Il referendum sulla cittadinanza, il fallimento della politica e la crisi della democrazia, in “Dialoghi Mediterranei”, 1 luglio 2025
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Il referendum sulla cittadinanza ci ha detto molte cose sul nostro rapporto con gli immigrati e i loro discendenti. Ma forse ci ha detto anche delle cose che non abbiamo capito. Proviamo a analizzarle.
Intanto: era il referendum lo strumento giusto? No di certo. Il tema è complesso, articolato, presuppone canali, modi e numeri che vanno analizzati. Toccherebbe alla politica, intervenire, discutere, dibattere: il Parlamento è fatto per questo. Ma, come sappiamo, la politica non lo fa: perché bisognerebbe aggiornarsi, studiare i dossier, gli effetti delle proprie scelte (o non scelte), magari arrivare a un decente compromesso tra visioni differenti. E poi, guai ad assumere una presa di posizione netta, anche se giusta, o anche solo utile, se implica rischiare di perdere anche solo un voto. Invece è più facile e comodo ripetere i soliti quattro slogan per essere eletti, e non fare nulla – costa meno. È per questo che, sulla questione della cittadinanza per gli immigrati, si è arrivati al referendum, così come su altre questioni, come quelle bioetiche e legate ai diritti civili, tocca aspettare la Corte Costituzionale. La politica, il suo mestiere, non lo fa.
Su questo tema, poi, le occasioni perse dalla politica sono state clamorose. Non solo non è intervenuta la destra, per non dover rinnegare decenni di indiscriminata propaganda anti-immigrati, con la quale i voti li raccoglie (anche se li rinnega nei fatti: con questo governo ha decretato il più ampio decreto flussi della storia italiana, così come Berlusconi ha promosso le sanatorie più numerose, ma guai a ammetterlo – e, va pur detto, non tutta la destra la pensa nello stesso modo, anche sullo specifico della cittadinanza, come abbiamo visto dalle aperture e disponibilità di Forza Italia). Anche la sinistra, nel 2015, quando era al governo e aveva i numeri per approvare una legge (anche i numeri dei sondaggi: la gente era d’accordo, e i giovani ancor più). Ma, per pavidità, o, in altri casi, per la pretesa di ottenere di più, ha lasciato perdere: e non ha portato al voto al Senato ciò che già era stato approvato alla Camera. Arrecando un danno enorme agli immigrati in generale e alle seconde generazioni in particolare: norme che vanno nella direzione indicata da quelle di cui parliamo ora potrebbero essere legge già da dieci anni.
È per questo che è toccato inventarsi un referendum, che di necessità propone una scelta netta, anziché consentire lo spazio per una ampia discussione su una riforma, che sarebbe stata una imperdibile occasione di maturazione della pubblica opinione, su un tema di valenza storica: non meno di referendum come quelli sul divorzio o l’aborto, e assai più di quelli andati al voto sul lavoro. Solo che siamo in epoca di partecipazione diversa, in cui da decenni un referendum non raggiunge il quorum. E lo si doveva immaginare, che con tutta probabilità sarebbe potuta andare male.
La via scelta dai promotori è stata comunque semplice, intuitiva, lineare: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ri-portare gli anni necessari per fare domanda da dieci a cinque, com’era fino al 1992 (e come è oggi in Germania, in passato il Paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo: Austria e Finlandia sono a sei, mentre ne ha dieci la Spagna e a dieci vuole tornare la Gran Bretagna, che oggi ne ha cinque). Il colpo di genio era dunque usare un referendum abrogativo, visto che quello propositivo non è ammesso, per uno scopo di fatto propositivo e innovativo. Prendendo atto che, oltre tutto, in Italia i dieci anni non sono reali, ma sono molti di più: lo Stato si prende ben tre anni per rispondere, ma spesso sono di più (e quindi con il taglio dei tempi si sarebbe arrivati comunque quasi ai dieci sostanziali), senza pagare pegno: nessuno fa causa a uno Stato inadempiente quando è da quello stesso Stato che dipende, letteralmente, la propria possibilità di acquisire, attraverso la pienezza dei diritti (o “il diritto di avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt), una vita migliore.
L’acquisizione della cittadinanza dei genitori sarebbe andata a ricadere automaticamente sui figli minori (esclusi i minori stranieri non accompagnati), risolvendo quindi il dilemma del mai approvato ius scholae: coinvolgendo una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (quella reale è inferiore perché molti genitori non avrebbero comunque presentato la domanda, per disinteresse o perché cittadini di Paesi che non consentono la doppia cittadinanza, e non disposti a perdere la propria), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione presente nelle nostre scuole. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro compagni considerano loro pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono di origine straniera. Che se ne ascoltassimo le aspirazioni, ci accorgeremmo che non sono più stranieri dei nostri figli, condividendo con loro aspettative e frustrazioni. Ma a cui sono negati i diritti che hanno i nostri figli. E a cui restituiamo ogni giorno, per questo solo fatto, un messaggio di esclusione, di rifiuto. Un messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile considerarlo un incentivo all’integrazione. E quindi un vantaggio per noi, autoctoni.
Poi, è andata come è andata. I cinque referendum per cui siamo stati chiamati a votare erano tra loro molto eterogenei, e questo di per sé rischiava di avere ulteriori effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi, sul tema del lavoro, avevano a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Solo il quinto si occupava di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccavano poi aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnavano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni): ma non erano realmente trasformativi della conformazione della società in maniera radicale.
Quello sulla cittadinanza, invece, pur vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si saldava con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale. Avrebbe fatto discutere di più, dando un’idea di società diversa, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decideva chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomigliava più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.
Se posso dire la mia, nel merito: my two cents. Credo che i referendum sul lavoro fossero sbagliati. O meglio, al di là del merito, per qualcuno condivisibile, credo che avessero uno scopo politico, di posizionamento ideologico, di schieramento, di egemonia su un’area politica, di resa dei conti interna (anche per chi ne condivideva il contenuto) – estraneo allo spirito stesso del referendum. E infatti hanno ottenuto un risultato quasi plebiscitario: anomalo, forse persino problematico e preoccupante, se si fosse votato nel merito. I plebisciti sono sempre sospetti. Se è andata così, in buona parte, è perché è stato votato per le stesse ragioni politiche e di schieramento per cui è stato promosso. Molti dei loro sostenitori probabilmente non vorranno riconoscersi in questa immagine: ma, di fatto, appare abbastanza chiaro che è stato votato perché lo promuovevano i propri partiti o la propria organizzazione sindacale – e, molto, per cercare di colpire, per via referendaria lo schieramento politico opposto, la destra. Come è risultato molto evidente (purtroppo, anche per le sorti future della democrazia) dal posizionamento espresso negli ultimi giorni di campagna referendaria dai promotori partitici (l’autogol del “preavviso di sfratto” per il governo se si fosse raggiunto un certo numero di voti: obiettivo anche questo mancato) – e, peggio ancora, dall’analisi post-voto, ridotta a slogan autoassolutori tutti politichesi (il confronto con i voti di Meloni), che nulla avevano a che fare con il contenuto dei quesiti.
Il referendum sulla cittadinanza, invece, è stato votato nel merito. Per questo ha avuto un risultato diverso. Il che è un’ottima notizia: tutto il contrario della lamentatio che si è vista levarsi nel campo che era favorevole al sì. È andato meglio, non peggio, degli altri referendum. Perché la gente, votando, ha detto quello che pensava nel merito. Ed è vero che molti tra quelli che non sono andati a votare stanno nel campo della destra, e quindi sono tradizionalmente più anti-immigrati: anche se trovo un errore gigantesco regalare l’intero campo dell’astensionismo allo schieramento di centro-destra (semplicemente, esiste un’altra sinistra, e un centro, molto più ampi di quello che alcuni pensano, che non si identificano con quella sinistra, quella che i referendum sul lavoro li ha voluti). Non solo: anche il fatto che nello schieramento progressista ci fossero persone contrarie al referendum sulla cittadinanza, lungi dall’essere un problema, conferma che si è trattato di una valutazione sul merito. Che, lo ricordo, tra i votanti è stata comunque favorevole.
Personalmente penso, e lo pensavo già prima del voto, che l’accorpamento con i referendum sul lavoro abbia quindi danneggiato proprio quello sulla cittadinanza: perché ha per l’appunto impedito di discuterne, di entrare nel merito, relegandolo nel cono d’ombra prodotto da ben quattro altri quesiti (gli unici che avevano un vero sostegno istituzionale, organizzativo, partitico) su argomenti minori e tecnicismi. E il “cinque sì”, così, all’ingrosso, a molti potenziali elettori non è piaciuto proprio perché era generico e privo di contenuti: ancora una volta, al di fuori di una valutazione di merito. Alla fine l’alternativa secca tra questi cinque sì e l’astensionismo, a prescindere dal contenuto, ha polarizzato ulteriormente l’elettorato, spingendo proprio l’astensionismo.
I referendum veramente su questioni civili, di civiltà, sono divisivi per definizione: non producono percentuali bulgare. Il referendum sul divorzio finì 59,3% contro 40,7%. Quello sull’aborto promosso dal Movimento per la Vita, che voleva limitarne l’applicazione, 68% contro 32%. Tutto sommato, la percentuale di sì in quello sulla cittadinanza si è collocata tra questi due risultati. Certo, direte, se avessero votato gli altri, di destra, sarebbe andata peggio… Ma, appunto, non è vero che gli altri sono di destra e quindi anti-immigrati (anche questo un assunto vero solo per una parte, non per tutti, come mostrano persino le divisioni partitiche sul tema nello schieramento di governo).
Facciamo un po’ di fantareferendum. Immaginiamo che si fosse votato sulla cittadinanza, sull’autonomia differenziata, sull’eutanasia e sulla depenalizzazione dell’uso della cannabis. Quattro referendum diversissimi: su cui moltissimi hanno sicuramente posizioni differenziate, favorevoli all’uno ma non all’altro. Si sarebbe discusso maggiormente nel merito. La scappatoia dell’astensione sarebbe probabilmente stata più rischiosa, perché alcuni referendum avrebbero agito come effetto di trascinamento anche su altri, rendendo tutt’altro che scontato (come invece era adesso) il non raggiungimento del quorum (alcuni quesiti sarebbero stati interessanti per uno schieramento, altri per l’altro, alcuni per alcune fasce di popolazione e d’età, altri per altre: molti più giovani avrebbero votato, per esempio). Quale sarebbe stato il risultato, non può prevederlo nessuno. Ma non darei per scontato che quello sulla cittadinanza avrebbe perso. Tutt’altro.
Se, poi, si modificasse, grazie a una iniziativa bipartisan oggi doverosa, il meccanismo stesso del referendum e le sue modalità, potremmo in futuro avere non poche sorprese. Un gigantesco interrogativo pesa innanzitutto sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.
Infine, una riflessione seria va fatta sulle forme stesse dell’esercizio del voto. Ma è mai possibile che nel 2025 non si sia ancora capaci di formulare dei quesiti che facciano riferimento al contenuto di ciò per cui si vota, anziché a formule giuridiche esoteriche, incomprensibili anche a un plurilaureato? È anche così che si uccide la democrazia, insieme ai timbrini sul certificato elettorale cartaceo (ma perché non basta la carta d’identità?) e alle matite copiative, e altri ridicoli rituali burocratici senza alcun senso della realtà e della storia, impensabili e persino indecenti in epoca di intelligenza artificiale. E la responsabilità è di tutti, destra sinistra e centro.
È credibile, è accettabile, è sensato, che non si sia capaci nemmeno di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri Paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.
Il referendum, insomma, non è morto. È solo usato male, e quindi dà risultati discutibili. Ragione di più per migliorare la situazione. C’è margine per farlo.
Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
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Stefano Allievi è professore di Sociologia e direttore del Master in Religions, Politics and Global Society presso l’Università di Padova. Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso, con particolare attenzione alla presenza islamica. Tra i suoi libri Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET 2021) e Il sesto continente. Le migrazioni tra natura e società, biodiversità e pluralismo culturale (con G. Bernardi e P. Vineis, Aboca Edizioni 2023). Per Laterza è autore di: Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna, 2016); Immigrazione. Cambiare tutto (2018); 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (2018); La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (2020); Governare le migrazioni. Si deve, si può (2023), Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni (2025).