Renzi segretario. Parola d'ordine: accelerazione
Accelerazione. Non è la parola che ha usato Matteo Renzi, ma è quella che meglio riassume il suo discorso di insediamento come segretario, e il suo progetto sul Partito democratico e per il paese.
Accelerazione: perché non c’è più tempo, perché bisogna fare in fretta, perché niente basta più. Il paese ha bisogno di andare velocemente in una nuova direzione: cambiare verso, come recitava lo slogan di Renzi. Rapidamente: come la sua parlantina svelta, e come la battuta pronta che lo caratterizzano. Solo che non si tratta più solo di parlare: questo andava bene durante la campagna elettorale per le primarie. Adesso che è il leader del primo partito del paese, si tratta di fare. E le cose saranno evidentemente più complicate.
I primi segnali sono chiari. Bisogna fare in fretta le riforme: quella elettorale in primo luogo. Da qui il passaggio subitaneo dell’iniziativa dal senato, che l’aveva fatta finire nella palude dell’inutilità e della mancanza di iniziativa, alla camera. Il decreto sull’abolizione, per quanto parziale e a scoppio ritardato, del finanziamento ai partiti, va nella stessa direzione, come segnale mandato a un’opinione pubblica che vuole vedere azioni positive da subito. Certo, è stata voluta da Letta: ma sarebbe stata impensabile, in tempi così rapidi, senza il pungolo di Renzi. La concorrenza diventa virtuosa, in questo senso: se la corsa è a chi fa più in fretta, se il governo o il principale tra i partiti che lo sostengono, il paese non ha che da guadagnarci, visto che finora erano immobili entrambi.
La stessa elezione di Renzi a furor di popolo è un segnale di accelerazione che gli elettori hanno mandato agli eletti. Come lo è, sul piano simbolico, l’aver nominato una segreteria di men che quarantenni, e una direzione ugualmente molto giovane, entrambe con una fortissima presenza femminile: anche questo un segnale che bisogna rendere più visibili processi di emancipazione presenti nella società, ma che tra le sue classi dirigenti fanno fatica ad esprimersi. In fondo, anche aver convocato la segreteria alle sette e trenta del mattino, rompendo con i rituali di infinita lentezza della politica romana, è un segnale di accelerazione, di dinamismo, che si traduce sui contenuti: riunioni operative, rapide, con obiettivi precisi e tabelle di marcia accelerate. Anche la ritualità del modo di fare politica ne risente: e non è male, visto che si è fermata a mezzo secolo fa – e non solo a Roma.
Tutto questo però non basta. Il paese ha fretta. Perché la crisi morde, e perché non ne può più persino culturalmente della politica del rinvio, che ha caratterizzato anche il primo periodo del governo delle larghe intese, paralizzato come era dai litigi nella propria maggioranza. Adesso che, con l’uscita di scena di Berlusconi, la conflittualità interna è scesa, l’azionista di maggioranza del governo, il PD, potrà servire da stimolo, come si è visto. Ma non basta.
Renzi, nel suo discorso, ha puntellato le iniziative che ha promesso – da quelle, molto attese, sul lavoro a quelle sull’Europa e sulla cultura, oltre quelle sulle riforme istituzionali – di scadenze immediate: “nelle prossime settimane”, non mesi. Perché sa che l’elettorato che si è mosso così numeroso per portarlo sul ponte di comando, non gli ha firmato una cambiale in bianco, ma un mandato a termine: e con un termine assai breve. La politica è stata ferma, ma la società è matura per il cambiamento, e anzi lo richiede e cerca di imporlo: ieri votando Grillo, oggi sostenendo Renzi, domani forse, se non vedrà segnali chiari, allargando in direzioni oggi imprevedibili il movimento di protesta. Ecco perché l’accelerazione diventa una categoria politica Perché, come diceva Lord Keynes – e oggi ne abbiamo una consapevolezza assai più palpabile e urgente – “nel lungo periodo saremo tutti morti”.
Parola d’ordine: accelerazione, in “Il Piccolo”, 17 dicembre 2013, p.1