Il referendum sulla cittadinanza, il fallimento della politica e la crisi della democrazia, in “Dialoghi Mediterranei”, 1 luglio 2025
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-referendum-sulla-cittadinanza-il-fallimento-della-politica-e-la-crisi-della-democrazia/
Il referendum sulla cittadinanza ci ha detto molte cose sul nostro rapporto con gli immigrati e i loro discendenti. Ma forse ci ha detto anche delle cose che non abbiamo capito. Proviamo a analizzarle.
Intanto: era il referendum lo strumento giusto? No di certo. Il tema è complesso, articolato, presuppone canali, modi e numeri che vanno analizzati. Toccherebbe alla politica, intervenire, discutere, dibattere: il Parlamento è fatto per questo. Ma, come sappiamo, la politica non lo fa: perché bisognerebbe aggiornarsi, studiare i dossier, gli effetti delle proprie scelte (o non scelte), magari arrivare a un decente compromesso tra visioni differenti. E poi, guai ad assumere una presa di posizione netta, anche se giusta, o anche solo utile, se implica rischiare di perdere anche solo un voto. Invece è più facile e comodo ripetere i soliti quattro slogan per essere eletti, e non fare nulla – costa meno. È per questo che, sulla questione della cittadinanza per gli immigrati, si è arrivati al referendum, così come su altre questioni, come quelle bioetiche e legate ai diritti civili, tocca aspettare la Corte Costituzionale. La politica, il suo mestiere, non lo fa.
Su questo tema, poi, le occasioni perse dalla politica sono state clamorose. Non solo non è intervenuta la destra, per non dover rinnegare decenni di indiscriminata propaganda anti-immigrati, con la quale i voti li raccoglie (anche se li rinnega nei fatti: con questo governo ha decretato il più ampio decreto flussi della storia italiana, così come Berlusconi ha promosso le sanatorie più numerose, ma guai a ammetterlo – e, va pur detto, non tutta la destra la pensa nello stesso modo, anche sullo specifico della cittadinanza, come abbiamo visto dalle aperture e disponibilità di Forza Italia). Anche la sinistra, nel 2015, quando era al governo e aveva i numeri per approvare una legge (anche i numeri dei sondaggi: la gente era d’accordo, e i giovani ancor più). Ma, per pavidità, o, in altri casi, per la pretesa di ottenere di più, ha lasciato perdere: e non ha portato al voto al Senato ciò che già era stato approvato alla Camera. Arrecando un danno enorme agli immigrati in generale e alle seconde generazioni in particolare: norme che vanno nella direzione indicata da quelle di cui parliamo ora potrebbero essere legge già da dieci anni.
È per questo che è toccato inventarsi un referendum, che di necessità propone una scelta netta, anziché consentire lo spazio per una ampia discussione su una riforma, che sarebbe stata una imperdibile occasione di maturazione della pubblica opinione, su un tema di valenza storica: non meno di referendum come quelli sul divorzio o l’aborto, e assai più di quelli andati al voto sul lavoro. Solo che siamo in epoca di partecipazione diversa, in cui da decenni un referendum non raggiunge il quorum. E lo si doveva immaginare, che con tutta probabilità sarebbe potuta andare male.
La via scelta dai promotori è stata comunque semplice, intuitiva, lineare: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ri-portare gli anni necessari per fare domanda da dieci a cinque, com’era fino al 1992 (e come è oggi in Germania, in passato il Paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo: Austria e Finlandia sono a sei, mentre ne ha dieci la Spagna e a dieci vuole tornare la Gran Bretagna, che oggi ne ha cinque). Il colpo di genio era dunque usare un referendum abrogativo, visto che quello propositivo non è ammesso, per uno scopo di fatto propositivo e innovativo. Prendendo atto che, oltre tutto, in Italia i dieci anni non sono reali, ma sono molti di più: lo Stato si prende ben tre anni per rispondere, ma spesso sono di più (e quindi con il taglio dei tempi si sarebbe arrivati comunque quasi ai dieci sostanziali), senza pagare pegno: nessuno fa causa a uno Stato inadempiente quando è da quello stesso Stato che dipende, letteralmente, la propria possibilità di acquisire, attraverso la pienezza dei diritti (o “il diritto di avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt), una vita migliore.
L’acquisizione della cittadinanza dei genitori sarebbe andata a ricadere automaticamente sui figli minori (esclusi i minori stranieri non accompagnati), risolvendo quindi il dilemma del mai approvato ius scholae: coinvolgendo una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (quella reale è inferiore perché molti genitori non avrebbero comunque presentato la domanda, per disinteresse o perché cittadini di Paesi che non consentono la doppia cittadinanza, e non disposti a perdere la propria), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione presente nelle nostre scuole. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro compagni considerano loro pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono di origine straniera. Che se ne ascoltassimo le aspirazioni, ci accorgeremmo che non sono più stranieri dei nostri figli, condividendo con loro aspettative e frustrazioni. Ma a cui sono negati i diritti che hanno i nostri figli. E a cui restituiamo ogni giorno, per questo solo fatto, un messaggio di esclusione, di rifiuto. Un messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile considerarlo un incentivo all’integrazione. E quindi un vantaggio per noi, autoctoni.
Poi, è andata come è andata. I cinque referendum per cui siamo stati chiamati a votare erano tra loro molto eterogenei, e questo di per sé rischiava di avere ulteriori effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi, sul tema del lavoro, avevano a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Solo il quinto si occupava di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccavano poi aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnavano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni): ma non erano realmente trasformativi della conformazione della società in maniera radicale.
Quello sulla cittadinanza, invece, pur vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si saldava con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale. Avrebbe fatto discutere di più, dando un’idea di società diversa, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decideva chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomigliava più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.
Se posso dire la mia, nel merito: my two cents. Credo che i referendum sul lavoro fossero sbagliati. O meglio, al di là del merito, per qualcuno condivisibile, credo che avessero uno scopo politico, di posizionamento ideologico, di schieramento, di egemonia su un’area politica, di resa dei conti interna (anche per chi ne condivideva il contenuto) – estraneo allo spirito stesso del referendum. E infatti hanno ottenuto un risultato quasi plebiscitario: anomalo, forse persino problematico e preoccupante, se si fosse votato nel merito. I plebisciti sono sempre sospetti. Se è andata così, in buona parte, è perché è stato votato per le stesse ragioni politiche e di schieramento per cui è stato promosso. Molti dei loro sostenitori probabilmente non vorranno riconoscersi in questa immagine: ma, di fatto, appare abbastanza chiaro che è stato votato perché lo promuovevano i propri partiti o la propria organizzazione sindacale – e, molto, per cercare di colpire, per via referendaria lo schieramento politico opposto, la destra. Come è risultato molto evidente (purtroppo, anche per le sorti future della democrazia) dal posizionamento espresso negli ultimi giorni di campagna referendaria dai promotori partitici (l’autogol del “preavviso di sfratto” per il governo se si fosse raggiunto un certo numero di voti: obiettivo anche questo mancato) – e, peggio ancora, dall’analisi post-voto, ridotta a slogan autoassolutori tutti politichesi (il confronto con i voti di Meloni), che nulla avevano a che fare con il contenuto dei quesiti.
Il referendum sulla cittadinanza, invece, è stato votato nel merito. Per questo ha avuto un risultato diverso. Il che è un’ottima notizia: tutto il contrario della lamentatio che si è vista levarsi nel campo che era favorevole al sì. È andato meglio, non peggio, degli altri referendum. Perché la gente, votando, ha detto quello che pensava nel merito. Ed è vero che molti tra quelli che non sono andati a votare stanno nel campo della destra, e quindi sono tradizionalmente più anti-immigrati: anche se trovo un errore gigantesco regalare l’intero campo dell’astensionismo allo schieramento di centro-destra (semplicemente, esiste un’altra sinistra, e un centro, molto più ampi di quello che alcuni pensano, che non si identificano con quella sinistra, quella che i referendum sul lavoro li ha voluti). Non solo: anche il fatto che nello schieramento progressista ci fossero persone contrarie al referendum sulla cittadinanza, lungi dall’essere un problema, conferma che si è trattato di una valutazione sul merito. Che, lo ricordo, tra i votanti è stata comunque favorevole.
Personalmente penso, e lo pensavo già prima del voto, che l’accorpamento con i referendum sul lavoro abbia quindi danneggiato proprio quello sulla cittadinanza: perché ha per l’appunto impedito di discuterne, di entrare nel merito, relegandolo nel cono d’ombra prodotto da ben quattro altri quesiti (gli unici che avevano un vero sostegno istituzionale, organizzativo, partitico) su argomenti minori e tecnicismi. E il “cinque sì”, così, all’ingrosso, a molti potenziali elettori non è piaciuto proprio perché era generico e privo di contenuti: ancora una volta, al di fuori di una valutazione di merito. Alla fine l’alternativa secca tra questi cinque sì e l’astensionismo, a prescindere dal contenuto, ha polarizzato ulteriormente l’elettorato, spingendo proprio l’astensionismo.
I referendum veramente su questioni civili, di civiltà, sono divisivi per definizione: non producono percentuali bulgare. Il referendum sul divorzio finì 59,3% contro 40,7%. Quello sull’aborto promosso dal Movimento per la Vita, che voleva limitarne l’applicazione, 68% contro 32%. Tutto sommato, la percentuale di sì in quello sulla cittadinanza si è collocata tra questi due risultati. Certo, direte, se avessero votato gli altri, di destra, sarebbe andata peggio… Ma, appunto, non è vero che gli altri sono di destra e quindi anti-immigrati (anche questo un assunto vero solo per una parte, non per tutti, come mostrano persino le divisioni partitiche sul tema nello schieramento di governo).
Facciamo un po’ di fantareferendum. Immaginiamo che si fosse votato sulla cittadinanza, sull’autonomia differenziata, sull’eutanasia e sulla depenalizzazione dell’uso della cannabis. Quattro referendum diversissimi: su cui moltissimi hanno sicuramente posizioni differenziate, favorevoli all’uno ma non all’altro. Si sarebbe discusso maggiormente nel merito. La scappatoia dell’astensione sarebbe probabilmente stata più rischiosa, perché alcuni referendum avrebbero agito come effetto di trascinamento anche su altri, rendendo tutt’altro che scontato (come invece era adesso) il non raggiungimento del quorum (alcuni quesiti sarebbero stati interessanti per uno schieramento, altri per l’altro, alcuni per alcune fasce di popolazione e d’età, altri per altre: molti più giovani avrebbero votato, per esempio). Quale sarebbe stato il risultato, non può prevederlo nessuno. Ma non darei per scontato che quello sulla cittadinanza avrebbe perso. Tutt’altro.
Se, poi, si modificasse, grazie a una iniziativa bipartisan oggi doverosa, il meccanismo stesso del referendum e le sue modalità, potremmo in futuro avere non poche sorprese. Un gigantesco interrogativo pesa innanzitutto sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.
Infine, una riflessione seria va fatta sulle forme stesse dell’esercizio del voto. Ma è mai possibile che nel 2025 non si sia ancora capaci di formulare dei quesiti che facciano riferimento al contenuto di ciò per cui si vota, anziché a formule giuridiche esoteriche, incomprensibili anche a un plurilaureato? È anche così che si uccide la democrazia, insieme ai timbrini sul certificato elettorale cartaceo (ma perché non basta la carta d’identità?) e alle matite copiative, e altri ridicoli rituali burocratici senza alcun senso della realtà e della storia, impensabili e persino indecenti in epoca di intelligenza artificiale. E la responsabilità è di tutti, destra sinistra e centro.
È credibile, è accettabile, è sensato, che non si sia capaci nemmeno di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri Paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.
Il referendum, insomma, non è morto. È solo usato male, e quindi dà risultati discutibili. Ragione di più per migliorare la situazione. C’è margine per farlo.
Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
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Stefano Allievi è professore di Sociologia e direttore del Master in Religions, Politics and Global Society presso l’Università di Padova. Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso, con particolare attenzione alla presenza islamica. Tra i suoi libri Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET 2021) e Il sesto continente. Le migrazioni tra natura e società, biodiversità e pluralismo culturale (con G. Bernardi e P. Vineis, Aboca Edizioni 2023). Per Laterza è autore di: Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna, 2016); Immigrazione. Cambiare tutto (2018); 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (2018); La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (2020); Governare le migrazioni. Si deve, si può (2023), Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni (2025).
Referendum cittadinanza: compagnia sbagliata, metodo discutibile. Ma il risultato, contrariamente a quanto si è detto, è incoraggiante.
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Il referendum sulla cittadinanza ci ha detto molte cose sul nostro rapporto con gli immigrati e i loro discendenti. Ma forse ci ha detto anche delle cose che non abbiamo capito. Proviamo a analizzarle.
Intanto: era il referendum lo strumento giusto? No di certo. Il tema è complesso, articolato, presuppone canali, modi e numeri che vanno analizzati. Toccherebbe alla politica, intervenire, discutere, dibattere: il Parlamento è fatto per questo. Ma, come sappiamo, la politica non lo fa: perché bisognerebbe aggiornarsi, studiare i dossier, gli effetti delle proprie scelte (o non scelte), magari arrivare a un decente compromesso tra visioni differenti. E poi, guai ad assumere una presa di posizione netta, anche se giusta, o anche solo utile, se implica rischiare di perdere anche solo un voto. Invece è più facile e comodo ripetere i soliti quattro slogan per essere eletti, e non fare nulla – costa meno. È per questo che, sulla questione della cittadinanza per gli immigrati, si è arrivati al referendum, così come su altre questioni, come quelle bioetiche e legate ai diritti civili, tocca aspettare la Corte Costituzionale. La politica, il suo mestiere, non lo fa.
Su questo tema, poi, le occasioni perse dalla politica sono state clamorose. Non solo non è intervenuta la destra, per non dover rinnegare decenni di indiscriminata propaganda anti-immigrati, con la quale i voti li raccoglie (anche se li rinnega nei fatti: con questo governo ha decretato il più ampio decreto flussi della storia italiana, così come Berlusconi ha promosso le sanatorie più numerose, ma guai a ammetterlo – e, va pur detto, non tutta la destra la pensa nello stesso modo, anche sullo specifico della cittadinanza, come abbiamo visto dalle aperture e disponibilità di Forza Italia). Anche la sinistra, nel 2015, quando era al governo e aveva i numeri per approvare una legge (anche i numeri dei sondaggi: la gente era d’accordo, e i giovani ancor più). Ma, per pavidità, o, in altri casi, per la pretesa di ottenere di più, ha lasciato perdere: e non ha portato al voto al Senato ciò che già era stato approvato alla Camera. Arrecando un danno enorme agli immigrati in generale e alle seconde generazioni in particolare: norme che vanno nella direzione indicata da quelle di cui parliamo ora potrebbero essere legge già da dieci anni.
È per questo che è toccato inventarsi un referendum, che di necessità propone una scelta netta, anziché consentire lo spazio per una ampia discussione su una riforma, che sarebbe stata una imperdibile occasione di maturazione della pubblica opinione, su un tema di valenza storica: non meno di referendum come quelli sul divorzio o l’aborto, e assai più di quelli andati al voto sul lavoro. Solo che siamo in epoca di partecipazione diversa, in cui da decenni un referendum non raggiunge il quorum. E lo si doveva immaginare, che con tutta probabilità sarebbe potuta andare male.
La via scelta dai promotori è stata comunque semplice, intuitiva, lineare: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ri-portare gli anni necessari per fare domanda da dieci a cinque, com’era fino al 1992 (e come è oggi in Germania, in passato il Paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo: Austria e Finlandia sono a sei, mentre ne ha dieci la Spagna e a dieci vuole tornare la Gran Bretagna, che oggi ne ha cinque). Il colpo di genio era dunque usare un referendum abrogativo, visto che quello propositivo non è ammesso, per uno scopo di fatto propositivo e innovativo. Prendendo atto che, oltre tutto, in Italia i dieci anni non sono reali, ma sono molti di più: lo Stato si prende ben tre anni per rispondere, ma spesso sono di più (e quindi con il taglio dei tempi si sarebbe arrivati comunque quasi ai dieci sostanziali), senza pagare pegno: nessuno fa causa a uno Stato inadempiente quando è da quello stesso Stato che dipende, letteralmente, la propria possibilità di acquisire, attraverso la pienezza dei diritti (o “il diritto di avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt), una vita migliore.
Poi, è andata come è andata. I cinque referendum per cui siamo stati chiamati a votare erano tra loro molto eterogenei, e questo di per sé rischiava di avere ulteriori effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi, sul tema del lavoro, avevano a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Solo il quinto si occupava di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccavano poi aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnavano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni): ma non erano realmente trasformativi della conformazione della società in maniera radicale.
Quello sulla cittadinanza, invece, pur vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si saldava con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale. Avrebbe fatto discutere di più, dando un’idea di società diversa, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decideva chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomigliava più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.
Se posso dire la mia, nel merito: my two cents. Credo che i referendum sul lavoro fossero sbagliati. O meglio, al di là del merito, per qualcuno condivisibile, credo che avessero uno scopo politico, di posizionamento ideologico, di schieramento, di egemonia su un’area politica, di resa dei conti interna (anche per chi ne condivideva il contenuto) – estraneo allo spirito stesso del referendum. E infatti hanno ottenuto un risultato quasi plebiscitario: anomalo, forse persino problematico e preoccupante, se si fosse votato nel merito. I plebisciti sono sempre sospetti. Se è andata così, in buona parte, è perché è stato votato per le stesse ragioni politiche e di schieramento per cui è stato promosso. Molti dei loro sostenitori probabilmente non vorranno riconoscersi in questa immagine: ma, di fatto, appare abbastanza chiaro che è stato votato perché lo promuovevano i propri partiti o la propria organizzazione sindacale – e, molto, per cercare di colpire, per via referendaria lo schieramento politico opposto, la destra. Come è risultato molto evidente (purtroppo, anche per le sorti future della democrazia) dal posizionamento espresso negli ultimi giorni di campagna referendaria dai promotori partitici (l’autogol del “preavviso di sfratto” per il governo se si fosse raggiunto un certo numero di voti: obiettivo anche questo mancato) – e, peggio ancora, dall’analisi post-voto, ridotta a slogan autoassolutori tutti politichesi (il confronto con i voti di Meloni), che nulla avevano a che fare con il contenuto dei quesiti.
Personalmente penso, e lo pensavo già prima del voto, che l’accorpamento con i referendum sul lavoro abbia quindi danneggiato proprio quello sulla cittadinanza: perché ha per l’appunto impedito di discuterne, di entrare nel merito, relegandolo nel cono d’ombra prodotto da ben quattro altri quesiti (gli unici che avevano un vero sostegno istituzionale, organizzativo, partitico) su argomenti minori e tecnicismi. E il “cinque sì”, così, all’ingrosso, a molti potenziali elettori non è piaciuto proprio perché era generico e privo di contenuti: ancora una volta, al di fuori di una valutazione di merito. Alla fine l’alternativa secca tra questi cinque sì e l’astensionismo, a prescindere dal contenuto, ha polarizzato ulteriormente l’elettorato, spingendo proprio l’astensionismo.
I referendum veramente su questioni civili, di civiltà, sono divisivi per definizione: non producono percentuali bulgare. Il referendum sul divorzio finì 59,3% contro 40,7%. Quello sull’aborto promosso dal Movimento per la Vita, che voleva limitarne l’applicazione, 68% contro 32%. Tutto sommato, la percentuale di sì in quello sulla cittadinanza si è collocata tra questi due risultati. Certo, direte, se avessero votato gli altri, di destra, sarebbe andata peggio… Ma, appunto, non è vero che gli altri sono di destra e quindi anti-immigrati (anche questo un assunto vero solo per una parte, non per tutti, come mostrano persino le divisioni partitiche sul tema nello schieramento di governo).
Se, poi, si modificasse, grazie a una iniziativa bipartisan oggi doverosa, il meccanismo stesso del referendum e le sue modalità, potremmo in futuro avere non poche sorprese. Un gigantesco interrogativo pesa innanzitutto sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.
È credibile, è accettabile, è sensato, che non si sia capaci nemmeno di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri Paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.
Il referendum, insomma, non è morto. È solo usato male, e quindi dà risultati discutibili. Ragione di più per migliorare la situazione. C’è margine per farlo.
Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
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Stefano Allievi è professore di Sociologia e direttore del Master in Religions, Politics and Global Society presso l’Università di Padova. Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso, con particolare attenzione alla presenza islamica. Tra i suoi libri Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (UTET 2021) e Il sesto continente. Le migrazioni tra natura e società, biodiversità e pluralismo culturale (con G. Bernardi e P. Vineis, Aboca Edizioni 2023). Per Laterza è autore di: Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (con G. Dalla Zuanna, 2016); Immigrazione. Cambiare tutto (2018); 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (2018); La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (2020); Governare le migrazioni. Si deve, si può (2023), Diversità e convivenza. Le conseguenze culturali delle migrazioni (2025).
Fine vita. Chi decide per chi.
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaChi decide, sul fine vita? La domanda potrebbe prevedere una risposta semplice: chi la vive. In realtà non è così. Non è così perché la vita stessa – chiamiamola come vogliamo: caso, fato, destino, fortuna, Dio – decide altrimenti. La maggior parte di noi non sceglie quando e come morire: semplicemente, ci capita – accade. Accade di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato, o di essere sopraffatti da una malattia, e non possiamo farci niente. Ma ci sono casi, sempre più frequenti, in cui un qualche potere decisionale in realtà ce l’abbiamo. Uno, antico come l’uomo pensante, è il suicidio: l’atto di rinunciare alla vita, che dalla tragedia greca (o dall’esempio di Socrate) al Romanticismo, da Shakespeare a Hollywood, attraversa tutta la nostra storia. Non come fatto naturale (non ci sono specie animali che si suicidano, semmai esistono forme di sacrificio altruistico, come anche nella specie umana, del resto): ma come scelta consapevole, anche se per i motivi più disparati, dal senso di ingiustizia all’amore (magari non corrisposto o tradito), dall’orgoglio alla vergogna – sentimenti umani, che gli animali non provano. Poi si può andare incontro alla morte, o rischiarla, mettendola in conto: dall’andare in guerra (anche nelle periferie delle nostre città) agli sport estremi. Questi casi di suicidio non sono regolabili dal decisore pubblico, dalla legge: sono atti individuali (anche se, come ci ha insegnato Durkheim, con delle implicazioni sociali: non a caso ci sono categorie, etnie, popolazioni, classi, che si suicidano più di altre), e come tali sfuggono all’idea stessa di regolazione.
Tuttavia oggi si assiste alla crescita, e alla maggiore visibilità, di forme di suicidio (ci riferiamo al suicidio assistito, ovvero all’autosomministrazione di un farmaco letale) dovute anche, per molti versi, allo stesso progresso, quello scientifico e medico in particolare: oggi capace di allungare la vita anche di persone gravissimamente malate, ma con questo allungandone indefinitamente anche il processo di decadimento e le sofferenze – rendendo la parte finale della vita, per anni e talvolta decenni, per alcuni, insostenibile. Un’agonia, cioè letteralmente una lotta: faticosa, ma che non è possibile vincere. È un paradosso, ma significativo: il risvolto negativo di un fatto di per sé positivo. E non possiamo evitare di farci, in proposito, nuove domande, a cui abbiamo il dovere di cercare risposte nuove. Anche perché, essendo queste situazioni una conseguenza del progresso scientifico e tecnologico (in assenza del quale queste persone sarebbero quasi sempre già morte da un pezzo), la natura non c’entra nulla, e la difesa della vita non ha niente di naturale – quella vita esiste solo grazie alla tecnica, ed è il rifiutare l’invasività della tecnica, semmai, un atto di obbedienza alla natura.
La politica aveva deciso finora di rifiutarsi di decidere. E così sono stati altri poteri dello stato a dover intervenire: la Corte costituzionale, da un lato (che ha tentato a lungo di strigliare la politica su questo punto, tentando di indicare direttive e tempistiche), e le Regioni, dall’altro (che dovendo rispondere alle richieste della cittadinanza, e alle stesse sollecitazioni della Consulta, hanno il dovere di proporre linee guida praticabili). Oggi è il governo a proporre delle linee guida: un po’ per la necessità di intervenire, e un po’ anche per la volontà di togliere potestà alle regioni, impedendo loro di decidere per via regolamentare, come avevano tentato di fare, in forme diverse, imponendo tempi certi di risposta alle aziende sanitarie, Emilia-Romagna e Toscana, e anche il Veneto, per iniziativa (malvista e bocciata dai suoi) del Presidente Zaia. In sé è una buona notizia: non è infatti un atto di imperio, ma si tratta di una proposta, che andrà in commissione, dove inizierà la discussione. Lì ci sarà modo di entrare nel merito, anche di alcune premesse che potrebbero essere discutibili: dall’esclusione che il servizio sanitario eroghi la prestazione, al tempo lunghissimo (quattro insostenibili anni, per chi soffre di patologie irreversibili che producono sofferenze intollerabili) per ripresentare la richiesta, in caso fosse respinta, fino alla nomina politica del comitato etico chiamato a decidere. Ma ci sarà modo, anche per la società civile, di far sentire la sua voce: dalle professioni sanitarie alle famiglie dei pazienti e ai diretti interessati, passando per l’associazionismo e la pubblica opinione, che da molti sondaggi risulta, certo, divisa, ma tendenzialmente favorevole all’approvazione di una legge in merito. Sarebbe di per sé un passo avanti.
L’uomo, le leggi. Chi decide sulla fine della nostra vita, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 27 giugno 2025, editoriale, pp. 1-3
Referendum cittadinanza: una lettura in controtendenza
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaAnalizzo in maniera abbastanza diversa l’esito dei referendum: di uno in particolare. Credo che quelli sul lavoro fossero sbagliati (ne ho scritto qui). O meglio, al di là del merito, credo che avessero uno scopo politico, di posizionamento ideologico, di schieramento, di egemonia su un’area politica, di resa dei conti interna, anche (e anche per chi ne condivideva il contenuto). E infatti hanno ottenuto un risultato quasi plebiscitario: anomalo, forse persino problematico e preoccupante, se si fosse votato nel merito. I plebisciti sono sempre sospetti. Se è andata così, in buona parte, è perché è stato votato per le stesse ragioni politiche e di schieramento per cui è stato promosso. So che molti non vorranno riconoscersi in questa immagine: ma, di fatto, mi appare abbastanza chiaro che è stato votato perché lo promuovevano i propri partiti o la propria organizzazione sindacale – e, molto, per cercare di colpire, per via referendaria (e quindi obliqua) lo schieramento opposto, la destra. Come è molto evidente (purtroppo, anche per le sorti future della democrazia) dal posizionamento espresso negli ultimi giorni di campagna referendaria dai promotori partitici (il ridicolo autogol del “preavviso di sfratto” per il governo) – e, peggio ancora, dall’analisi post-voto, ridotta a slogan autoassolutori tutti politichesi (il confronto con i voti di Meloni).
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Il referendum sulla cittadinanza, invece, è stato votato nel merito. Per questo ha avuto un risultato diverso. Il che è un’ottima notizia: tutto il contrario della lamentatio che vedo levarsi nel campo che era favorevole al sì. È andato meglio, non peggio, degli altri referendum. Perché la gente, votando, ha detto quello che pensava nel merito. Ed è vero che molti tra quelli che non sono andati a votare stanno nel campo della destra, e quindi sono tradizionalmente più anti-immigrati: anche se trovo un errore gigantesco regalare l’intero campo dell’astensionismo allo schieramento di centro-destra (semplicemente, esiste un’altra sinistra, e un centro, molto più ampi di quello che alcuni pensano, che non si identificano con quella sinistra, quella che i referendum sul lavoro li ha voluti).
Personalmente penso, e lo pensavo già prima del voto, che l’accorpamento con i referendum sul lavoro abbia danneggiato proprio quello sulla cittadinanza: perché ha per l’appunto impedito di discuterne, di entrare nel merito, relegandolo nel cono d’ombra prodotto da ben quattro altri quesiti (gli unici che avevano un vero sostegno istituzionale, organizzativo, partitico) su argomenti minori e tecnicismi, che si sapevano essere sostenuti per ragioni di schieramento. E il “cinque sì”, così, all’ingrosso, a molti potenziali elettori non è piaciuto: alla fine l’alternativa secca tra questi cinque sì e l’astensionismo, a prescindere dal merito, ha polarizzato ulteriormente l’elettorato, spingendo proprio l’astensionismo.
I referendum veramente su questioni civili, di civiltà, sono divisivi per definizione: non producono percentuali bulgare. Il referendum sul divorzio finì 59,3% contro 40,7%. Quello sull’aborto promosso dal Movimento per la Vita, che voleva limitarne l’applicazione, 68% contro 32%. Tutto sommato, la percentuale di quello sulla cittadinanza di oggi. Certo, direte, se avessero votato gli altri, di destra, sarebbe andata peggio… Ma, appunto, non è vero che gli altri sono di destra e quindi anti-immigrati (anche questo un assunto vero solo per una parte, non per tutti, come mostrano persino le divisioni partitiche sul tema nello schieramento di governo).
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Facciamo un po’ di fantareferendum. Immaginiamo che si fosse votato sulla cittadinanza, sull’autonomia differenziata, sull’eutanasia e sulla depenalizzazione dell’uso della cannabis. Quattro referendum diversissimi: su cui moltissimi hanno sicuramente posizioni differenziate, favorevoli all’uno ma non all’altro. Si sarebbe discusso maggiormente nel merito. La scappatoia dell’astensione sarebbe probabilmente stata più rischiosa, perché alcuni referendum avrebbero agito come effetto di trascinamento anche su altri, rendendo tutt’altro che scontato (come invece era adesso) il non raggiungimento del quorum (alcuni sono interessanti per uno schieramento, altri per l’altro, alcuni per alcune fasce di popolazione e d’età, altri per altre: molti più giovani avrebbero votato, per esempio). Quale sarebbe stato il risultato, non può prevederlo nessuno. Ma non darei per scontato che quello sulla cittadinanza avrebbe perso. Tutt’altro.
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Se, poi, si modificasse, grazie a una iniziativa bipartisan oggi doverosa, il meccanismo stesso del referendum e le sue modalità (nel modo e per le ragioni che ho cercato di spiegare qui ), potremmo in futuro avere non poche sorprese. Il referendum, insomma, non è morto. È solo usato male, e quindi dà risultati discutibili. Ragione di più per migliorare la situazione. C’è margine per farlo.
A malinquorum. Qualche riflessione post-referendum
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Articoli di Società / Society Articles, Politica / Politics, Società / Society /da AugustaSalvo i dettagli su numeri esatti e percentuali, il referendum è finito come tutti sapevano che sarebbe finito: con il mancato raggiungimento del quorum, e la non vittoria dei sì, maggioritari tra i voti espressi ma insufficienti e dunque, in definitiva, inutili.
A questo punto qualche riflessione è d’obbligo. Sull’utilizzo del referendum, per cominciare. In un paese in cui la politica non decide nulla, nemmeno (men che meno) sui grandi principi e le battaglie valoriali – si pensi ai diritti civili, alle coppie omogenitoriali e al riconoscimento dei loro figli, al principio di autodeterminazione e al fine vita, e tante altre questioni pure sentite e discusse – è inevitabile che si debba attendere la supplenza della magistratura, o appunto i referendum. Detto questo, il suo uso è spesso più tattico – politico nel senso di politicante – che di principio. L’abbiamo visto anche in questa tornata referendaria. Se il referendum sulla cittadinanza aveva valore di battaglia civile – di allargamento, molto concreto e sostanziale, della sfera dei diritti – gli altri sono sembrati a molti più una resa di conti interna a un campo (in questo caso, al mondo della sinistra, dove alcuni erano chiamati a votare contro norme che avevano approvato in passato): un tentativo, legittimo ma obliquo, di far pesare leadership e organizzazioni in funzione di indirizzo politico e egemonia ideologica su un’area politico-elettorale. E il fatto che quattro quesiti su cinque fossero di questo tenore, e per giunta su aspetti molto tecnici e in qualche caso opinabili nelle loro conseguenze, ha di fatto oscurato e marginalizzato – e quindi danneggiato – la discussione sull’unico che aveva un vero valore civile. E forse è il momento che i promotori di referendum comincino a ragionare sugli effetti che ha il non vincerli. La situazione non rimane uguale a prima: è un sostanziale e sostanzioso passo indietro, che finisce per legittimare e rinvigorire i conservatorismi anziché le spinte innovative.
Un gigantesco interrogativo pesa anche sul mantenimento del quorum stesso. Non si capisce (o meglio si capisce benissimo, ma sono ragioni in buona parte interessate) perché alle elezioni il quorum non ci sia, e una maggioranza possa essere determinata, in linea teorica, anche con un solo votante, senza soglia minima, mentre per i referendum sì. A rigore, a voler essere coerenti con la logica della rappresentatività, se votasse solo metà del corpo elettorale dovrebbe eleggere solo la metà dei rappresentanti. In un periodo storico che conosce un calo drastico e per ora apparentemente irreversibile, in tutto l’Occidente, della partecipazione elettorale, avrebbe senso, dunque – oltre che promuovere nuove forme di partecipazione – introdurre un quorum pesato non sul numero degli elettori (il corpo elettorale nella sua interezza), ma parametrato al numero di elettori che realmente si è recato alle urne nelle elezioni precedenti, o addirittura l’abolizione del quorum stesso. Altrimenti possiamo dire addio all’istituto referendario in quanto tale: magari se ne promuoveranno tanti (con la firma elettronica la soglia di consensi necessari per presentarli è diventata molto bassa), ma non ne passerà più nemmeno uno.
Infine, una riflessione seria va fatta sulle forme stesse dell’esercizio del voto. Ma è mai possibile che nel 2025 non si sia ancora capaci di formulare dei quesiti che facciano riferimento al contenuto di ciò per cui si vota, anziché a formule giuridiche esoteriche, incomprensibili anche a un plurilaureato? È anche così che si uccide la democrazia, insieme ai timbrini sul certificato elettorale cartaceo (ma perché non basta la carta d’identità?) e alle matite copiative, e altri ridicoli rituali burocratici senza alcun senso della realtà e della storia, impensabili e persino indecenti in epoca di intelligenza artificiale. E la responsabilità è di tutti, destra sinistra e centro. Ma è mai possibile che non si sia capaci di mettere in piedi una commissione bipartisan che, copiando da quanto accade in altri paesi, faccia uscire le forme dell’esercizio della democrazia da un ottuso formalismo burocratico ottocentesco, che non tollereremmo in nessun altro settore della vita sociale, e che con certezza incide pesantemente sui livelli di comprensione e di partecipazione democratica? La forma è il contenuto, ed è incomprensibile che non lo si capisca. A meno che non sia una volontà implicita. Che non rimanda, tuttavia, alla formula gattopardesca del cambiare tutto, o almeno qualcosa, perché nulla cambi. Qui siamo più indietro: non si fa nemmeno finta di cambiare qualcosa. Prevale, semplicemente, la forza d’inerzia. La forza più grande della storia, come diceva Tolstoj. La più ingombrante e deleteria, nel nostro caso.
Senza quorum?, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 10 giugno 2025, editoriale, pp. 1-2
Eid al-Adha e macellazione islamica. Qual è veramente il problema?
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Società / Society /da AugustaPuntuale come la festa islamica dell’Eid al-Adha, che commemora il sacrificio di Abramo, celebrata in questi giorni, arriva anche la polemica intorno a essa. Che consiste nella protesta contro lo sgozzamento di agnelli e montoni per celebrare l’occasione: altrettanto rituale del rito stesso.
Ora, possiamo capire che gli animalisti si lamentino: è pur sempre un sacrificio animale. E chi gli animali non li mangia è evidente che non sia d’accordo, ed è sacrosanto che possa manifestare la propria opinione: che non è solo legittima, ma esprime un punto di vista su cui c’è molto da riflettere, anche in termini di sostenibilità del pianeta e del nostro stile di vita. Il che implicherebbe protestare in egual misura sia nei confronti di chi gli animali li uccide e li mangia per motivi religiosi, sia di chi lo fa per il puro piacere del palato, o semplicemente per abitudine e idee diverse in materia.
È quando la protesta è per così dire selettiva, che insospettisce. Come accade sempre più spesso intorno alla festività islamica, detta anche Eid al-Kabir, la festa grande. In primis perché la macellazione halal è esattamente identica, sia nelle motivazioni che nell’aspetto tecnico (lo sgozzamento dell’animale previo taglio della carotide, e il conseguente progressivo dissanguamento) alla macellazione ebraica kosher. Infatti molti di coloro che protestano, quando lo scoprono, si ritirano in buon ordine: anche perché la macellazione kosher è legale da quando esistono gli ebrei, cioè da prima che esistessero i cristiani. Com’è che proteste di fronte ai macelli che lavorano per le comunità ebraiche non ce ne sono? Se invece il problema sono gli agnelli, ricordiamo sommessamente che, in occasione della Pasqua, cristiani e laici ne fanno una strage ben più cospicua ogni anno, con numeri imparagonabili. Infine, in passato, e un po’ di nascosto anche nel presente, l’uccisione per dissanguamento era pratica abitudinaria della civiltà contadina, in particolare per il maiale, animale invece considerato impuro per ebrei e musulmani.
Torniamo all’islam. La pratica è tradizionale e diffusa. Personalmente vi ho assistito in diversi paesi musulmani, e anche da noi. L’importante è che non avvenga in privato, senza rispettare elementari norme igieniche, come occasionalmente accaduto in passato. È per questo, peraltro, che le comunità islamiche, esattamente come quelle ebraiche, hanno siglato degli accordi con i macelli, a termini di legge e nel rigoroso rispetto di tutte le normative. Aggiungiamo, peraltro, che il cibo viene condiviso anche con i poveri e gli indigenti, nella misura di un terzo, essendo un tradizionale atto di elemosina e di condivisione, appunto. Ma proprio per questo è pratica oggi spesso sostituita dal conferimento dell’equivalente del costo dell’animale in opere di carità. Infine, se il problema è la sofferenza dell’animale, ricordiamo che ci sono molti studi e opinioni di veterinari che sostengono come l’animale soffra meno, mediante il dissanguamento. Il che non dovrebbe stupire, visto che – e non è ovviamente un suggerimento – quello per dissanguamento è il modo meno doloroso che conosciamo anche per suicidarci. In più, nel caso degli animali, viene accompagnato da una benedizione: un atto di rispetto a noi ignoto, che pure apprezziamo tra i nativi americani e altre popolazioni indigene.
Parliamo del problema vero, allora, se vogliamo porlo. Che è quello dell’industrializzazione della morte animale nella modernità. Che ha una storia lunga, tutta occidentale e non religiosa: la catena di montaggio non l’ha inventata Henry Ford per le automobili, ma lo Union Stock Yard, il macello di Chicago, da cui Ford prese ispirazione.
Il macello islamico. Indignati con chi e per cosa, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 giugno 2025, editoriale, pp. 1-5
I referendum non sono tutti uguali. Perché quello sulla cittadinanza è il più importante.
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Politica / Politics Articles, Articoli di Società / Society Articles, Politica / Politics /da AugustaIl referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché
di Stefano Allievi
https://corrieredelveneto.corriere.it/notizie/politica/25_giugno_06/il-referendum-piu-importante-e-quello-sulla-cittadinanza-vi-spiego-perche-b2ca57b1-e0ee-4a7b-aa7e-70570f470xlk.shtml
Non tutti i referendum sono uguali. Non tutti hanno lo stesso valore e lo stesso peso. E questo a prescindere dalle convinzioni di ciascuno di noi.
I cinque referendum per cui siamo chiamati a votare sono tra loro molto eterogenei, e questo rischia di avere effetti anche sulla partecipazione al voto. Quattro di essi sono sul tema del lavoro, e hanno a che fare con le forme contrattuali, i licenziamenti e gli appalti. Uno invece si occupa di cittadinanza. I primi quattro, più che avere a che fare con norme di principio, toccano aspetti tecnici. Che insieme, forse, disegnano un mondo del lavoro diverso da quello attuale (migliore o peggiore, dipende dalle opinioni che abbiamo): ma non trasformano la conformazione della società in maniera radicale. Quello sulla cittadinanza, invece, per vertendo anch’esso su un aspetto tecnico apparentemente minore, si salda con una questione di principio, di appartenenza, di identità, molto forte e molto discussa: chi ha il diritto di dirsi cittadino, chi è considerato membro a pieno titolo del patto sociale.
I testi
I testi dei quesiti sono tutti e cinque incomprensibili. E sarebbe il caso di predisporre una modifica delle norme che vincolano a una stesura meramente burocratico-formale dei quesiti (volete voi l’abolizione dell’art X della legge Y?) per favorire una scrittura dei testi basata sulla comprensibilità dei contenuti (altrimenti, come stupirsi di una sempre più scarsa partecipazione a ciò che viene impedito di capire?). Ma se i quesiti sul lavoro toccano più marginalmente la vita delle persone, quello sulla cittadinanza decide sul “diritto ad avere diritti”, come lo chiamava Hannah Arendt. Di un’idea di società, più aperta o più chiusa, più inclusiva o più escludente, perché decide chi della società è membro a pieno titolo, arrivando a incidere sulla dimensione stessa della società, presente e futura, sulla sua numerosità. In questo assomiglia più a referendum spartiacque della storia italiana, come quello sul divorzio o sull’aborto.
La cittadinanza
Cosa chiede questo referendum? Di far scendere gli anni di residenza necessari per poter avanzare la domanda di cittadinanza. È il modo migliore per arrivare a una nuova normativa? No, evidentemente. Il tema avrebbe meritato un’ampia discussione parlamentare, che avrebbe fatto salire anche la consapevolezza del paese sul tema. Ma la politica non ha voluto farla: come su tutte le questioni importanti ma divisive (e tutte le questioni importanti lo sono) preferisce abdicare al suo compito. Motivo per cui, come sulle tematiche assai sentite dei diritti civili, tocca aspettare le sentenze della Corte Costituzionale. O, appunto, i referendum.
I promotori del referendum, avendo solo la possibilità di abrogare qualcosa (la normativa italiana non contempla il referendum propositivo), hanno scelto una strada semplice: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma ridurre i tempi, portando gli anni necessari per poter fare domanda da dieci a cinque (come in Germania, in passato il paese europeo con lo ius sanguinis più rigoroso, ma anche Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo, mentre in Austria e Finlandia sono sei). Il problema è che in Italia non sono reali: lo stato si prende ufficialmente tre anni di tempo per rispondere, ma spesso sono di più (senza conseguenze: nessuno fa causa a uno stato che può decidere se siamo suoi membri), e quindi si arriva quasi ai dieci sostanziali (quindici, oggi).
Le conseguenze
La riduzione dei tempi non tocca solo chi può presentare la domanda (molti non lo faranno comunque, per disinteresse, o perché cittadini di paesi che non contemplano la doppia cittadinanza). L’acquisizione della cittadinanza dei genitori andrebbe a ricadere automaticamente sui figli minori (sono esclusi quindi i minori stranieri non accompagnati), intervenendo quindi sul mai approvato ius scholae: una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (in realtà meno, per i motivi detti prima), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione frequenta le nostre scuole insieme ai nostri figli. Persone che spesso si sentono cittadini. Che i loro compagni considerano loro pari. Che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono di origine straniera. Ma a cui sono negati i diritti che hanno i nostri figli. E a cui restituiamo ogni giorno, per questo solo fatto, un messaggio di esclusione, di rifiuto. Un messaggio che dice: tu non sei come noi. Difficile considerarlo un incentivo all’integrazione. E quindi un vantaggio per noi, autoctoni.
Il referendum più importante è quello sulla cittadinanza. Vi spiego perché, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 6 giugno 2025
Se la politica non fa il suo mestiere. Il referendum sulla cittadinanza
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaToccherebbe alla politica, intervenire. Ma la politica non lo fa: perché bisognerebbe aggiornarsi, studiare i dossier, gli effetti delle proprie scelte (o non scelte), magari arrivare a un decente compromesso tra visioni differenti. E invece è più facile e comodo ripetere i soliti quattro slogan per essere eletti, e non fare nulla – costa meno. È per questo che, sulla questione della cittadinanza per gli immigrati, si è arrivati al referendum, così come su altre questioni, come quelle bioetiche e legate ai diritti civili, tocca aspettare la Corte Costituzionale.
Su questo tema, poi, le occasioni perse sono clamorose. Non solo non è intervenuta la destra, per non dover rinnegare decenni di indiscriminata propaganda anti-immigrati, con la quale i voti li raccoglie (anche se li rinnega nei fatti: con questo governo ha decretato il più ampio decreto flussi della storia italiana, così come Berlusconi ha promosso le sanatorie più numerose, ma guai ad ammetterlo). Anche la sinistra, quando era al governo e aveva i numeri per approvare una legge (anche quelli dei sondaggi: la gente era d’accordo, e i giovani ancor più), per pavidità, ha lasciato perdere. E così è toccato inventarsi un referendum, che di necessità propone una scelta netta, anziché consentire lo spazio per una ampia discussione su una riforma, che sarebbe stata una imperdibile occasione di maturazione della pubblica opinione, su un tema di valenza storica: non meno di referendum come quelli sul divorzio o l’aborto, e assai più di quelli oggi al voto sul lavoro.
La via scelta dai promotori è semplice, intuitiva, lineare: lasciare la legge così com’è (con gli attuali obblighi di reddito, di conoscenza della lingua, la fedina penale pulita, ecc.), ma portare gli anni necessari per fare domanda da dieci a cinque (come in Germania, in passato il paese europeo con il più rigoroso ius sanguinis, Francia, Olanda, Belgio, Svezia e Portogallo: Austria e Finlandia sono a sei, mentre ne ha dieci la Spagna e a dieci vuole tornare la Gran Bretagna). Solo che in Italia non sono reali: lo stato si prende ben tre anni per rispondere, ma spesso sono di più (e quindi si arriva quasi ai dieci sostanziali), senza pagare pegno: nessuno fa causa a uno stato inadempiente quando è da quello stesso stato che dipende, letteralmente, la propria possibilità di acquisire, attraverso la pienezza dei diritti, una vita migliore.
L’acquisizione della cittadinanza dei genitori andrebbe a ricadere automaticamente sui figli minori (esclusi i minori stranieri non accompagnati), risolvendo quindi il dilemma del mai approvato ius scholae: coinvolgendo una platea potenziale di circa un milione e 300mila giovani (quella reale è inferiore perché molti genitori non faranno comunque la domanda), per tre quarti nati in Italia, di cui un milione presente nelle nostre scuole. Persone che, se le ascoltassimo senza vederle, nemmeno ci accorgeremmo che sono stranieri. E se ne ascoltassimo le aspirazioni, ci accorgeremmo che non sono più stranieri dei nostri figli, condividendo con loro aspettative e frustrazioni.
Cittadinanza, occasione persa per la politica, in “L’Altravoce. Quotidiano nazionale”, 3 giugno 2025, pp. 1-7
Ma esiste davvero la famiglia naturale? La sentenza della Corte sul riconoscimento della madre intenzionale
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Società / Society /da AugustaNon c’è niente di più culturale della definizione di natura. È per questo che suonano fuori luogo le proteste di chi dice che è contro natura riconoscere la madre intenzionale alla pari della madre biologica, nei matrimoni tra due donne – e ciò nel preminente interesse del bambino. Capiamo il dubbio, la fatica di adeguarsi a una mutata realtà: la nuova interpretazione contrasta con tanti anni di pratica sociale e culturale. Non il rifiuto di principio.
Del resto, cosa c’è di naturale nel matrimonio? Se fosse naturale, perché avrebbe così tante e diverse forme, e anche decisori? (più spesso di quello che crediamo non sono i – soli – diretti interessati, a scegliere). E cosa c’è di naturale nella monogamia? Le specie animali che la praticano sono rare tra i mammiferi, e perfino tra gli uccelli si limita a una o più stagioni riproduttive. Per non parlare della genitorialità, come sanno benissimo i genitori adottivi, le coppie ricostituite a seguito di divorzio o vedovanza, ma anche le coppie senza figli. Per non parlare, infine, della famiglia nucleare: e della forma delle coppie, oggi anche omogenitoriali, e in futuro chissà, magari plurime.
La famiglia nucleare stabile come oggi è pensata (genitori e loro figli) non solo non è naturale (non si sarebbe modificata nel tempo, se lo fosse), ma non è nemmeno più maggioritaria: la maggior parte dei matrimoni, statisticamente, finisce in divorzio, a seguito del quale ci sono tante soluzioni possibili quanta è la fantasia dei diretti interessati, anche rispetto alla gestione della prole. Per non parlare del fatto che, da che mondo e mondo, molti sono riconosciuti figli di chi non è loro genitore, e molti padri, in special modo, si credono genitori di quelli che non sono loro figli biologici. Insomma, la definizione di natura c’entra poco, e l’anagrafe ancora meno, dato che non sa (e per fortuna non può sapere) ciò che si sperimenta davvero nella realtà (cioè, nella nostra natura): si accontenta di dichiarazioni.
Grazie, allora, alla consulta, che ha riconosciuto questa evidenza. Che la politica non ha voluto riconoscere (come accade un po’ per tutti i temi bioetici) semplicemente perché non ha alcun coraggio e alcuna contezza della realtà, e palesemente nemmeno voglia di occuparsene, per cui in troppi casi va avanti per inerzie ideologiche e pregiudizi moralistici ma amorali.
Riconoscere come mamme entrambe le madri di una coppia, e aspettiamo lo stesso per i padri, non è che un’ovvietà che va incontro al complessificarsi della realtà: che sempre più spesso ci metterà di fronte a modelli di famiglia diversificati (si pensi ai genitori che si scoprono transgender dopo aver già partorito o cresciuto dei figli), e anche sempre più instabili, nella misura in cui aumenta (e aumenta inesorabilmente) la mobilità sociale e culturale, quella geografica (che non necessariamente implica che si debba spostare tutta la famiglia), e anche, banalmente, la durata della vita. Possiamo davvero immaginare che la coppia monogamica possa non subire modificazioni – e, lo diciamo con affettuosa ironia, risultare sopportabile – a seguito di una durata media della vita già oggi doppia rispetto a un secolo fa, e che potrebbe ulteriormente raddoppiare entro i prossimi cinquant’anni? Non produrrà, anche questo, una nuova conformazione delle relazioni affettive, nelle diverse fasi della vita?
Certo, questa instabilità e variabilità a molti fa paura, legittimamente. Ma non è che la conseguenza sul piano familiare di quanto sta accadendo nel mondo del lavoro, nell’aumentata mobilità geografica, persino nel mutamento religioso e a maggior ragione in quello della cultura, delle idee, dei valori: in cui cambiare opinione e comportamenti, anche a seguito dell’innovazione tecnologica (la stessa che rende oggi pensabili e possibili modi di pensare, di fare e pure di riprodursi in passato tecnicamente impossibili) è diventata più la norma che l’eccezione.
I nuovi modelli di famiglia, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 24 maggio 2025, editoriale, pp. 1-3
Tra chiesa e moschea. Le trasformazioni del paesaggio religioso.
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Religione / Religion Articles, Religione / Religion /da AugustaNei giorni scorsi, su questo giornale, due istruttive pagine di inchiesta ci informavano, da un lato, sulla crisi della chiesa veneta, e dall’altro, sull’ennesima polemica intorno alla costruzione di una moschea. Due notizie che ci raccontano due pezzi diversi della medesima storia. Che è utile mettere in sequenza, e intorno alle quali costruire un ragionamento.
Il calo delle vocazioni sacerdotali (e di conseguenza il loro invecchiamento) non è solo un problema della chiesa cattolica, ma in essa è particolarmente visibile: circa 6000 in Veneto mezzo secolo fa, 3700 oggi, ma in calo tendenziale ulteriore e drammatico. È presente anche in altre chiese e religioni, e rappresenta la crisi di motivazione di un ruolo in quanto tale sempre meno sentito e considerato meno appagante. Ma in altre forme religiose (dai pentecostali al mondo new age) è invece ancora attrattivo e pregno di significato. Il che ci dice che la forma non è irrilevante, anche rispetto alla possibilità e alla capacità di veicolare un contenuto. Ad esso bisogna aggiungere l’abbandono della tonaca (che peraltro quasi nessuno mette più: è rimasto un modo di dire) da parte di chi prete lo è già, e se ne va via, in fondo per gli stessi motivi per cui altri non vengono più: per una crisi di senso, ma anche per desiderio d’altro (incluso l’amore e la sessualità: che altri magari vivono all’interno e di nascosto). Quello che era un mestiere una volta stimolante, di prestigio e con adeguato riconoscimento sociale, oggi è spesso, in molte sue forme, faticoso e ripetitivo, mentre la sua centralità sociale e la sua influenza sono tracollati, riducendo i preti alla meno attrattiva figura di “funzionari di Dio”, per riprendere il titolo di uno splendido libro di Eugen Drewermann, teologo e psicanalista (e oggi ex-sacerdote), che i suoi confratelli li ha avuti in terapia per una vita. E questo a dispetto dello spessore umano, spesso notevolissimo, di figure sacerdotali che in taluni casi diventano esempi di riferimento anche per il mondo laico, e preziosi costruttori di comunità. Calano anche le vocazioni di monaci e suore, e di conseguenza anche i servizi, da queste ultime in particolare, erogati, talvolta come manodopera a basso costo, nel mondo dell’educazione e dell’assistenza: anche questo un modello da mettere in discussione come tale.
A parole il rimedio sarebbe coinvolgere i laici. Ma poi, nella pratica, i parroci si tengono stretti potere decisionale e cassa, e gerarchia delle priorità, lasciando i laici, pure indispensabili nella gestione concreta, in posizione ancillare e subordinata (non vero coinvolgimento, mai alla pari, e soprattutto niente ruoli decisionali anche simbolicamente rilevanti per le donne, senza la cui presenza e il cui lavoro, pure, le parrocchie non starebbero in piedi): anche per responsabilità dei fedeli, che continuano ad avere un’idea di chiesa clericocentrica e quindi de-responsabilizzante per loro stessi.
Il ruolo del prete finisce per essere soprattutto rassicurante, in particolare per gli anziani, che oggi costituiscono la presenza maggioritaria alle funzioni: li tranquillizza che nulla è cambiato. Ma non è così, e gli altri allora non entrano nemmeno più, perché non riconoscono l’ambiente come proprio. L’effetto è il crollo della partecipazione settimanale, ormai ridotta a meno di un quinto della popolazione (molto meno, nelle città) e di conseguenza dei contributi economici, cioè a dire della fiducia.
Il Covid ha dato il colpo di grazia a un processo che sarebbe avvenuto comunque (anche perché viene da molto lontano: i primi studi sulla secolarizzazione risalgono agli anni Sessanta), ma più gradualmente. La disaffezione dei giovani è cresciuta, e la prevalenza di anziani che rispondono a una fede espressa in maniera tradizionalista, non più comprensibile per le nuove generazioni (anche nelle cose minute, come nella punitiva insistenza a mantenere gli orari delle messe al mattino in orari incompatibili per i giovani che il sabato fanno legittimamente tardi), allontanandole ulteriormente.
Gli altri dati completano il quadro. Educazione religiosa al massimo fino alla cresima, matrimoni civili in crescita esponenziale (da un decimo mezzo secolo fa a due terzi oggi: e molti di quel terzo rimasto, per motivi che spesso hanno a che fare più con l’estetica che con la fede), convivenze in aumento, nascite al di fuori del matrimonio che sono oltre la metà tra le coppie giovani, riducendo a fortiori il numero di battesimi.
Eppure la domanda di spiritualità non è diminuita, e nuove forme di religiosità si fanno strada. All’interno della chiesa cattolica e al suo esterno. Incluso nelle nuove religioni arrivate per via migratoria, di cui quella che fa più discutere è l’islam, ma che tutte testimoniano un nuovo e vivace pluralismo religioso. Esse non pongono alcun problema di concorrenza, e peraltro sono soggette alle medesime tendenze in precedenza evidenziate: solo in maniera meno visibile e più lenta. Ma a proposito dell’islam detta ancora legge, o per lo meno urla più forte, lo schema leghista della protesta a prescindere. Anche se si assiste a una maturazione altrove, incluso tra le forze politiche di centrodestra, meno disposte a farsi trascinare sul terreno di un inutile scontro, e nella società. Qui la religione, e concretamente la moschea, gioca un ruolo di integrazione, e dunque di maggiore sicurezza, come attestano anche le forze dell’ordine, mentre è il pregiudizio che ad esse si oppone che produce dis-integrazione e conflitto sociale. La discriminazione è sempre e solo riferita a musulmani e moschee, contro le quali la regione si è già prodotta in una legge discriminatoria (contro cui si sono schierate tutte le comunità religiose, dai cattolici agli ebrei) quanto inutile. Ma la moschea fa sentire i musulmani più cittadini in quanto riconosciuti anche nella loro specificità religiosa (peraltro costituzionalmente protetta, come quella di tutti) e quindi più integrati. E a chi, per giustificare la sua contrarietà, richiede prima un accordo con lo Stato, rispondiamo, per esperienza (ero membro del Consiglio per l’islam italiano, presso il Ministero dell’interno), che è lo Stato (rappresentato dagli stessi partiti che localmente invocano un accordo che nazionalmente impediscono) che non lo vuole. Le organizzazioni islamiche lo firmerebbero domani. Chiedessero dunque, nel caso, ai loro rappresentanti di darsi una mossa.
La chiesa e le nuove religioni, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 14 maggio 2025, editoriale, pp.1-7
Di bambini, moschee, polemiche politiche e identità reattive
/in Argomenti / Topics, Articoli / Articles, Articoli di Società / Society Articles, Articoli sull'Islam / Islam Articles, Islam, Società / Society /da AugustaLa questione della visita dei bambini di una scuola cattolica a una moschea (non importano i nomi e i luoghi) ha avuto una eco molto forte, così come il nostro editoriale di ieri l’altro sul tema. Decine di condivisioni, ma anche diversi educati interventi critici dei nostri lettori. Segno che è un tema sensibile, su cui si ha voglia di discutere. Proviamo, allora, a tirare le fila delle critiche. E a rispondere, per quanto possibile nei limiti di un articolo, quando al tema ho dedicato libri interi.
Un primo livello di discussione riguarda la scelta della scuola, e la sua autonomia decisionale. Può una scuola frequentata da molti bambini musulmani fare un approfondimento, con visita guidata, su quella religione? Lo può decidere solo lei. Non i genitori: che pure, in questo caso, sono stati consultati preventivamente e hanno espresso il loro assenso. Lo stesso per l’educazione all’affettività e sessuale: si può fare solo se i genitori sono d’accordo? Sicuri? Se di educazione sul tema abbiamo bisogno, si fa, punto. E poi come si quantifica il disaccordo? Sarebbe democratico se bastasse l’opposizione di uno per ledere l’interesse di tutti? Così come non si consultano i genitori, e nemmeno la politica, sui programmi di italiano. Molti genitori pensano che la matematica non serva a niente, altri considerano pericolosa persino la biologia perché si parla di genere, ma non per questo si smette di insegnarle. Quando è stato introdotto l’obbligo scolastico, molti genitori erano contro: lo stato non interveniva con comprensione, ma mandava i carabinieri a prelevare in casa i bambini per portarli a scuola.
Le strumentalizzazioni della politica hanno le loro ragioni. Ma non hanno nulla a che fare con il merito delle questioni. La politica vive di contrapposizioni, e il consenso si costruisce meglio se hai un nemico, come insegnava Machiavelli. Se poi il nemico è una minoranza stigmatizzata (che siano gli ebrei in altre epoche, o gli immigrati, o i musulmani oggi, ma potrebbero essere i gay – o magari i conservatori o i razzisti o semplicemente quelli con un’opinione diversa dalla nostra, i presunti cattivi giudicati dai presunti buoni), si chiama capro espiatorio, e serve per acchiappare voti. Non è nobile, ma funziona, e la politica lo sa benissimo, e ne usa a man bassa. Tanto più perché le minoranze contano meno, e spesso hanno meno diritti, incluso quello di voto in questo caso, per cui non si paga pegno: si guadagnano i voti di chi è contro, senza perdere quelli dei diretti interessati. È un meccanismo che mostrano bene le identità reattive: quelle che si formano in reazione, o contro, qualcuno. Come la pletora di persone che hanno scoperto di essere cristiane da quando ci sono i musulmani: prima non se ne erano accorte. Tuttora i politici che tuonano di più di radici cristiane sono quelli che in chiesa vedete meno, e a cui il contenuto del messaggio evangelico interessa meno. Ma vale anche per altre minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali: tanto che i conflitti più forti spesso non sono tra gruppi, ma al loro interno, a proposito degli altri.
C’è chi, nel merito, chiede di difendere i valori cattolici. Legittimo. Forse la domanda vera è se a minacciarli è il nemico che ci viene messo di fronte, l’islam, o quello che ci sta alle spalle, apparentemente nostro alleato: la secolarizzazione, l’individualismo, il consumismo e quant’altro. E se i religiosi di altre comunità non siano semmai dei potenziali alleati. Anche perché, poi, il problema vero è chi decide quali sono, i valori cattolici: per qualcuno tutto si riduce all’aborto, per altri all’accoglienza degli immigrati, mentre probabilmente le cose sono un po’ più complesse.
C’è chi ha sollevato il tema della reciprocità. Comprensibile, ma nel caso in questione mal posto, visto che è un ambiente cattolico, dove si prega e ci si fa il segno della croce con regolarità. Anche questo tema, tuttavia, è più complesso: in Marocco o in Senegal, per fare un esempio, i cattolici godono di piena libertà di culto, in Afghanistan no – dobbiamo prendercela con i marocchini che sono da noi perché gli afghani che non sono da noi non ce la danno? Anche la polemica sul fatto che i bambini in moschea si sono inginocchiati e hanno mimato il gesto della preghiera, appare fuorviante: i bambini fanno e imparano così, e cinque minuti dopo se ne sono dimenticati, ed è il loro bello, e la loro libertà, da cui avremmo molto da imparare. A scuola si fa questo. Se lo chiamiamo indottrinamento, come dovremmo chiamare l’allenatore che porta i ragazzi a tifare per la squadra che piace a lui, o l’insegnante (o il parroco, o l’assessore) che gli fa leggere un libro o li porta a teatro a vedere un autore che ha un proprio specifico punto di vista: che li indottrina, o che gli offre delle opportunità e li abitua alla pluralità dei punti di vista?
Il problema vero, alla fine, è l’islam, o meglio il nostro modo di percepirlo. Se siamo convinti che vogliono islamizzarci per via demografica, o vogliono imporci la sharia (da cui spesso sfuggono, proprio per vivere più liberi da noi), o vogliono togliere il crocifisso o il presepe dalle scuole (mai successo per iniziativa dei musulmani, che iscrivono i loro figli e ancor più figlie pure a scuole cattoliche), anche se è un sentito dire, non cambieremo idea neanche di fronte all’evidenza.
Il problema è la questione femminile? Molto giusto. Ma perché la nostra attenzione è selettiva? Perché a proposito dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina non islamiche non protestiamo? Perché se un marito o un padre pakistano è violento con la propria moglie o figlia diciamo che è colpa dell’islam, mentre se è rumeno non diamo colpa all’ortodossia, e se è italiano al cattolicesimo? E se il problema è la democrazia (problema serissimo), siamo sicuri che certi hindu, protestanti o ebrei siano più democratici? Non è un problema di modello di sviluppo, di singolo paese, di epoca storica, più che di religione? Avremmo giudicato il cattolicesimo compatibile con la democrazia, nell’Europa degli anni ’30, quando la chiesa era alleata di Mussolini, Franco, Salazar, o trent’anni fa in America Latina, quando sosteneva le peggiori dittature centro e sud americane?
Certo, nell’islam ci sono dei problemi. Il terrorismo jihadista ce lo ha insegnato (peraltro trent’anni fa il terrorismo da noi era politico, oggi nel mondo è spesso anche indipendentista, etnicista, e pure suprematista e razzista, e quando è religioso non è solo islamico). Lo combattono anche la maggioranza dei musulmani. È giusto parlarne e sollevare il problema. Per affrontarlo insieme, nell’interesse di tutti. Non per combattere i fedeli di una religione, in nome di un’altra, o forse solo di una presunzione di superiorità. Che si dovrebbe dimostrare nei fatti.
La società, le religioni, la politica, in “Corriere della sera – Corriere del Veneto”, 8 maggio 2025, editoriale, pp. 1-5