Rottamare i tecnocrati dell'Europa?

Gli atteggiamenti prevalenti della politica italiana nei confronti dell’Europa oscillano da sempre tra il consenso disinformato e lo scetticismo ideologico: con un progressivo prevalere del secondo sul primo.

Da sempre siamo stati un paese e un popolo di euroentusiasti. I padri dell’Europa – grandi politici democristiani come Adenauer, Schuman, De Gasperi – avevano ben chiaro che cosa volevano, e soprattutto da quale situazione volevano uscire: il disastro della seconda guerra mondiale e dei totalitarismi europei bruciava ancora, e da solo delineava un’orizzonte da percorrere. Non a caso l’Italia è stata tra i promotori più convinti dell’allora Mercato Europeo Comune, i cui Trattati sono stati firmati a Roma. Grandi visionari come Altiero Spinelli, che l’Europa la immaginavano dal confino nell’isola di Ventotene, furono capaci di seminare il germe di un’idea che avrebbe attecchito col tempo anche in una sinistra molto tiepida, che riuscì a farsi perdonare l’iniziale diffidenza – e l’espulsione di Spinelli dal Partito Comunista fin dal 1937, per il suo antistalinismo, precondizione del suo europeismo – eleggendolo tardivamente come indipendente del PCI alla Camera e poi nel primo Parlamento europeo. E da sempre gli italiani hanno avuto una percentuale di votanti alle elezioni europee tra le più alte d’Europa, spesso incomprensibile. Tanto più che l’Europa è sempre stata considerata dai partiti un’entità di sostanziale irrilevanza: non a caso, lungi dal mandarci i loro uomini migliori, hanno sempre considerato il parlamento europeo una lussuosa discarica di trombati e di nullità incompetenti, che dall’esperienza europea non hanno imparato e riportato nulla. Persino quando, con Prodi, l’Italia ebbe l’onore della presidenza della Commissione europea, essa fu considerata da molti – dal D’Alema che dell’operazione fu il regista allo stesso diretto interessato – una specie di nobile esilio che tenesse lontano un incomodo protagonista: più politica interna, insomma, che lungimirante politica estera.

Ora le parti si sono invertite, e i ruoli diversificati. Ora che i partiti stanno finalmente capendo che l’Europa è davvero importante, sono le pubbliche opinioni, gli elettori, che se ne allontanano. Votando sempre meno alle elezioni europee, e votando sempre più per i partiti anti-europeisti: un club guidato in Italia dal Movimento 5 Stelle, ma che include anche la Lega e numerosi pezzi di opinione euroscettici, particolarmente rilevanti all’interno del centro-destra. Colpa anche, forse soprattutto, di un’Europa percepita a ragione come lontana e distante, stizzosamente tecnocratica e politicamente incapace di sognare il suo stesso sogno: attenta agli interessi finanziari e alle compatibilità macroeconomiche, ma molto meno alla vita delle persone e al benessere reale dei paesi, come ha mostrato trasparentemente la tragedia in cui è stata fatta cadere la Grecia.

L’Italia, che nei fatti ha praticato l’inosservanza sistematica delle norme europee più stringenti e l’incapacità di goderne i benefici e le opportunità, sul piano politico, in tempi recenti, ha espresso un’adesione quasi ragionieristica e sostanzialmente acritica a politiche e parametri spesso insensati, parlando, con il tecnico Monti e il quasi tecnico Letta, lo stesso linguaggio dei tecnocrati europei. Dall’altra parte ci sono gli anti-europeisti ideologici, che rischiano di portarci fuori dall’euro senza cognizione di causa e senza ragione. In questo paesaggio fa benissimo Matteo Renzi, che ha sempre rivendicato una forte vocazione europeista come ragione fondamentale della sua politica, a porre qualche condizione, chiedendo all’Europa di ripensarsi, se vuole sopravvivere come esperienza politica e non solo come dato macroeconomico. Solo che rottamare l’Europa tecnocratica – quella del rispetto di numeri e cifre astratte e casuali (oggi sappiamo come il famoso parametro del 3% nel rapporto tra deficit e Pil sia stato inventato per ragioni contingenti e non abbia alcuna base scientifica) – sarà più difficile del previsto, come si è visto già dalle prime reazioni: perché si tratta di un potere autoreferenziale, che soffre di un deficit di democrazia, non avendo alcuna diretta legittimazione popolare. Difficile, quindi, da scardinare dal basso.

Rottamare i tecnocrati dell’Europa, in “Piccolo” Trieste, 22 marzo 2014, p.1

E’ difficile rottamare l’Europa, in “Mattino” Padova, “Tribuna” Treviso, “Nuova” Venezia, “Corriere delle Alpi”, 23 marzo 2014, p.1

Aforisma politico

L’unica riforma possibile è quella che ha i voti.
O quella che ha dalla sua la forza: ma allora si chiama in altro modo.
Il resto sono solo esercizi di stile.

Droghe leggere: una svolta culturale?

La scelta del governo Renzi di non impugnare la legge della regione Abruzzo sull’uso della cannabis per fini terapeutici (come aveva invece fatto il governo Monti con la precedente legge regionale del Veneto, ad esempio), costituisce – insieme alla recentissima sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale e annullato la legge Fini-Giovanardi, nella parte che equipara le droghe leggere alle droghe pesanti – una significativa rivoluzione culturale.

Entrambi i provvedimenti vanno infatti nella direzione dell’apertura e della depenalizzazione. Della prima decisione beneficeranno i malati, soprattutto cronici, che non dovranno essere più costretti a imbarazzanti e costosi sotterfugi e a un’illiceità sostanziale. Della necessaria riforma che la Consulta impone, beneficeremo invece tutti quanti. La legge Fini-Giovanardi, infatti, ha avuto per effetto di criminalizzare un comportamento e una generazione, di fatto trasformando il possesso e lo spaccio di piccole quantità di droghe leggere ad un crimine penale grave, che ha portato in carcere decine di migliaia di giovani, rovinandoli assai più di quanto avrebbe potuto fare la droga stessa, intasando i tribunali – in un paese dalla giustizia cronicamente lenta – di processi inutili, e occupando una percentuale cospicua di posti nelle carceri, rendendole invivibili e portando l’Italia sul banco degli imputati della Corte Europea, al prezzo di costose sanzioni e di un’inciviltà giuridica sostanziale.

Non c’è dubbio che il consumo di droghe, leggere o pesanti che siano, sia un comportamento da combattere. Le dipendenze, tutte, incluse quelle legali – dal tabacco, all’alcol al gioco d’azzardo, che hanno spesso costi ed effetti più gravi, anche se non sono considerate reato e producono buoni ritorni nelle casse dello stato – sono moralmente problematiche e socialmente costose. Ma non c’è dubbio nemmeno che punire chi spaccia marijuana o hashish con una pena da sei a venti anni (mentre prima, per le droghe leggere, era fino a sei anni) sia un’offesa al buon senso prima ancora che alla giustizia. Si calcolano intorno ai diecimila i detenuti che potrebbero beneficiare della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, nel senso indicato dalla Corte: un provvedimento che, da solo, svuoterebbe le carceri più di qualunque indulto, e con maggiore sensatezza, visto che il 40% dei detenuti e la metà degli stranieri sono in carcere per reati legati alla droga, e oltre il 20% dei detenuti è tossicodipendente, e potrebbe verosimilmente curarsi meglio altrove.

La Fini-Giovanardi, del resto, approvata nel 2006, andava in controtendenza con le riflessioni avviate a livello di Nazioni Unite, sull’inefficacia delle politiche di mera repressione, e con le legislazioni introdotte da vari paesi: indirizzatesi verso una depenalizzazione sostanziale di quanto gira intorno al consumo di droghe leggere, e sperimentando talvolta forme di legalizzazione. Si rende quindi necessario un ripensamento della normativa, e più in generale delle politiche sulle droghe, della penalizzazione e della detenzione come rimedio ai danni che provocano, sia in termini di efficacia individuale e sociale, che come strumento di lotta al crimine organizzato: coinvolgendo la pubblica opinione, poiché è un tema molto sentito dagli individui e dalle famiglie, prima ancora che dalle istituzioni. In maniera laica, senza crociate culturali, nell’uno e nell’altro senso: pensando a un’idea alta di giustizia, e anche di società, di comportamenti accettabili o meno. Non si può tuttavia evitare un bilancio dell’attuale impianto legislativo e culturale, pesato su troppi ragazzi: minacciati gravemente per un ‘reato senza vittime’ che nella consapevolezza dei più è inesistente, sottoposti talvolta all’inutile pesantezza della legge e dei suoi esecutori (che avrebbero potuto essere impiegati più utilmente in altro modo, con maggiore beneficio per la sicurezza pubblica), troppo spesso finiti in carcere, e qualche volta finiti peggio, per un comportamento deviante certamente minore (in un paese che legalizza l’azzardo e penalizza molto meno tutti i reati fiscali, ad esempio), producendo una visione iniqua della giustizia, e il sospetto gravissimo di adottare, in materia penale, due pesi e due misure. Partire dall’uso della cannabis per fini terapeutici può essere un modo soft di aprire un dibattito non più procrastinabile.

La svolta di Renzi sulle droghe, in “Messaggero veneto”, 11 marzo 2014, p. 1

Cannabis: i benefici per tutti, in “Mattino” Padova, “Tribuna” Treviso, “Nuova” Venezia, “Corriere delle Alpi”, 12 marzo 2013, p.1

Presentazioni “Globalizzazione e pluralismo culturale” 2014

Presentazioni “Globalizzazione e pluralismo culturale”

A.A. 2014

31 marzo – Sloterdijk “L’ultima sfera”, Marramao “Passaggio a occidente” (Giulia Lucchini, Denise Masievo)

1 aprile – Huntingon “Lo scontro delle civiltà”, Barber “Guerra santa contro McMondo” (Federico Pastrello, Antonio Marchesin)

2 aprile – Sen “Identità e violenza”, Kymlicka “La cittadinanza multiculturale” (Naike Borgo, Giacomo Mirto)

7 aprile – Elliott/Urry “Vite mobili”, Beck “Lo sguardo cosmopolita” (Margherita Murgia, Antonella Gravina)

8 aprile – Stiglitz “Il prezzo della disuguaglianza”, Napoleoni “Economia canaglia” (Nadia Ballestrin, Stefano Allievi)

9 aprile – Lupton “Il rischio”, Bauman “Paura liquida” (Meng Xia, Davide Calabrese)

14 aprile – Jenkins “Il Dio dell’Europa”, Caldwell “L’ultima rivoluzione dell’Europa” (Alice Cecchellero, Patrizia Spinacé)

15 aprile – Naim “La fine del potere”, Pinker “Il declino della violenza” (Alessia Zordan, Ilaria Belluco)

Politica, simboli, mutamento

Il governo Renzi nasce male, nelle sue forme: congiura di palazzo, scelta dei ministri e dei sottosegretari con troppe conferme e troppi compromessi con gli alleati. Nasce tuttavia con aspettative forti e promesse altisonanti, fondate essenzialmente sull’uomo che lo guida, sulla promessa quasi palingenetica che lo accompagna. Continua a leggere

Un paio di cose, almeno, sono già cambiate.

Riprendo l’osservazione da una persona che stimo.
Tra tante critiche, e tanto fuoco amico, vorrei ricordare che, da ora in poi, sarà difficile immaginare un governo con un’età media molto alta, e senza una significativa presenza femminile (vedo che a sinistra, tra alcune, è diventato improvvisamente di moda tacciare la parità di genere di sessismo…). Sarà poco, ma c’è, è un dato, oggettivo.
Poi, come giusto, come tutti i governi, dipenderà da come si governa. E quello lo vedremo. Non possiamo ancora dirlo. Io, almeno, non posso. Molti altri hanno già espresso la loro sentenza.

Renzi e il governo post-partitico

Nasce il governo Renzi. In mezzo alle polemiche, come inevitabile, ma nasce. Con le sue facce nuove, e le sue facce vecchie. Con le discontinuità non solo simboliche, e le continuità deludenti. Con pochi ministri, i più giovani della storia d’Italia, e la presenza femminile più massiccia, la metà. Eppure non sono queste le novità vere. Continua a leggere

A proposito dell'ultima inutile disfida interna. Ma potrebbe essere un'altra…

Lo dico. Me lo dico. Sommessamente.

E se la smettessimo di pensare la politica con una logica da tifo calcistico (magari non più applicata ai partiti, ma ai sottogruppi interni): la mia squadra, la tua squadra, il mio capitano è sempre onesto e senza macchia, il tuo sempre falso e spergiuro, i supporter della mia squadra sono comunque buoni, puri, persino belli, quelli della tua sempre in mala fede, disonesti, teleguidati, i miei li guardo con indulgenza, sempre, i tuoi sempre con astio, pregiudizio, complottismo…? Continua a leggere

Politica locale: perché, alle primarie, voterò Michele Schiavo

Domenica 23 febbraio si vota alle primarie per il candidato sindaco di Cadoneghe.

Ci abito da oltre un decennio. Il più intenso, il più ricco di esperienze. Qui si è formata la mia famiglia, qui sono cresciuti i miei figli.

Qui mi sono impegnato anche nella politica attiva. Qui, quando è nato il Partito Democratico, mi sono iscritto per la prima volta.

Ora, per la prima volta, potremo scegliere il nostro candidato sindaco con le primarie. E trovo giusto dichiararsi. Continua a leggere

La giusta protesta delle imprese

Anche nei modi, la protesta di artigiani e commercianti è pacata. Educata nei cartelli. Morigerata nel linguaggio: giusto qualche inevitabile “vaffa…”. E contenuta nei tempi: un paio d’ore e via, che c’è da tornare al lavoro. Ma i cinquantamila artigiani e commercianti che hanno manifestato a Roma, proprio perché poco abituati a farlo, sono un segnale forte, drammatico. Continua a leggere