Bambini stranieri a scuola: governare il fenomeno. Il caso Mestre

Prima o poi doveva succedere. Se non si governa un fenomeno, se lo si lascia semplicemente accadere, se addirittura ci si dice ‘contro’ per evitare di occuparsene (cosa che ha lo stesso senso di essere contro la globalizzazione, il maltempo, il trasporto pubblico o i servizi sociali, che effettivamente portano e comportano – anche – grane, e costi), lasciandolo alle logiche del mercato, come spesso accade quando si tratta di migrazioni, esso si trova da solo le sue strade per emergere. Se non si studiano le tendenze e i dati, se non si affrontano i fenomeni di cambiamento della composizione demografica e sociale delle città, se non si attivano politiche (di edilizia popolare, di integrazione, di dialogo tra neoarrivati e autoctoni, o arrivati precedentemente), se non si fanno previsioni, se non ci si confronta con lo stato d’animo della popolazione, accade che la realtà si mostri da sola all’evidenza: come è accaduto con la scuola primaria “Cesare Battisti” di Mestre, che si è trovata con 60 iscritti stranieri su 61 iscritti al primo anno, suddivisi in tre classi, di cui una sola vedrà un bambino italiano. O almeno, questa è l’immagine che passa. In realtà diversi bambini di cognome straniero sono di cittadinanza italiana, come i loro genitori, che l’hanno acquisita dopo molti anni di residenza nel nostro paese (mediamente almeno 15-20), e per lo più sono nati in Italia: quindi, stranieri solo all’apparenza – nell’inerzia della percezione, non nei fatti, e nemmeno nell’estraneità alla cultura italiana.

Non dobbiamo pensare alle scuole diversificate per lingua: come lo sono le scuole inglesi, in cui si mischiano stranieri e autoctoni per lo più privilegiati, o le scuole cinesi, come quella di Padova, che peraltro non suscitano scandalo in nessuno. Sono iniziative private, dove si insegna ovviamente l’italiano, e dove si scopre, come la ricerca ha dimostrato da decenni (chiedere a glottologi e linguisti, ma anche psicologi), che le persone bilingui, che parlano in casa o a scuola una lingua che non è quella del paese in cui vivono, al contrario di quel che si crede, hanno spesso un vantaggio competitivo, e mettono a disposizione della società una competenza linguistica e culturale in più, che può venire buona anche nel mondo del lavoro.

Qui si tratta di scuola italiana: in italiano. E di istruzione pubblica. In cui il tema è quello proprio, da sempre, della scuola in quanto istituzione universalistica: come integrare le diversità? Cominciamo da una constatazione. Le università sono valutate in classifiche di cui uno dei criteri di valorizzazione importanti è proprio il livello di internazionalizzazione: più studenti stranieri hai, più professori stranieri hai, più vali. Ora, se questo è vero per l’università, siamo proprio sicuri che non valga anche per la scuola dell’obbligo, e più in generale per l’istruzione, dal nido alle superiori? Il problema è la diversità in sé, o il fatto che non siamo attrezzati ad affrontarla, e il nostro modo di insegnare è poco aggiornato ai cambiamenti in corso?

Certo, è comprensibile una prima reazione di “fuga bianca”, come la chiama la letteratura internazionale, ovvero di iscrizione dei bambini autoctoni altrove. Ma il fatto che sia comprensibile non significa che sia la più adeguata, o la più giusta, e nemmeno necessariamente la più vantaggiosa per i diretti interessati. Nessuna catastrofe, quindi. Magari, un utile segnale che dei problemi è necessario occuparsene prima che sviluppino tutte le loro conseguenze, anziché dopo. Ma è possibile comunque attrezzarsi, come molte scuole già fanno da anni, in tutto il mondo e anche da noi. Con insegnanti di supporto per l’apprendimento della lingua. Con iniziative specifiche e mirate. Con un certo livello di sperimentazione, naturalmente monitorata (di cui avrebbe un enorme bisogno la scuola nella sua interezza, in un momento di colossali cambiamenti, tecnologici, culturali e sociali – e quelli demografici sono tra questi): è la rigidità (di programmi, metodi, ecc.) e l’inerzia (il fare come si è sempre fatto, o ‘come si faceva una volta’), che uccide, non l’elasticità, l’innovazione, la creatività.

Si colga la sfida. La si rivendichi. Si consideri il vantaggio di sperimentare l’integrazione di popolazioni maggioritariamente musulmane in una scuola pubblica, laica e pluralista: e quanto questo sia utile al paese e alle stesse comunità di appartenenza. La si faccia diventare un esempio di collaborazione costruttiva e collettiva. Si coinvolgano le buone energie della società, che ci sono: dal terzo settore alle associazioni industriali, dalle polisportive ai luoghi di produzione culturale, dalle fondazioni alle sagre, dagli oratori alle moschee e alle comunità d’origine. E ci si occupi del contorno e del contesto, non solo della singola classe o istituto. E allora la scuola continuerà a essere quello che è sempre stata, con successo, di fronte a sfide man mano differenti, spesso senza aiuti o addirittura tra gli ostacoli della società e della politica: un’agenzia di integrazione. Delle classi sociali fin dall’origine (genitori dal sud magari analfabeti, autoctoni che parlano solo dialetto, differenti livelli di reddito e di istruzione), delle diversità poi (disabilità, genere), delle etnie, delle culture e delle religioni oggi.

 

Governare il fenomeno superando le diversità, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 26 settembre 2025, editoriale, pp.1-3

Governi e società civile di fronte a Gaza. Tra Riviera e Flotilla, l’importanza dei simboli

Gaza è entrata a far parte del nostro orizzonte e del nostro immaginario, piaccia o meno. Ci unisce nell’attenzione. E ci divide nelle posizioni che prendiamo. Non ci divide solo politicamente, e per così dire orizzontalmente: destra e sinistra, filo-Israele o pro-Palestina. Ci divide anche verticalmente: alto e basso, governi e società civile.

La politica è divisa, come ovvio. Si schiera con gli uni o con gli altri, o più precisamente contro gli uni o contro gli altri: dimenticando che potrebbe stare con l’uno e con l’altro quando sono nel giusto, contro l’uno e l’altro quando non lo sono, ma dovrebbe innanzitutto stare con le vittime (tutte), gli innocenti, i violentati, i massacrati, i deportati, gli affamati, i perdenti e i perduti, ovunque siano. Complessivamente, tuttavia, appare inattiva, inefficace, incapace. Anche quando prende (finalmente e tardivamente) posizione, e comincia a riconoscere i torti dell’aggressore, smettendo di fare distinguo insostenibili tra morti e morti, tra bambini e bambini, lo fa timidamente, con parole insopportabilmente neutre, con diplomatica cautela, con perbenistica condiscendenza, evitando di dire pane al pane, di nominare ciò che accade con il suo nome, per evitare parole sgradevoli. Pochi, pochissimi, se hanno potere, hanno anche il coraggio di dire che Israele, con questa guerra, è andato oltre tutti i limiti possibili e immaginabili dell’orrore, che le sue azioni non hanno più giustificazioni, essendo la sua reazione (ammesso e non concesso che sia solo una reazione al 7 ottobre) incommensurabile. Che pagherà esso stesso un prezzo immenso, avendo in buona misura già dilapidato un credito enorme: di reputazione, di simpatia, di consenso, di dignità morale. La parte peggiore della politica e del potere occidentale (perché, sì, è l’Occidente che si è autoisolato nel sostegno incondizionato – o ancora troppo poco condizionato – a Israele) fa anche di peggio, immaginando una oscena Riviera di speculazioni immobiliari e finanziarie miliardarie su una terra rubata ad altri con la forza, deportando intere popolazioni.

Ecco allora che la società civile, di fronte a uno spettacolo indecoroso e inguardabile, reagisce: la Global Sumud Flotilla è parte, solo una parte, di questa reazione globale e diffusa, insieme a manifestazioni di solidarietà, controinformazione, richieste di boicottaggio, o semplicemente di uscita dal silenzio e dall’indifferenza. Sì, certo, c’è un elemento spesso ideologico e non solo umanitario, in questa azione. Sì, certo, c’è un’attenzione geopolitica selettiva (“e allora il Sud Sudan, dove è in corso un genocidio anche peggiore?”, si dice: come se chi lo dice, invece, se ne interessasse…). Sì, certo, c’è anche una quota di partigianeria politica, più interessata allo schieramento che al merito. Sì, certo, c’è anche tanta ingenuità. E sì, certo, ci sarà anche un po’ di protagonismo in favore di telecamere. Ma è la prima e unica iniziativa veramente transnazionale (quasi cinquanta i paesi coinvolti), e con una valenza simbolica forte, che si è vista, in quasi due anni: i governi non hanno saputo fare di meglio – e la vita collettiva ha invece bisogno anche di simboli, di emozioni, di spinte valoriali incarnate. È, anche, una iniziativa dal basso, che nasce da un impegno diffuso, ramificato, diversificato nelle sue motivazioni (politiche, religiose, umanitarie): che coinvolge enti locali che sostengono ufficialmente l’iniziativa, prese di posizione di sindacati dei lavoratori (con minacce di chiudere i porti in caso di blocco della missione) e, lo vedremo con l’inizio dell’anno scolastico e accademico, mobilitazioni di studenti. Con gente che è disposta a correre dei rischi, e a pagare un prezzo personale (cosa che non si può dire dei governanti del mondo). E, soprattutto, è qualcosa di reale: c’è, esiste, è in campo. Mentre la cautela intollerabile della realpolitik finora non ha prodotto nulla di concreto: anzi, con la sua sostanziale ignavia ha consentito il proseguimento e addirittura l’aumento di intensità del massacro.

Ancora una volta, sono le generazioni più giovani che ci mandano un segnale. Sta a noi coglierlo, o meglio accoglierlo, o rifiutarlo con supponenza e degnazione: dall’alto (o dal basso) del nostro cinismo, della nostra pigrizia anche intellettuale, della nostra incapacità di immaginare un’azione, e un pensiero che la supporti. Come se la cosa non ci riguardasse. Non è così. Ce ne accorgeremo presto.

 

L’orrore oltre i limiti. La tragedia di Gaza, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 settembre 2025, editoriale, pp. 1-5

Dieci anni fa, Aylan Kurdi. Le cose sono cambiate? Sì: in peggio

Stefano Allievi: “Canali regolari e istruzione unica via all’integrazione”

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Il 2 settembre del 2015, il corpicino di Alan Kurdi riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, diventò il drammatico simbolo della crisi migratoria. Abbiamo chiesto a Stefano Allievi, professore di sociologia all’università di Padova ed esperto di politiche migratorie, a che punto siamo oggi dopo dieci anni. «La situazione è peggiorata. Quell’immagine convinse Angela Merkel ad aprire la Germania a un milione e mezzo di persone: furono accolte dai tedeschi alle stazioni con cibo, vestiti e giocattoli. Oggi una scena del genere è impensabile».

«Chi scappa dalla sua casa non ha quasi mai altra scelta», disse allora Tima Kurdi, la zia di Alan. È ancora così?

«Sì. Chi affronta questo percorso sa che cosa rischia e non pensa di avere alternative. E non serve una minaccia drammatica, una persecuzione o una carestia: basta non avere grandi aspettative.»

L’integrazione dei turchi in Germania è stata un successo?

«Sì. La Germania ha recuperato sul piano economico e demografico ciò che ha investito. Gli immigrati di allora si sono integrati bene. Dopodiché con l’aumento dell’immigrazione aumenta anche il rifiuto dell’immigrazione. Oggi il vento va in direzione diversa dall’integrazione. Quell’esperienza non è ripetibile.»

Nel Regno Unito Nigel Farage chiede la deportazione degli stranieri. In Germania l’Afd promette la “remigrazione” degli immigrati, anche regolari. Un filo rosso unisce i populismi europei: perché?

«Le persone diverse aumentano e diventano più visibili. Poi c’è il meccanismo del capro espiatorio che, come fu per la Brexit, ritorna con risultati devastanti. In Inghilterra i ceti impoveriti trovano negli immigrati un nuovo obiettivo. Il caso britannico è clamoroso: un governo laburista che attua politiche di respingimento e non riesce a costruire una narrazione e una metodologia di gestione.»

Che cosa si dovrebbe fare?

«Come per tutte le cose: se non le governi producono caos. Invece prevale il rifiuto degli immigrati: non me ne occupo perché voglio che vadano via. Manca una proposta di governo. Ma le migrazioni sono la fisiologia della storia umana. Siamo una specie nomade: 50 milioni di europei sono andati via dall’Europa tra ‘800 e ‘900.»

La deportazione degli irregolari da rimpatriare – in Ruanda, nel caso inglese, o in Albania, nel caso italiano – è una soluzione?

«Sono dei palliativi costosissimi. Le politiche di respingimento costano più dell’integrazione. Sarebbe meglio fare accordi con i paesi di origine, non per sparare ma per gestire le fila. Anche perché l’Italia ha un fabbisogno superiore agli arrivi.»

A che cosa si riferisce?

«Viviamo una transizione demografica dai primi anni ’90. Ogni anno vanno in pensione più persone di quante ne entrano nel mercato del lavoro. Un dato drammatico: non ci sono i giovani. Come fai a non averlo in mente? Oltre al bracciantato e alle badanti, nei servizi, nelle Rsa, negli uffici, nelle pulizie e in altri mestieri c’è un enorme fabbisogno che resta scoperto. Anche se i salari fossero più alti. Da noi si aggiunge pure l’emigrazione degli italiani, destinata ad aumentare: un paese così è un paese in declino. Viviamo in un gerontocomio: le innovazioni non vengono dagli anziani.»

Che cosa bisogna fare?

«Invece di pagare i paesi di partenza per sparare sui migranti che si imbarcano, dovremmo riaprire i canali regolari e far venire quelli giusti. Così arrivano solo quelli che non sono alfabetizzati: ci mettono un anno e mezzo per venire e arrivano devastati.»

E invece questo governo che fa?

«Non rimborsa più i comuni e non spende più per l’insegnamento dell’italiano. Non paghiamo la scuola – che è un investimento, non un costo – però li vogliamo formati. Questo fa rabbia, ma non se ne parla. Se facciamo mera accoglienza e non spendiamo niente per l’integrazione, otteniamo la disintegrazione. Purtroppo se chiedi ai leader progressisti di parlare dell’argomento preferiscono evitare per non perdere voti. Ma se se ne parlasse seriamente con proposte ragionate, ci sarebbe margine per far capire le cose. Sono sicuro che l’elettorato comprenderebbe.»

Qualche esempio di “proposta ragionata”?

«Primo: canali regolari e controllati d’ingresso. Hanno vantaggi enormi. Offriamo permessi regolari di due anni per la ricerca del lavoro, non perché il lavoro ce l’hanno già. Questa misura permetterebbe di combattere l’irregolarità e diminuirebbe i finti richiedenti asilo, un fenomeno che abbiamo creato noi.»

Poi?

«Politiche di integrazione vere: formazione professionale, conoscenza linguistica e culturale, in accordo con datori di lavoro e associazionismo. Si lamentano che non c’è formazione, ma nessuno la fa. Infine, serve puntare sui processi di contatto e rapporto già esistenti: la scuola e i matrimoni misti sono luoghi molto interessanti che mostrano nella pratica che la gente può convivere. Ricordo che un terzo dei bambini che frequentano gli oratori milanesi sono musulmani.»

Bisognerebbe anche allargare le maglie della cittadinanza per chi è in Italia da tempo?

«Certo che sì. Se un ragazzo immigrato che parla italiano con accento dialettale si sente dire che non è uguale non favoriamo la sua integrazione. C’è da stupirsi che non siano più arrabbiati. In passato, i governi di centrosinistra hanno perso un’occasione storica. In politica si vince in attacco: loro hanno avuto paura.»

L’anima perduta dell’Occidente

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Occidente

1670481019-pota-1-142188di Stefano Allievi

Quando è successo, che l’Occidente ha smesso di essere quello che diceva e credeva di essere – l’avamposto della democrazia e dei diritti universali – generalizzando un regime di doppia verità, per cui ciò che vale per noi e al nostro interno (a cominciare dal rispetto del diritto alla vita e alla dignità della persona umana) non può e non deve valere per gli altri?

Dove è stato discusso e deciso, che tutto ciò che era un valore prima (solidarietà, apertura, libertà anche per gli altri e non solo per noi, umanità) oggi sia considerato una debolezza e un disvalore?

Come è successo, che abbiamo perso l’anima?

Ecco, non sappiamo quando, dove e come è successo, ma molti di noi, sempre più spesso, hanno netta la sensazione che sia successo.

Eravamo visti come la meta da raggiungere: e fisicamente, visto che continuiamo a essere più ricchi e sviluppati di altri, lo siamo ancora. Ma in passato dettavamo anche gli standard valoriali, o avevamo la presunzione di farlo. Oggi, da questo punto di vista, siamo sempre più lontani dal resto del mondo: un po’ perché gli altri non sono più sicuri che valga la pena essere come noi, e un po’ perché siamo noi ad allontanarci da noi stessi e a respingere gli altri.

Lo si vede bene sulle grandi questioni della geopolitica: dove sempre più spesso, anche all’assemblea generale delle Nazioni Unite, quasi tutto il resto del mondo (Africa, Asia, America Latina) vota in maniera diversa da noi (è la piccola Europa, con gli Stati Uniti, a essere isolata), e preferisce votare con Russia e Cina, pur non amandone il modello di sviluppo e non abbracciandone i valori.

95Siamo apertamente dileggiati per la nostra incoerenza, e non di rado disprezzati dal resto del mondo, isolati nella nostra antica e coloniale presunzione di centralità. Il nostro plateale doppio standard nei confronti di Israele ne è l’immagine più forte: basta immaginare una banale inversione di ruoli (con i palestinesi che fanno agli israeliani il dieci per cento di quanto gli israeliani hanno fatto ai palestinesi, e non da oggi), per cogliere la nostra evidente contraddizione – quanto ci saremmo indignati, e quanto prima avremmo agito, a parti invertite! Ma anche rispetto all’Ucraina, in fondo, ci preoccupiamo di più di programmare la sua futura ricostruzione, dopo tutto nel nostro interesse, che di evitare che venga distrutta.

Ma vale anche per le nostre questioni interne. Come lo sdoganamento di linguaggi civilmente e persino giuridicamente offensivi e apertamente ostili (anche qui: basta immaginarli a parti invertite), che ci erano almeno istituzionalmente estranei, a proposito di diversi, immigrati, musulmani, gay, transgender, o quale che sia il nemico di turno. E non si tratta solo degli Stati Uniti. Loro stanno tracciando la strada. Ma l’abbiamo imboccata, in parte, anche noi: non foss’altro perché assistiamo a questa mutazione senza stigmatizzarla, in pavido e complice silenzio.

Quando è successo che il nostro storico alleato si è trasformato, da faro e avamposto della nostra (e sottolineo: nostra) comune civiltà, a luogo da non frequentare e esempio da non seguire? Quando ha smesso di essere il fratello maggiore da imitare, quello avanti di vent’anni su quello che sarebbe stato anche il nostro futuro, per diventare il cugino imbarazzante da evitare, salvo giusto nelle ricorrenze familiari che ci obbligano a incontrarci, ma di cui tolleriamo e sostanzialmente appoggiamo le mattane, perché è grande e grosso e potrebbe farci del male?

tramonto-occidente-notteCome è stato possibile che la terra delle libertà e delle opportunità, da cui avevamo creduto di imparare la democrazia, e che la nostra libertà l’hanno difesa e ce l’hanno restituita pagando un pesante tributo di sangue, diventasse un luogo di un conformismo e di un servilismo istituzionale imbarazzante? Dove scene di individui armati, col viso nascosto dai passamontagna, che oltre e contro ogni regola innescano raid contro innocenti messi in carcere o deportati senza processo, diventassero immagini quotidiane e familiari nelle città, in fondo accettate nell’indifferenza dei più? Quando esattamente è diventato normale diminuire platealmente le tasse ai ricchi per aumentarle ai poveri? E, del resto, anche noi, quando esattamente abbiamo discusso e deciso di spendere il 5% del nostro prodotto interno lordo in armi (o almeno di dire che lo faremo), quando spendiamo il 4% in educazione e istruzione?

Non sappiamo dove è stato discusso. Sappiamo che tutto questo qualcuno l’ha deciso, e molti lo mettono in pratica. E ne pagheremo il prezzo, tutti noi. Con un progressivo e imprevedibile isolamento internazionale (certo: tanto continuiamo a essere i più ricchi – ma le cose, gli equilibri, stanno cambiando anche da questo punto di vista, e più rapidamente di quel che crediamo). Con una drammatica caduta reputazionale, di cui ancora non ci rendiamo conto. E con il disprezzo delle nostre stesse generazioni più giovani, quelle dei nostri figli e nipoti, che ci giudicheranno (hanno già cominciato a farlo) per quello che hanno visto, o meglio non hanno visto da parte nostra, dalla lotta (quasi abbandonata) contro il climate change al nostro continuo voltarci dall’altra parte a Gaza (e in Cisgiordania, peraltro, dove non ci sono nemmeno gli alibi che si pretendono validi altrove). 

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
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Stefano Allievi, professore di Sociologia e direttore del Master in Religions, Politics and Global Society presso l’Università di Padova, si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso, con particolare attenzione alla presenza islamica. Tra i suoi libri Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET 2021) e Il sesto continente. Le migrazioni tra natura e società, biodiversità e pluralismo culturale (con G. Bernardi e P. Vineis, Aboca Edizioni 2023). Per Laterza è autore di: Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna, 2016); Immigrazione. Cambiare tutto (2018); 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (2018); La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (2020); Governare le migrazioni. Si deve, si può (2023), Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni (2025).

Maschilità malata: il gruppo Facebook “Mia moglie”

La storia del gruppo Facebook “Mia moglie”, in cui oltre trentamila uomini, tra cui molti veneti, commentavano reciprocamente le foto, spesso rubate (fatte di nascosto e diffuse senza consenso), di mogli, fidanzate e altre parenti, può darci qualche spunto di riflessione.

Sgombriamo il campo dal moralismo facile, dal prurito dello scandalo, dalla sindrome da ditino alzato, dall’afflato censorio un tanto al chilo. I social network si prestano a potenziare questa sgradevole propensione al bigottismo (esiste anche un bigottismo progressista), anche e soprattutto quando chi attacca si sente dalla parte dei buoni. Ma, come ricordava François de La Rochefoucauld in un’epoca libertina e moralista insieme (come forse è la nostra), “l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù”. Molte delle frasi e dei giudizi estetici (chiamiamoli educatamente così) espressi in quel gruppo, ora chiuso, sono stomachevoli, ma non troppo diversi (o la diversità è per così dire di grado, ma non di qualità: si colloca su un continuum, non da un’altra parte) da quello che si dice ordinariamente nei gruppi amicali, al tavolino di un bar davanti a uno spritz, o può capitare di ascoltare in una scuola durante l’intervallo, in un luogo di lavoro, o negli spogliatoi di una palestra – peraltro, non solo in quelli maschili, anche se in questi con enfasi certamente maggiore. Sono dunque il contenuto quotidiano di una cultura diffusa, che passa dai testi delle canzoni per arrivare al consumo compulsivo di pornografia. Questo lo giustifica? No, ma lo contestualizza. E mostra che il male non è solo lì dove lo si sta giudicando (sarebbe facile: troppo facile), ma da qualche parte molto più nel profondo.

Certo, i leoni da tastiera maschi e voyeuristi di quello e di altri gruppi non sono rappresentativi della maschilità come categoria. E quindi sono più facili da additare come reprobi. Ma la differenza è solo che lì, sui social, i messaggi sono scritti, e restano in memoria: mentre i commenti detti, come noto, si perdono nel vento – verba volant. Ma non troppo: qualcosa resta, e si accumula, si sedimenta, si solidifica, e costruisce. Costruisce cosa? Il tema non è tanto il tenore dei commenti. Ma l’istinto proprietario che mostrano: e che si manifesta innanzitutto con l’idea praticata (che peraltro è un reato) che l’immagine di lei, chiunque sia, è mia, me ne approprio senza chiedere il permesso, la rendo oggetto da commentare o peggio su cui sbavare, cosa e non persona, e quindi senza nemmeno il diritto al consenso. È solo un esempio, un primo livello, di quella maschilità che abbiamo imparato a chiamare tossica, e con molte ragioni: perché inquina la persona ma anche l’ambiente, e fa pagare il prezzo del proprio esistere a vittime innocenti. All’altro sesso in primo luogo, certo: umiliato in quanto spersonalizzato e cosificato. Ma anche a un ambiente culturale e sociale, largamente interclassista e variabilmente istruito, di cui contribuisce a creare le premesse e i fondamenti: e di cui finiscono per essere vittima anche i maschi che lo riproducono e lo fanno proprio. Che invece di essere capaci di godere di una emotività e di una sessualità liberate e soddisfacenti, liberano solo il peggio di sé, mostrando la povertà del proprio immaginario, più pornografico che erotico, e anche la standardizzazione quasi burocratica del proprio linguaggio, che dell’immaginario è la voce e lo specchio. Mostrando così una drammatica incapacità di vivere il sesso, e lo sguardo su di esso, senza pruderie e senza la pulizia della semplicità dello sguardo, anche di quello onestamente curioso. Tutto diventa oggettivazione e possesso, a cominciare dal nome del gruppo: “Mia moglie”.

Una considerazione aggiuntiva. Gran parte dei membri (e, sì, possiamo pure giocare con l’ambiguità del termine: questo sono e con questo ragionano) del gruppo sono regolarmente sposati e spesso padri di famiglia. E questo getta una luce rivelatrice su quello che è davvero – spesso (lo ricordiamo, non sono rappresentativi, ma un sintomo su cui riflettere) – la coppia coniugale eterosessuale monogamica e la famiglia nucleare. Non quel paradiso ideale, da presidiare a colpi di normative bigotte e escludenti nei confronti di altre forme di orientamento di genere e modelli di convivenza, che qualche difensore della famiglia tradizionale racconta. Più che un modello educativo da riprodurre e riproporre tale e quale, un modello a sua volta da educare, e da mettere in questione.

 

Quei ‘poveri’ uomini, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 22 agosto 2025, editoriale, pp. 1-5

La crisi sulle spiagge e il senso della vacanza

E se la crisi del turismo fosse un bene? Certo, gli operatori del settore non saranno d’accordo: e come non capirli. Se si perde clientela, fatturato, incassi, cala anche l’occupazione, e si ridimensiona l’indotto. Il problema economico c’è, coinvolge tutti, ed è serio: è la società tutta che ci perde. Ma poi, se andiamo a vedere le attività che calano maggiormente, molti di noi, socialmente e culturalmente, non si stupirebbero più che tanto: magari perché hanno già smesso di praticarle, e nemmeno solo per il costo – perché non si divertono più.

Certo, c’è la crisi economica che morde. E finalmente, anche nel turismo, cominciamo ad accorgercene anche in termini di consapevolezza culturale, non solo di opportunità mancate. Meglio tardi che mai. Ma come! Viviamo in un paese in cui i salari reali calano costantemente, eppure nel settore del turismo di massa i prezzi aumentano, e ci aspettiamo comunque le stesse presenze di prima: ci sarà una contraddizione, o no? Come si può immaginare che la gente vada al mare come se le famiglie fossero quelle di una volta, e con le stesse disponibilità di prima? E allora, forse, anche gli operatori dovrebbero cominciare (e dovremmo farlo tutti noi) a guardare anche alla salute del paese, non solo al proprio orticello e ai propri pur legittimi interessi. Se il paese va male, come possiamo pretendere che a noi vada bene? Se lo capiamo, vogliamo tirarci su le maniche e cercare di migliorare il paese? Che vuol dire coscienza civica, partecipazione, dare una mano e non solo prendere, impegnare tempo, soldi e idee per il bene comune, per migliorare la società, diminuire i conflitti anziché esacerbarli, favorire il miglioramento della condizione sociale ed economica di chi sta peggio, non solo della propria. Il che vuol dire anche delle persone diverse da noi, delle minoranze culturali e d’altro genere. Faccio un esempio minore ma non irrilevante. Le persone di origine straniera che vivono in Veneto sono ben oltre il dieci per cento della popolazione. O nella ricezione turistica li accogliamo, e gli diamo il benvenuto, anziché sperare che non si presentino e magari non tollerarli proprio, o significa il dieci per cento di turisti potenziali in meno. E se il problema è che sono più poveri perché hanno salari più bassi (peraltro, in specifico, anche proprio nel settore del turismo), forse è il caso che ci domandiamo se è giusto e normale che la società sia così. Ma il discorso vale anche per altre minoranze culturali. Se non accetteremmo una coppia gay nell’ombrellone accanto che magari osasse tenersi per mano (o, Dio non voglia, si baciasse), se ce ne andremmo o ci sentiremmo infastiditi se ci fosse una famiglia musulmana con una donna che veste il foulard, se già una persona di colore ci turba e va bene solo se ci vende un pareo (un po’ meno se ci siede accanto mentre ordiniamo un aperitivo al banco), se pure una famiglia con più di un bambino (e quindi più rumorosa) ci darebbe fastidio, in effetti, perché tutti costoro dovrebbero venire in spiaggia con noi, sempre che se lo possano permettere? Ma, sommati, fanno pezzi sempre più grandi della società. Che, peraltro, si trovano turismi specializzati pronti ad accoglierli, che operatori accorti approntano per loro.

Il problema più di fondo e radicale, su cui la crisi del turismo tradizionale ci interroga, è tuttavia un altro: e tocca un vero cambiamento culturale. Ma siamo proprio sicuri che la stanza in albergo, l’ombrellone a pagamento, la passeggiata per il gelatino, l’acquistare tutti gli anni la stessa paletta e secchiello (ma un materassino di foggia diversa) buttati via a fine stagione, strafogarsi di aperitivi ed happy hour, passare la serata al ristorante per mangiarsi (cito da una vecchia canzone di Guccini) “un fritto misto dato lì con mala grazia naturale”, tirare tardi in attività la cui ratio ci sfugge ma il cui denominatore comune è che sono a pagamento, fare shopping serale, andare per forza in discoteca, siano il top di gamma del divertimento, e quello di cui hanno bisogno le nostre menti e i nostri corpi per ricaricarci in quella che chiamiamo vacanza? Ci piace ancora, farlo, o è solo un’abitudine acquisita, cui ci adeguiamo per pigrizia mentale, e per non saper trovare alternative? Perché poi, in realtà, le alternative ci sono, e sempre più persone se le trovano o le costruiscono. È solo l’immaginario che è ancora fermo lì. È la televisione (un oggetto che produce contenuti culturali per boomers) che nei servizi estivi sempre uguali, ci fa vedere queste solite immagini. Ma è quella, la vacanza?

 

La crisi sotto l’ombrellone e le vere vacanze, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 9 agosto 2025, editoriale, pp. 1-5

La cosa giusta nel modo sbagliato. La maturità, gli esami orali, la vita

E anche per quest’anno abbiamo archiviato la stagione degli esami: di maturità, universitari, di laurea. Credo, però, con una consapevolezza diversa. Grazie, anche, al piccolo brivido offertoci dagli studenti che non hanno sostenuto l’orale alla maturità.

Non che questo gesto sia stato chissà che. Fa sorridere chi ha parlato di movimento di protesta. Tre/quattro studenti su una platea di oltre mezzo milione di maturandi è a mala pena una testimonianza, iperminoritaria e ininfluente. Sono ottuse e un po’ patetiche, dunque, le generalizzazioni sui giovani d’oggi (lo sono sempre state, del resto). Ma se ne abbiamo parlato così tanto, è perché hanno colto qualcosa di profondo. Su cui vale la pena continuare a ragionare, anche adesso che gli esami sono finiti.

Una prima considerazione, è che quei pochi sono stati bravi a cogliere un errore, una fallacia, un bug come si dice in informatica, nel sistema. Si sono accorti che si poteva passare l’esame anche senza partecipare all’orale, se lo scritto era sufficiente: cosa di cui chi ha inventato la maturità come è ora non si era reso conto, meno che mai il ministro (in-)competente, che infatti ha reagito in maniera scomposta, alzando il ditino, minacciando sfracelli, e in realtà limitandosi a dire che in futuro cancellerà questa possibilità, risolvendo il bug. Eppure dovremmo premiarli, questi ragazzi: per coerenza con una società che il lavoro di cogliere gli errori di programmazione o di previsione normativa – dagli informatici agli avvocati e ai commercialisti – lo paga bene, e più sei capace di mettere in contraddizione la norma con sé stessa, e più sei bravo. Incidentalmente, la geremiade sugli studenti viziati che non vogliono affrontare le difficoltà della vita, in cui gli esami non finiscono mai, è ancora più risibile venendo dalla generazione del posto fisso, la più garantita di sempre, e rivolgendosi a quella più precaria dell’ultimo mezzo secolo.

Certo, le forme della protesta sono state discutibili. In qualche modo, hanno detto la cosa giusta nel modo sbagliato. Ma c’è davvero qualcosa da dire su una società ossessivamente e anche inutilmente competitiva, e più per motivi ideologici che razionali: tanto che abbiamo pervertito persino la parola competizione, dato che per i latini cum-petere significava andare insieme nella medesima direzione, e quindi collaborare, l’esatto opposto del suo significato odierno. Ed è interessante – dato che questo concetto ha a che fare anche con l’idea perversa e un po’ stupefacentemente accettata di esame e anche di scuola e di istruzione che abbiamo oggi – che la stessa cosa sia accaduta con un’altra parola molto pronunciata in questo dibattito: meritocrazia, di cui il suo inventore, lo scrittore e sociologo inglese Michael Young, nel romanzo distopico “L’avvento della meritocrazia”, nel lontano 1958 già criticava pretese e conseguenze. Del resto, anche skholé, in greco, significava originariamente ozio, modo piacevole di utilizzare il tempo: anche qui, l’esatto opposto di oggi. E anche questo ci dovrebbe dire qualcosa.

Poi, dicevo, se la riflessione è giusta, il bersaglio è stato sbagliato. Non è risparmiandoci l’esame orale che risolviamo il problema. Lo dico da docente che, insegnando una materia umanistica – sociologia, appunto (per le scienze dure e esatte la cosa è evidentemente diversa) – rifiuta di fare esami scritti (con le complicazioni logistiche del caso, avendo un numero assai congruo di studenti). Sono rimasto tra i pochissimi a farlo. Alla magistrale, mi ritrovo studenti e studentesse che, al quarto anno di università, sono in difficoltà (e balbettano malamente, e si emozionano) perché il mio è il loro primo esame orale: e magari sono persone che diventeranno insegnanti, e mi domando come trasmetteranno il loro sapere.

Il problema è che lo sviluppo tecnologico, o la stessa intelligenza artificiale, non sostituirà l’oralità: semmai, molto più incisivamente, la scrittura. La vita è orale. Un colloquio di lavoro è orale (e non a caso, nelle professioni, vengono sempre più premiate competenze trasversali, relazionali, di collegamento, che devono tantissimo proprio alla parola, e alla parola pronunciata, trasmessa da persona a persona – anche la leadership si nutre di questo). Un rapporto di amicizia è orale. Un amore è fatto di parola e di presenza, fin da quando viene dichiarato: per quello ci affatichiamo dietro alle parole per dirlo. E dopo tutto, nonostante lo sviluppo di tanti media ipertecnologici, quello più efficace è tuttora, e forse più di prima, proprio il medium più antico: la parola detta di persona, e possibilmente incarnata. Ed è tanto più vero oggi. Al punto che dovremmo pretenderne di più, non di meno.

 

Gli esami orali. Perché le parole contano, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 29 luglio 2025, editoriale, pp. 1-6

Gaza ci guarda. E ci riguarda

Gaza ci guarda: anche se noi guardiamo altrove. Ci riguarda: perché avrà conseguenze anche da noi. E ci giudica: perché ci costringe a giudicarci.

Non è solo un problema nostro, è vero: è dell’intero Occidente. Che ha smesso di essere quello che diceva di essere – l’avamposto della democrazia e dei diritti universali (per tutti, quindi) – generalizzando un regime di doppia verità, per cui ciò che vale per noi e al nostro interno (a cominciare dal rispetto del diritto alla vita e alla dignità della persona umana) non vale altrove, e comunque non vale per alcuni. Tra questi, ci sono certamente i palestinesi di Gaza.

Sì, certo, c’è stato il 7 ottobre. C’è Hamas. C’è il sacrosanto diritto a esistere dello stato di Israele (anche se dimentichiamo il diritto a esistere in pace anche degli altri stati della regione, e di quello che non esiste ancora, quello palestinese, che la comunità internazionale da decenni vorrebbe – due popoli, due stati, ricordiamo?). Ma questo non può giustificare tutto: il radere al suolo intere città, il massacro quotidiano di un popolo, le annessioni di territorio che proseguono attraverso gli insediamenti illegali (anche in Cisgiordania, dove non c’è Hamas e da dove non partono missili, e quindi non ci sono alibi), le deportazioni, la guerra esportata in altri paesi dell’area (Libano, Siria, Iran…).

Non ci azzardiamo nemmeno a riassumere qui una storia complessa, in cui nessuno ha il monopolio della verità, tutti hanno responsabilità flagranti, nessuno è vittima innocente. Se c’è una zona del mondo dove il bianco e il nero non esistono, dove i buoni e i cattivi non stanno solo da una parte, e a fasi alterne si trasformano gli uni negli altri, quella è il Medio Oriente. Ci limitiamo, qui, a constatare due o tre cose sull’oggi, che avranno (stanno già avendo) degli effetti anche da noi e su di noi. A casa nostra.

La prima è l’isolamento internazionale dell’Occidente. La seconda riguarda i futuri flussi migratori. La terza, invece, le nostre trasformazioni interne. Cominciamo dalla prima.

Siamo sempre più lontani dal resto del mondo: un po’ perché gli altri non sono più sicuri che valga la pena essere come noi, e un po’ perché siamo noi ad allontanarci da noi stessi e a respingere gli altri. Lo si vede bene sulle grandi questioni della geopolitica (non solo riguardo a Israele, peraltro): dove sempre più spesso, anche all’assemblea generale delle Nazioni Unite, quasi tutto il resto del mondo (Africa, Asia, America Latina) vota in maniera diversa da noi (è la piccola Europa, con gli Stati Uniti, a essere isolata), e preferisce votare con Russia e Cina, pur non amandone il modello di sviluppo e non abbracciandone i valori. Siamo apertamente dileggiati per la nostra incoerenza, e non di rado guardati con stupore dal resto del mondo. Come abbiamo potuto cambiare così tanto e così in fretta? Il nostro plateale doppio standard nei confronti di Israele ne è l’immagine più forte: basta immaginare una banale inversione di ruoli (con i palestinesi che fanno agli israeliani il dieci per cento di quanto gli israeliani hanno fatto ai palestinesi, e non da oggi), per cogliere la nostra evidente contraddizione – quanto ci saremmo indignati, e quanto prima avremmo agito, a parti invertite! Ma anche rispetto all’Ucraina, in fondo, ci preoccupiamo di più di programmare la sua futura ricostruzione, anche nel nostro interesse, che di evitare che venga distrutta.

Le future migrazioni sono la conseguenza tutt’altro imprevedibile di quanto accade oggi, di cui nessuno ha il coraggio di parlare. Immaginiamo che, come vogliono Israele e gli USA e come sta già accadendo, si svuoti la striscia di Gaza, e si costruisca la fantomatica ‘città umanitaria’ (quanto fanno orrore, gli eufemismi della politica: quanto pervertono parole che non saranno mai più pulite e utilizzabili) per accogliere una parte, presumibilmente modesta (dato che non si potrà uscire e il controllo dell’enclave sarà israeliano), della popolazione ghazawi. Che faranno tutti gli altri? Andranno altrove, come fanno da decenni. Solo, tutti insieme. E dove immaginiamo che vadano? Qualcuno nei paesi arabi, certo. Gli altri, prevedibilmente, in Europa (gli USA, con gli ultimi sviluppi, sono destinazione impensabile, e del resto non sarebbero nemmeno fatti entrare). Li accoglieremo, come fatto giustamente con gli ucraini? E, se no, con quali scuse, inaccettabili innanzitutto per noi, li rifiuteremo?

Infine, c’è il costo morale, che ci stiamo infliggendo da soli. Il nostro non voler vedere, non voler intervenire, o peggio giustificare, costa alle nostre coscienze, al nostro vivere civile, alla nostra capacità di guardarci dentro, alle nostre democrazie. Ne pagheremo il prezzo: tutti noi, generazione che ha il potere decisionale. Anche di fronte alle generazioni dei nostri figli e nipoti, che ci giudicheranno (hanno già cominciato a farlo) per quello che hanno visto, o meglio non hanno visto, da parte nostra. Non diversamente da come abbiamo fatto di fronte al cambiamento climatico, all’esplodere delle diseguaglianze, e altre grandi emergenze globali. Di fronte alle quali la nostra più grande abilità è stata quella di far finta di non vedere.

 

Gaza ci guarda e ci giudica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 13 luglio 2025, editoriale, pp. 1-5

Referendum cittadinanza: compagnia sbagliata, metodo discutibile. Ma il risultato, contrariamente a quanto si è detto, è incoraggiante.

Il referendum sulla cittadinanza, il fallimento della politica e la crisi della democrazia, in “Dialoghi Mediterranei”, 1 luglio 2025

https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-referendum-sulla-cittadinanza-il-fallimento-della-politica-e-la-crisi-della-democrazia/

 

Il referendum sulla cittadinanza ci ha detto molte cose sul nostro rapporto con gli immigrati e i loro discendenti. Ma forse ci ha detto anche delle cose che non abbiamo capito. Proviamo a analizzarle.

Intanto: era il referendum lo strumento giusto? No di certo. Il tema è complesso, articolato, presuppone canali, modi e numeri che vanno analizzati. Toccherebbe alla politica, intervenire, discutere, dibattere: il Parlamento è fatto per questo. Ma, come sappiamo, la politica non lo fa: perché bisognerebbe aggiornarsi, studiare i dossier, gli effetti delle proprie scelte (o non scelte), magari arrivare a un decente compromesso tra visioni differenti. E poi, guai ad assumere una presa di posizione netta, anche se giusta, o anche solo utile, se implica rischiare di perdere anche solo un voto. Invece è più facile e comodo ripetere i soliti quattro slogan per essere eletti, e non fare nulla – costa meno. È per questo che, sulla questione della cittadinanza per gli immigrati, si è arrivati al referendum, così come su altre questioni, come quelle bioetiche e legate ai diritti civili, tocca aspettare la Corte Costituzionale. La politica, il suo mestiere, non lo fa.

Su questo tema, poi, le occasioni perse dalla politica sono state clamorose. Non solo non è intervenuta la destra, per non dover rinnegare decenni di indiscriminata propaganda anti-immigrati, con la quale i voti li raccoglie (anche se li rinnega nei fatti: con questo governo ha decretato il più ampio decreto flussi della storia italiana, così come Berlusconi ha promosso le sanatorie più numerose, ma guai a ammetterlo – e, va pur detto, non tutta la destra la pensa nello stesso modo, anche sullo specifico della cittadinanza, come abbiamo visto dalle aperture e disponibilità di Forza Italia). Anche la sinistra, nel 2015, quando era al governo e aveva i numeri per approvare una legge (anche i numeri dei sondaggi: la gente era d’accordo, e i giovani ancor più). Ma, per pavidità, o, in altri casi, per la pretesa di ottenere di più, ha lasciato perdere: e non ha portato al voto al Senato ciò che già era stato approvato alla Camera. Arrecando un danno enorme agli immigrati in generale e alle seconde generazioni in particolare: norme che vanno nella direzione indicata da quelle di cui parliamo ora potrebbero essere legge già da dieci anni.

È per questo che è toccato inventarsi un referendum, che di necessità propone una scelta netta, anziché consentire lo spazio per una ampia discussione su una riforma, che sarebbe stata una imperdibile occasione di maturazione della pubblica opinione, su un tema di valenza storica: non meno di referendum come quelli sul divorzio o l’aborto, e assai più di quelli andati al voto sul lavoro. Solo che siamo in epoca di partecipazione diversa, in cui da decenni un referendum non raggiunge il quorum. E lo si doveva immaginare, che con tutta probabilità sarebbe potuta andare male.

La via scelta dai promotori è stata comunque semplice, intuitiva, lineare: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ri-portare gli anni necessari per fare domanda da dieci a cinque, com’era fino al 1992 (e come è oggi in Germania, in passato il Paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo: Austria e Finlandia sono a sei, mentre ne ha dieci la Spagna e a dieci vuole tornare la Gran Bretagna, che oggi ne ha cinque). Il colpo di genio era dunque usare un referendum abrogativo, visto che quello propositivo non è ammesso, per uno scopo di fatto propositivo e innovativo. Prendendo atto che, oltre tutto, in Italia i dieci anni non sono reali, ma sono molti di più: lo Stato si prende ben tre anni per rispondere, ma spesso sono di più (e quindi con il taglio dei tempi si sarebbe arrivati comunque quasi ai dieci sostanziali), senza pagare pegno: nessuno fa causa a uno Stato inadempiente quando è da quello stesso Stato che dipende, letteralmente, la propria possibilità di acquisire, attraverso la pienezza dei diritti (o “il diritto di avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt), una vita migliore.

siL’acquisizione della cittadinanza dei genitori sarebbe andata a ricadere automaticamente sui figli minori (esclusi i minori stranieri non accompagnati), risolvendo quindi il dilemma del mai approvato ius scholae: coinvolgendo una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (quella reale è inferiore perché molti genitori non avrebbero comunque presentato la domanda, per disinteresse o perché cittadini di Paesi che non consentono la doppia cittadinanza, e non disposti a perdere la propria), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione presente nelle nostre scuole. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro compagni considerano loro pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono di origine straniera. Che se ne ascoltassimo le aspirazioni, ci accorgeremmo che non sono più stranieri dei nostri figli, condividendo con loro aspettative e frustrazioni. Ma a cui sono negati i diritti che hanno i nostri figli. E a cui restituiamo ogni giorno, per questo solo fatto, un messaggio di esclusione, di rifiuto. Un messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile considerarlo un incentivo all’integrazione. E quindi un vantaggio per noi, autoctoni.

Poi, è andata come è andata. I cinque referendum per cui siamo stati chiamati a votare erano tra loro molto eterogenei, e questo di per sé rischiava di avere ulteriori effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi, sul tema del lavoro, avevano a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Solo il quinto si occupava di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccavano poi aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnavano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni): ma non erano realmente trasformativi della conformazione della società in maniera radicale.

Quello sulla cittadinanza, invece, pur vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si saldava con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale. Avrebbe fatto discutere di più, dando un’idea di società diversa, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decideva chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomigliava più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.

Se posso dire la mia, nel merito: my two cents. Credo che i referendum sul lavoro fossero sbagliati. O meglio, al di là del merito, per qualcuno condivisibile, credo che avessero uno scopo politico, di posizionamento ideologico, di schieramento, di egemonia su un’area politica, di resa dei conti interna (anche per chi ne condivideva il contenuto) – estraneo allo spirito stesso del referendum. E infatti hanno ottenuto un risultato quasi plebiscitario: anomalo, forse persino problematico e preoccupante, se si fosse votato nel merito. I plebisciti sono sempre sospetti. Se è andata così, in buona parte, è perché è stato votato per le stesse ragioni politiche e di schieramento per cui è stato promosso. Molti dei loro sostenitori probabilmente non vorranno riconoscersi in questa immagine: ma, di fatto, appare abbastanza chiaro che è stato votato perché lo promuovevano i propri partiti o la propria organizzazione sindacale – e, molto, per cercare di colpire, per via referendaria lo schieramento politico opposto, la destra. Come è risultato molto evidente (purtroppo, anche per le sorti future della democrazia) dal posizionamento espresso negli ultimi giorni di campagna referendaria dai promotori partitici (l’autogol del “preavviso di sfratto” per il governo se si fosse raggiunto un certo numero di voti: obiettivo anche questo mancato) – e, peggio ancora, dall’analisi post-voto, ridotta a slogan autoassolutori tutti politichesi (il confronto con i voti di Meloni), che nulla avevano a che fare con il contenuto dei quesiti.

il-quesito-sulla-cittadinanzaIl referendum sulla cittadinanza, invece, è stato votato nel merito. Per questo ha avuto un risultato diverso. Il che è un’ottima notizia: tutto il contrario della lamentatio che si è vista levarsi nel campo che era favorevole al sì. È andato meglio, non peggio, degli altri referendum. Perché la gente, votando, ha detto quello che pensava nel merito. Ed è vero che molti tra quelli che non sono andati a votare stanno nel campo della destra, e quindi sono tradizionalmente più anti-immigrati: anche se trovo un errore gigantesco regalare l’intero campo dell’astensionismo allo schieramento di centro-destra (semplicemente, esiste un’altra sinistra, e un centro, molto più ampi di quello che alcuni pensano, che non si identificano con quella sinistra, quella che i referendum sul lavoro li ha voluti). Non solo: anche il fatto che nello schieramento progressista ci fossero persone contrarie al referendum sulla cittadinanza, lungi dall’essere un problema, conferma che si è trattato di una valutazione sul merito. Che, lo ricordo, tra i votanti è stata comunque favorevole.

Personalmente penso, e lo pensavo già prima del voto, che l’accorpamento con i referendum sul lavoro abbia quindi danneggiato proprio quello sulla cittadinanza: perché ha per l’appunto impedito di discuterne, di entrare nel merito, relegandolo nel cono d’ombra prodotto da ben quattro altri quesiti (gli unici che avevano un vero sostegno istituzionale, organizzativo, partitico) su argomenti minori e tecnicismi. E il “cinque sì”, così, all’ingrosso, a molti potenziali elettori non è piaciuto proprio perché era generico e privo di contenuti: ancora una volta, al di fuori di una valutazione di merito. Alla fine l’alternativa secca tra questi cinque sì e l’astensionismo, a prescindere dal contenuto, ha polarizzato ulteriormente l’elettorato, spingendo proprio l’astensionismo.

I referendum veramente su questioni civili, di civiltà, sono divisivi per definizione: non producono percentuali bulgare. Il referendum sul divorzio finì 59,3% contro 40,7%. Quello sull’aborto promosso dal Movimento per la Vita, che voleva limitarne l’applicazione, 68% contro 32%. Tutto sommato, la percentuale di sì in quello sulla cittadinanza si è collocata tra questi due risultati. Certo, direte, se avessero votato gli altri, di destra, sarebbe andata peggio… Ma, appunto, non è vero che gli altri sono di destra e quindi anti-immigrati (anche questo un assunto vero solo per una parte, non per tutti, come mostrano persino le divisioni partitiche sul tema nello schieramento di governo).

imageFacciamo un po’ di fantareferendum. Immaginiamo che si fosse votato sulla cittadinanza, sull’autonomia differenziata, sull’eutanasia e sulla depenalizzazione dell’uso della cannabis. Quattro referendum diversissimi: su cui moltissimi hanno sicuramente posizioni differenziate, favorevoli all’uno ma non all’altro. Si sarebbe discusso maggiormente nel merito. La scappatoia dell’astensione sarebbe probabilmente stata più rischiosa, perché alcuni referendum avrebbero agito come effetto di trascinamento anche su altri, rendendo tutt’altro che scontato (come invece era adesso) il non raggiungimento del quorum (alcuni quesiti sarebbero stati interessanti per uno schieramento, altri per l’altro, alcuni per alcune fasce di popolazione e d’età, altri per altre: molti più giovani avrebbero votato, per esempio). Quale sarebbe stato il risultato, non può prevederlo nessuno. Ma non darei per scontato che quello sulla cittadinanza avrebbe perso. Tutt’altro.

Se, poi, si modificasse, grazie a una iniziativa bipartisan oggi doverosa, il meccanismo stesso del referendum e le sue modalità, potremmo in futuro avere non poche sorprese. Un gigantesco interrogativo pesa innanzitutto sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.

scuola-cresce-il-numero-di-studenti-figli-di-migranti-1-1024x576Infine, una riflessione seria va fatta sulle forme stesse dell’esercizio del voto. Ma è mai possibile che nel 2025 non si sia ancora capaci di formulare dei quesiti che facciano riferimento al contenuto di ciò per cui si vota, anziché a formule giuridiche esoteriche, incomprensibili anche a un plurilaureato? È anche così che si uccide la democrazia, insieme ai timbrini sul certificato elettorale cartaceo (ma perché non basta la carta d’identità?) e alle matite copiative, e altri ridicoli rituali burocratici senza alcun senso della realtà e della storia, impensabili e persino indecenti in epoca di intelligenza artificiale. E la responsabilità è di tutti, destra sinistra e centro.

È credibile, è accettabile, è sensato, che non si sia capaci nemmeno di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri Paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.

Il referendum, insomma, non è morto. È solo usato male, e quindi dà risultati discutibili. Ragione di più per migliorare la situazione. C’è margine per farlo.

Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025

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Stefano Allievi è professore di Sociologia e direttore del Master in Religions, Politics and Global Society presso l’Università di Padova. Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso, con particolare attenzione alla presenza islamica. Tra i suoi libri Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET 2021) e Il sesto continente. Le migrazioni tra natura e società, biodiversità e pluralismo culturale (con G. Bernardi e P. Vineis, Aboca Edizioni 2023). Per Laterza è autore di: Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna, 2016); Immigrazione. Cambiare tutto (2018); 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (2018); La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (2020); Governare le migrazioni. Si deve, si può (2023), Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni (2025).

Fine vita. Chi decide per chi.

Chi decide, sul fine vita? La domanda potrebbe prevedere una risposta semplice: chi la vive. In realtà non è così. Non è così perché la vita stessa – chiamiamola come vogliamo: caso, fato, destino, fortuna, Dio – decide altrimenti. La maggior parte di noi non sceglie quando e come morire: semplicemente, ci capita – accade. Accade di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato, o di essere sopraffatti da una malattia, e non possiamo farci niente. Ma ci sono casi, sempre più frequenti, in cui un qualche potere decisionale in realtà ce l’abbiamo. Uno, antico come l’uomo pensante, è il suicidio: l’atto di rinunciare alla vita, che dalla tragedia greca (o dall’esempio di Socrate) al Romanticismo, da Shakespeare a Hollywood, attraversa tutta la nostra storia. Non come fatto naturale (non ci sono specie animali che si suicidano, semmai esistono forme di sacrificio altruistico, come anche nella specie umana, del resto): ma come scelta consapevole, anche se per i motivi più disparati, dal senso di ingiustizia all’amore (magari non corrisposto o tradito), dall’orgoglio alla vergogna – sentimenti umani, che gli animali non provano. Poi si può andare incontro alla morte, o rischiarla, mettendola in conto: dall’andare in guerra (anche nelle periferie delle nostre città) agli sport estremi. Questi casi di suicidio non sono regolabili dal decisore pubblico, dalla legge: sono atti individuali (anche se, come ci ha insegnato Durkheim, con delle implicazioni sociali: non a caso ci sono categorie, etnie, popolazioni, classi, che si suicidano più di altre), e come tali sfuggono all’idea stessa di regolazione.

Tuttavia oggi si assiste alla crescita, e alla maggiore visibilità, di forme di suicidio (ci riferiamo al suicidio assistito, ovvero all’autosomministrazione di un farmaco letale) dovute anche, per molti versi, allo stesso progresso, quello scientifico e medico in particolare: oggi capace di allungare la vita anche di persone gravissimamente malate, ma con questo allungandone indefinitamente anche il processo di decadimento e le sofferenze – rendendo la parte finale della vita, per anni e talvolta decenni, per alcuni, insostenibile. Un’agonia, cioè letteralmente una lotta: faticosa, ma che non è possibile vincere. È un paradosso, ma significativo: il risvolto negativo di un fatto di per sé positivo. E non possiamo evitare di farci, in proposito, nuove domande, a cui abbiamo il dovere di cercare risposte nuove. Anche perché, essendo queste situazioni una conseguenza del progresso scientifico e tecnologico (in assenza del quale queste persone sarebbero quasi sempre già morte da un pezzo), la natura non c’entra nulla, e la difesa della vita non ha niente di naturale – quella vita esiste solo grazie alla tecnica, ed è il rifiutare l’invasività della tecnica, semmai, un atto di obbedienza alla natura.

La politica aveva deciso finora di rifiutarsi di decidere. E così sono stati altri poteri dello stato a dover intervenire: la Corte costituzionale, da un lato (che ha tentato a lungo di strigliare la politica su questo punto, tentando di indicare direttive e tempistiche), e le Regioni, dall’altro (che dovendo rispondere alle richieste della cittadinanza, e alle stesse sollecitazioni della Consulta, hanno il dovere di proporre linee guida praticabili). Oggi è il governo a proporre delle linee guida: un po’ per la necessità di intervenire, e un po’ anche per la volontà di togliere potestà alle regioni, impedendo loro di decidere per via regolamentare, come avevano tentato di fare, in forme diverse, imponendo tempi certi di risposta alle aziende sanitarie, Emilia-Romagna e Toscana, e anche il Veneto, per iniziativa (malvista e bocciata dai suoi) del Presidente Zaia. In sé è una buona notizia: non è infatti un atto di imperio, ma si tratta di una proposta, che andrà in commissione, dove inizierà la discussione. Lì ci sarà modo di entrare nel merito, anche di alcune premesse che potrebbero essere discutibili: dall’esclusione che il servizio sanitario eroghi la prestazione, al tempo lunghissimo (quattro insostenibili anni, per chi soffre di patologie irreversibili che producono sofferenze intollerabili) per ripresentare la richiesta, in caso fosse respinta, fino alla nomina politica del comitato etico chiamato a decidere. Ma ci sarà modo, anche per la società civile, di far sentire la sua voce: dalle professioni sanitarie alle famiglie dei pazienti e ai diretti interessati, passando per l’associazionismo e la pubblica opinione, che da molti sondaggi risulta, certo, divisa, ma tendenzialmente favorevole all’approvazione di una legge in merito. Sarebbe di per sé un passo avanti.

 

L’uomo, le leggi. Chi decide sulla fine della nostra vita, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2025, editoriale, pp. 1-3