno sfogo, e come tale va preso. Di cui è interessante il tono complessivo di vittimismo, di autogiustificazione, e anche di sindrome da lesa maestà: come se criticare non si potesse. Come ha sintetizzato un amico, influente opinion leader, dopo aver letto questa risposta, “Questo è il problema: invece di parlare con la gente, scrivono a chi scrive di loro… soprattutto non rispondono a quelli del loro stesso partito che dietro le quinte ne dicono peste e corna”. Forse è precisamente uno dei motivi per cui l’opposizione non riesce a farsi ascoltare.

Io apprezzo questa risposta: anzi, farei volentieri un dibattito pubblico sul tema, anche con la diretta interessata. Non mi turba per nulla: amo il dibattito, che è il sale della democrazia, e come ho detto ieri al mio direttore, considero sacrosanto il diritto di replica. Non è questo, dunque, il problema. Il problema è la distanza siderale dalla realtà che da questa risposta traspare. Il non voler prendere atto che se il consenso non si aggrega, se l’informazione su ciò che si fa non passa, forse la responsabilità è dell’emittente, non del ricevente, o dell’osservatore.

Nel merito. Il Partito Democratico può fare quello che vuole, magari anche molto di bellissimo, in consiglio regionale. Se, fuori, non se ne accorge quasi nessuno, se la pubblica opinione non ne è consapevole, qualche domanda sull’efficacia del lavoro fatto (o almeno sulla capacità di comunicarlo, che è comunque parte del fare politica) me la porrei.

Capisco il sacrificio di Moretti, che ha rinunciato al seggio europeo per quello regionale, comunque sicuro, in quanto candidata presidente dell’opposizione. Diciamo che il paracadute ai più non sembrerebbe così sacrificante, punitivo e svantaggioso.

Sui supposti omaggi di chi scrive al governatore, invito semplicemente a digitare il nome di Luca Zaia sul motore di ricerca del mio sito, e vedere cosa salta fuori. E anche sul mio supposto maschilismo, o antifemminismo, che rinvio alla mittente: sia per quanto scritto in tanti anni sulla condizione femminile, sia per le tante critiche a personaggi di sesso maschile che non mi sono mai risparmiato (anche in questo stesso editoriale, peraltro). Temo sia fuori rotta.

Non commento sulla “chiara visione di quello che dovrà essere il Veneto del futuro” che ha il PD (visione che naturalmente auspico): diciamo che credo che, se fosse così evidente, qualche elettore di più se ne sarebbe accorto.

Infine. Io non denigro la politica. Dopo aver criticato molto più frequentemente, come giusto, chi governa, ho espresso qualche critica anche a chi vorrebbe governare al suo posto. E la distinzione finale tra la “pancia degli elettori” e i “nostri elettori” temo mostri, più che altro, la distanza siderale tra alcuni eletti e i potenziali elettori: che, tutti, sono dotati sia di pancia che di testa.

“Caro direttore,

le scrivo dopo aver letto l’editoriale di Stefano Allievi pubblicato ieri sul vostro Giornale, un articolo a mio avviso caratterizzato da “debolezza strutturale”, per usare le parole dello stesso Allievi nei confronti del Partito democratico.

Il vostro giornalista infatti tende etichettare “evanescente” ogni esponente dell’opposizione a Zaia degli ultimi anni, senza verificare cosa si sia invece portato a termine. Mi sarei aspettata una verifica dei fatti più accurata.

Ho letto giudizi superficiali sul lavoro dell’opposizione in consiglio regionale, quando invece il Partito democratico, guidato da Vanessa Camani, incalza quotidianamente la Giunta di centro destra su temi come sanità, trasporto pubblico locale, emergenza abitativa e gli effetti devastanti del cambiamento climatico.

Anche fuori dal Consiglio regionale ci sono colleghi del Partito democratico, per nulla evanescenti, che portano avanti gli interessi del territorio e dei cittadini a livello nazionale ed europeo. Tra questi ci sono anche io, che non sono stata “mandata” in Europa, come scritto da Allievi, ma ho raccolto la fiducia di 83mila persone nelle ultime elezioni europee del 2024, che restano una delle sfide elettorali più difficili e competitive.

Ma aggiungo: quando nel 2015 mi è stato chiesto, dall’allora Presidente del Consiglio Renzi, di candidarmi in Veneto contro Luca Zaia, mi sono dimessa dal Parlamento europeo prima ancora di sapere i risultati della competizione che poi ha visto il PD attestarsi al 22.74% (senza il Movimento Cinque stelle che, con Berti, prese l’11,88%).

Sono rimasta in consiglio regionale per oltre per quattro anni, dove mi sono impegnata, tra le altre cose, contro la riforma della sanità voluta da Zaia, riforma che ha svuotato il servizio socio sanitario veneto. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

Viene un po’ tristezza a leggere certi editoriali perché siamo ancora lì, al trito luogo comune che sa tanto di omaggio al potente governatore la cui leadership volge al termine ma il cui regno va mantenuto a tutti i costi, anche infangando il lavoro prezioso, per una democrazia sana, che fa l’opposizione e condendo il pezzo di imbarazzanti fake news. Le donne poi sono il bersaglio preferito: non sono mai stata un’assenteista, prova ne è il mio rating di presenza nelle aule parlamentari e nelle commissioni, come facilmente riscontrabile.

L’opposizione, in Veneto e in Europa, non è evanescente, infatti ogni giorno ci battiamo per fatti concreti: il reddito di libertà per le donne vittima di violenza; l’impegno per la ricerca scientifica e la medicina di genere; la lotta al cancro; la difesa delle nostre aziende contro i dazi americani; la qualità dell’aria che respiriamo o l’acqua che beviamo; per le donne vittime di stupri di guerra; perché l’Europa guidi un processo di pace.

Per le prossime elezioni regionali, il partito democratico sta costruendo un’ampia coalizione che comprenderà anche forze civiche capaci di proporre ai veneti un programma alternativo agli ultimi trent’anni di centro destra. Il Pd ha una chiara visione di quello che dovrà essere il Veneto del futuro: capace di garantire un lavoro sicuro e dignitoso, di sostenere le imprese e di proteggere il territorio e la salute.

Denigrare la politica, non è mai una buona idea. Ben vengano le critiche costruttive e l’attento lavoro dei giornalisti che ne raccontano la cronaca, ma il facile populismo che parla solo alla pancia degli elettori e non ai nostri elettori non fa bene alla democrazia.

Alessandra Moretti”

Veneto: l’opposizione che non c’è

Anni fa, a un incontro informale con alcuni alti dirigenti del Partito Democratico, a domanda su cosa avrebbe potuto fare l’opposizione per vincere le elezioni in Veneto, un importante operatore culturale e fine osservatore delle vicende politiche regionali rispose: “Candidare Zaia”. Una battuta, certo. Che coglie l’importanza della figura di Luca Zaia come coagulo personale di un magma politico tutt’altro che omogeneo, che spazia tra una destra che in parte controlla e in parte lo controlla (mettendogli qualche bastone tra le ruote), e un mondo liberal che ha l’abilità di rappresentare, almeno sui temi etici e dei diritti civili (dei cittadini). Ma che coglie, soprattutto, l’assenza di alternative personali, e quel che è peggio politiche, al monocolore conservatore che ancora domina la regione, e ragionevolmente vincerà anche le prossime elezioni amministrative, seppure in un mare di astensionismo, il vero partito maggioritario, e anche la vera opposizione.

Questa peculiare, totale assenza di opposizione è la stupefacente caratteristica del centro-sinistra veneto. Eppure dovrebbe essere persino più facile. Poiché non hai alcuna possibilità reale di vincere, almeno nel breve periodo, tanto varrebbe farsi sentire, alzare la voce, dire qualcosa di sinistra purchessia, o semplicemente dire la qualunque, magari in maniera radicale, forte, provocatoria, tanto per farsi notare: questo per quel che riguarda la politica. Mentre per quel che riguarda la leadership sarebbe ragionevole aspettarsi di veder coltivare negli anni due o tre figure, magari dinamiche, magari giovani, capaci di emergere sopra l’invisibilità generale. Non è così, e lo si è visto in tutte le elezioni precedenti, in cui la principale forza di opposizione, il Partito Democratico, nelle sue varie incarnazioni, conscio dei propri limiti di leadership, ha sempre cercato un “papa straniero”, per lo più trovato all’ultimo momento, cui affidare il proprio destino. Un imprenditore, come nel caso di Massimo Carraro nel 2005 o di Giuseppe Bortolussi nel 2010, o addirittura il leader di una forza politica minore ma alleata, di fresca costituzione e incerta personalità, come nel caso di Arturo Lorenzoni nel 2020. Candidature che avevano in comune di non collegarsi strettamente alle forze politiche, di non creare continuità, e di non costituirsi nemmeno come leadership. Carraro, ex-vicepresidente di Confindustria Veneto, in precedenza eletto in Europa come indipendente per i Democratici di Sinistra, si dimise un anno dopo la sua elezione. Bortolussi, nella costernazione del PD, fin dal suo primo intervento come candidato mise in chiaro che non era iscritto a nessun partito, e si comportò di conseguenza dopo le elezioni, dedicandosi più alla sua creatura, la CGIA di Mestre, che alla crescita dell’opposizione. Lorenzoni, professore universitario prestato alla politica, è sparito quasi subito dai radar, non rappresentando l’opposizione, e nemmeno il movimento che l’aveva imposto come candidato presidente, passando al gruppo misto. In fondo non ha fatto eccezione nemmeno Alessandra Moretti, candidata presidente nel 2015 e lei sì esponente del principale partito di opposizione, la cui storia mostra eguale evanescenza in termini di leadership: entrata nel 2008 in consiglio comunale come capolista di una lista civica a Vicenza, portata a visibilità nazionale come giovane portavoce da Bersani nel 2012, eletta deputata nel 2013, mandata a Bruxelles come capolista alle elezioni europee nel 2014, candidata – saltando da un mandato all’altro – presidente regionale nel 2015, diventa capogruppo, ma è costretta a dimettersi dal ruolo per le frequenti assenze anche nelle cruciali sedute di discussione del bilancio, una volta dichiarandosi ammalata mentre dai social risultava in viaggio di piacere in India (verrà poi nuovamente mandata in Europa). L’ultimo politico vero (anche se atipico per interessi e verve) è stato insomma Massimo Cacciari nel 2000, un quarto di secolo fa: l’ultimo, anche, che mostrasse di avere un’idea e una visione del e sul Veneto.

Oggi la storia si ripete. A pochi mesi dalle elezioni il Partito Democratico non ha ancora un candidato, e non avendo figure forti all’interno è alla disperata ricerca di qualcuno che lo rappresenti, un giorno offrendo la candidatura alla biologa dell’università di Padova Antonella Viola (che ha rinunciato con un video sui social), un altro sondando l’ex-calciatore Aldo Serena (che ha ugualmente declinato), anche se nessuno sembra sapere chi li ha cercati, e a nome di chi. Con ciò mostrando che, se non si ha una politica, un’idea forte, una visione appunto, non si può avere neanche una leadership che la possa rappresentare, e la si cerca inutilmente altrove. Segno di una debolezza strutturale, e di un atteggiamento rinunciatario e privo di ambizione, se non già di una sconfitta quasi inconsapevolmente cercata.

 

Il centrosinistra veneto e l’assenza di opposizione, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 aprile 2025, editoriale, pp. 1-7

Perché è giusto il no al terzo mandato

La storia della democrazia è la storia di una costante e progressiva limitazione dei poteri di chi governa: quello del monarca assoluto grazie ai parlamenti, la divisione tra potere legislativo esecutivo e giudiziario, fino ai limiti temporali nell’esercizio dei mandati. Un processo di continua ridefinizione di un equilibrio precario, imperfetto per definizione, soggetto a continue revisioni e a conflitti interni, tuttavia necessari per ripensare e anche ribadire il senso del processo stesso, la coerenza tra i suoi fini e i mezzi per raggiungerli.

Il limite dei mandati è uno degli oggetti del contendere. Chi esercita il potere vuole continuare a farlo: il senso della richiesta di aumento del numero dei mandati è tutto lì. Senza bisogno di giustificazioni alte, come quella della volontà popolare: che, non a caso, viene tirata in ballo per giustificare la rielezione, ma nessuno evocherebbe se si trattasse del livello delle retribuzioni dei politici, che la volontà popolare vorrebbe certamente diminuire. Né si prende in considerazione che questa supposta volontà popolare è espressa da un numero di elettori sempre più piccolo (una minoranza, tecnicamente, neanche tanto ampia), ciò che mette in crisi l’idea stessa di rappresentatività reale.

Quasi ovunque esistono limiti alla durata del potere, esecutivo in particolare: dalla presidenza degli Stati Uniti ai sindaci delle città dimensionalmente significative. Perché non anche parlamentari o consiglieri? In alcuni casi il limite c’è o è autoimposto, in altri sarebbe auspicabile, per favorire il ricambio: ma le situazioni sono imparagonabili. Chi governa ha un potere enormemente più ampio rispetto a chi rappresenta. Ed è nell’esecutivo che si annidano i maggiori rischi di creare consorterie, clientele, ‘scambi’ impropri, lavori per i soliti noti, forme di corruzione anche soft, servilismo cortigiano, autoperpetuazione, ma anche solo comportamenti abitudinari, che per definizione non sono mai innovativi (mentre il mondo cambia). E poi avere una scadenza obbliga i partiti a preparare la successione, il ricambio, il ringiovanimento anche di visione, mentre i leader, per quanto popolari, invecchiano e si irrigidiscono nella propria.

È fuorviante invece ricorrere a paralleli implausibili, come quelli con professioni ad alto tasso di tecnicità, e con funzioni completamente diverse, come i magistrati o i professori universitari (l’intento polemico è evidente, visto che la critica ai due mandati viene spesso, con argomenti diversi, da questi mondi). Il bersaglio è peraltro scelto male: i professori universitari, per citare la categoria cui appartengo (ma vale per molti altri), nei loro organismi rappresentativi – rettori e direttori di dipartimento, ma anche solo presidenti di corso di laurea – sono precisamente soggetti a un limite di mandati, e questo per scelta stessa delle università. Semmai sarebbe giusto ragionare non sull’abolizione ma sull’estensione del limite ad altri tipi di cariche rappresentative, anche di tipo privatistico (ancor più se finanziate con denaro pubblico): dalle rappresentanze sportive a quelle delle categorie professionali.

Luca Zaia è certamente un politico di successo. Gode, per suo merito, di un consenso elevatissimo, molto al di là del suo partito e della stessa coalizione che lo sostiene. Segno evidente di una straordinaria capacità di navigazione e intuizione politica. Proprio per questo mette malinconia che la fine del suo mandato coincida con la discussione sulla sua continuazione. Manda un segnale crepuscolare il fatto che chi già vent’anni fa era vice-presidente, e che se avesse ottenuto il quarto mandato da presidente sarebbe durato quanto il più noto e non democraticissimo ventennio, lasci coincidere la sua fine non con un messaggio alto di innovazione, ma con uno di pura conservazione, come ceto politico e anche personale. Lascia intravedere, anche se non è questa l’intenzione, che i politici si preoccupano soprattutto di sé stessi. Non proprio un invito alla partecipazione rivolto a un’opinione pubblica già disillusa di suo. Senza contare l’imbarazzante segnale di voler cambiare le regole del gioco a partita in corso: partita che si era iniziata conoscendone le regole di ingaggio.

Su una cosa tuttavia Zaia ha ragione. È scorretto che regioni a statuto speciale o province autonome possano fare differentemente, e alcune vadano senza vergogna in questa direzione. Ma dovrebbe, semmai, essere l’occasione per rimettere mano alle forme attuali della ‘specialità’, anch’esse storicamente superate e discutibili nelle modalità in cui si sono sviluppate.

 

Perché no al terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 15 aprile 2025, editoriale, pp. 1-7

Meloni e l’Europa. Quando i sovranisti cedono sovranità. Senza accorgersene. O senza ammetterlo.

La Commissione Europea approva una stretta sui migranti, un potenziamento dei rimpatri, e una apparente apertura sui centri di espulsione anche in paesi terzi. Ma è davvero una vittoria del governo italiano, che legittimerebbe i centri in Albania? Più no che sì. La stretta c’è. Anche con decisioni di semplice buonsenso, che si sarebbero potute adottare molto prima, come quella di uniformare le pratiche dei vari paesi e considerare l’espulsione da un paese come un’espulsione dall’intera UE, e impedendo il passaggio da un paese all’altro. Al contempo ci sono decisioni che fanno orrore alla civiltà giuridica occidentale, e che nel complesso non avvantaggiano nessuno, nemmeno le destre, come il fatto di poter detenere fino a 24 mesi (due anni!) nei centri persone che non hanno commesso alcun reato penale, ma semplicemente si sono viste rifiutare una richiesta d’asilo.

Al di là di questo, quale è la vera vittoria per il governo Meloni, che parla di legittimazione della sua linea? Propagandistica, mediatica: nulla più. Poter dire che ha convinto l’Europa. E che i centri in Albania sono cosa buona e giusta. Solo che non è così vero. La Commissione dice di volerli sdoganare, ma si guarda bene dal proporli come modello, e a tutt’oggi non c’è un solo paese europeo che abbia adottato una linea simile: armiamoci e partite, insomma. La UE poi li limita ai richiedenti asilo denegati, cioè la cui richiesta è stata respinta: quelli in Albania sono nati invece per selezionare gli ingressi (ma si può sempre cambiare). In terzo luogo, il regolamento approvato prevede l’istituzione di un organo indipendente per monitorare la loro gestione e il rispetto dei diritti umani (di cui saranno comunque responsabili i governi europei e Frontex): il che lascia presagire a livello europeo conflitti molto simili a quelli con la magistratura a livello italiano. La politica non potrà fare quello che si vuole, insomma. Come non si è potuto sulla vicenda della nave Diciotti e l’impedimento allo sbarco dei richiedenti asilo salvati in mare. Infine, c’è la questione dei tempi. Il regolamento europeo è una proposta. Che, come si è visto, non convince tutta la maggioranza che sostiene Ursula von der Leyen, visto che i socialdemocratici hanno votato contro. Ma il testo deve poi passare al Parlamento Europeo, dove si faranno tutte le mediazioni del caso, e infine dovrà essere approvato dal Consiglio, cioè dai governi. Se ne parlerà nel 2027, insomma. E intanto che ne faremo dei centri? E quanto spenderemo inutilmente per mantenerli in funzione pur senza alcuna funzione effettiva?

Vale la pena sottolineare una nota politica di cui non si è accorto nessuno, ma che apre a qualche (positiva) sottile ironia: i partiti e i governi sovranisti, che hanno sempre rifiutato la gestione europea delle migrazioni a favore della prerogativa nazionale, hanno finalmente accettato una non secondaria cessione di sovranità in favore dell’Europa. Un aspetto che apre a sviluppi significativi anche per il futuro: sulle politiche dell’immigrazione e forse anche su altro.

Resta un problema di sensatezza complessiva del progetto, che è chiaramente indirizzato solo alle pubbliche opinioni anti-immigrati: un riflesso pavloviano di risposta alla crescita elettorale dei movimenti di estrema destra. I rimpatri sono un pezzo delle politiche, e va bene. Nulla si dice tuttavia sui canali regolari di ingresso, sul fabbisogno di manodopera – non risolvibile per via demografica: chi dovrebbe sostituire chi esce dal mercato del lavoro, semplicemente, non è mai nato – che, se non coperto, ci impoverirà radicalmente (non è un’ipotesi: è un dato, su cui ci aspetteremmo risposte). Ma nulla si dice nemmeno sulle politiche di regolarizzazione e su quelle di integrazione: che saranno invece (le seconde soprattutto) la vera posta in gioco culturale dell’Europa di domani, ormai largamente plurale (etnicamente, religiosamente, culturalmente appunto). Ecco, forse servirebbe uno sguardo un po’ più complessivo. Che, ancora, manca: siamo ancora alla miopia selettiva di chi guarda al proprio interesse elettorale, anziché a quello autenticamente nazionale.

In “Quotidiano del Sud”, 13 marzo 2025, editoriale, p.1

Zaia e il terzo mandato. Perché non è una buona idea

Le ragioni e le disragioni del terzo mandato ai presidenti delle regioni sono state ampiamente discusse. Chi vuole abolire il limite, usa l’argomento del consenso: se il popolo vuole così, chi siamo noi per impedirglielo? Un modo superficiale e tendenzioso di intendere la democrazia: che non è una vaga espressione di volontà popolare, per come la interpreta il potente di turno (quello è il populismo: che può accontentarsi di distribuire qualche beneficio mirato, offrire un po’ di circenses, o trovare un qualche capro espiatorio, per mantenere il potere). Ma è fatta di cose scomode e indispensabili, come regole, bilanciamenti e controlli del potere. In cui il limite dei mandati gioca un ruolo eminente: non a caso è presente nei più diversi contesti. E non vale l’argomento che in altre cariche rappresentative, come parlamentari o consiglieri regionali, non c’è (anche se il fatto che se ne discuta, e che qualcuno saltuariamente lo applichi di sua sponte, fa emergere che il problema è sentito anche lì). Queste hanno un peso molto minore: il potere reale ce l’hanno le cariche istituzionali di governo. E il pericolo di periodi di governo troppo lunghi sta precisamente qui.
Il professionismo in politica ha i suoi vantaggi. E abbiamo visto in questi anni le catastrofi prodotte dai dilettanti allo sbaraglio: trovare un equilibrio non è semplice. Ma il continuismo produce concentrazioni di potere inamovibili, cerchie di cortigiani, incarichi ai soliti noti, consorterie, clientele, habitués, inerzie amministrative, rendite di posizione (dovute al fatto di esserci, non di fare), privilegi mai messi in discussione, scarsa circolazione di idee (bastano le routines), incapacità di produrre innovazione: indispensabile, dato che la società, invece, cambia. Prevale quella che Max Weber chiamava “l’autorità dell’eterno ieri”: si fa così perché si è sempre fatto così – e perché lo dice il capo, che è sempre lo stesso. È precisamente l’avere una scadenza che obbliga a mobilitare la società per rinnovare un consenso che altrimenti si erode, a formare nuove leadership o almeno a lasciare loro spazio, a elaborare idee, progetti, obiettivi, orizzonti, visioni: anche solo per evitare che il potere ce lo porti via qualcun altro, alleato o avversario. Il mero continuismo tutto questo non lo fa. E lo si è peraltro già visto: sempre le stesse persone, a fare le stesse cose, mai una scelta coraggiosa o un guizzo di originalità, in nome del principio (che non vale nemmeno nello sport, e ancora meno nell’impresa) che squadra che vince non si cambia. Le elite del potere del resto questo fanno, per mestiere: tendono a autoperpetuarsi, a procedere per cooptazione e non per sostituzione, a impedire ad altri (anche del proprio partito) di sottrarre loro il potere stesso, che corrisponde a rendite preziose, a evitare giudizi di merito e analisi critiche sul passato, e quindi l’emergere di alternative. Più lungo è il periodo di mantenimento del potere, e più il meccanismo si rafforza. E Zaia è presidente già da quindici anni: venti, se calcoliamo il periodo in cui è stato vice (salvo la breve parentesi da ministro). Se facesse anche il quarto mandato, il suo ‘regno’ durerebbe più del ventennio mussoliniano. Non un bellissimo segnale.
C’è una ragione ulteriore, tuttavia, per cambiare. La discussione sul terzo o quarto mandato è tristissima. Dal punto di vista della pubblica opinione, inguardabile. In un periodo storico di calo continuo della partecipazione al voto, e in cui alle prossime regionali si corre il concretissimo rischio che la quota di elettori scenda abbondantemente al di sotto della metà (ciò che mette in questione anche l’argomento stesso della volontà popolare), la discussione sul mantenere il potere in mano a una persona a dispetto di tutto, e anche a costo di cambiare le regole, manda ai cittadini un messaggio devastante: i politici si preoccupano solo di sé stessi, del proprio destino personale. La prova è che solo di questo si discute: non della situazione in cui viviamo, non dei problemi che toccano davvero la vita delle persone, non di dove vogliamo andare, quale progetto costruire, intorno a quali valori, ma solo con chi. Ed è un problema dell’intero ceto politico, maggioranza e opposizioni. Come si vuole che, in un paesaggio desolante come questo, poco coinvolgente nei contenuti, per nulla trascinante emotivamente, la partecipazione possa non diciamo risalire, ma almeno stabilizzarsi? Per cosa dovrebbe discutere, lottare e partecipare, un cittadino, un elettore, a maggior ragione un giovane: per il posto di qualcuno?

Il “popolo” e il terzo mandato, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 gennaio 2025, editoriale, pp. 1-3